QUESITO:
Vi scrivo per risolvere un dubbio di retorica relativo in particolare a due casi in cui la ripetizione di una parola si carica di un significato diverso tra un’occorrenza e l’altra. Cito dal prologo dell’Aminta, pronunciato da Amore: “questo io so certo almen, che i baci miei / saran sempre più cari a le fanciulle, / se io, che son l’Amor, d’amor m’intendo”; e “e se mia madre, / che si sdegna vedermi errar fra’ boschi, / ciò non conosce, è cieca ella, e non io, / cui cieco a torto il cieco vulgo appella”.
Nel primo caso, la ripetizione di amore, prima come nome proprio, poi come nome comune, oltre alla variazione poliptotica, è corretto parlare di aequivocatio? Oppure quale altra figura retorica potrebbe descrivere adeguatamente l’artificio? Nel secondo caso invece, in cui si passa dall’uso proprio a quello figurato dell’aggettivo cieco, quale figura viene utilizzata?
Potrebbe essere appropriato parlare di diafora in casi come questi?
RISPOSTA:
I due casi sono riconducibili alla stessa figura, la diafora, ovvero la ripetizione dello stesso termine a breve distanza con un significato diverso. Lo scarto tra il nome proprio e il nome comune ricorda l’uso che della figura fa Manzoni nei Promessi sposi: “La mattina seguente Don Rodrigo si destò Don Rodrigo”, in cui il secondo Don Rodrigo funge più da sintagma nominale comune che da nome proprio e si interpreta come ‘la solita persona’, ‘la persona che era sempre stata’. Nel secondo caso, il significato dell’aggettivo passa da quello figurato (cieca) a quello proprio (cieco detto di Amore) nuovamente a quello figurato (cieco detto del popolo).
La aequivocatio è un caso estremo di paronomasia, nel quale due parole omografe sono usate nella stessa frase, ad esempio: “L’uomo è solito amare le cose amare”, o “Salutare le persone cordialmente è salutare (‘giovevole alla salute’)”.
Fabio Ruggiano