QUESITO:
Tra gli elementi che rendono sostantivato un infinito figura l’articolo; leggo però che l’articolo può essere anche omesso. Ma allora come distinguere tra una frase con infinito sostantivato e una subordinata soggettiva? Es. «È stato bello conoscerti» in cui probabilmente «conoscerti» è una subordinata soggettiva implicita («conoscere» + «ti», complemento oggetto) retta dalla principale impersonale «È stato bello». Ma se capovolgessimo la frase, risulterebbe: «(Il?) Conoscerti è stato bello» in cui «Conoscerti» è il soggetto (infinito sostantivato), «è stato», copula; mentre «bello», nome del predicato (aggettivo)?
RISPOSTA:
La differenza tra infinito sostantivato e proposizione infinitiva (cioè, in questo caso, completiva implicita) è molto sottile e dipende in gran parte dalla teoria linguistica di riferimento di chi tratta la questione. È quindi un problema più di grammaticografia e di linguistica che di grammatica in senso proprio (cioè di funzionamento della lingua). Tant’è vero che mettendo a confronto le due principali trattazioni al riguardo si hanno spiegazione pressoché antitetiche: Verner Egerland e Raffaele Simone, Sostantivato, infinito, in Enciclopedia dell’italiano Treccani (leggibile qui) da un lato e il capitolo sulle subordinate all’infinito nel secondo volume della Grande grammatica italiana di consultazione del Mulino, curata da Renzi, Salvi e Cardinaletti. In quest’ultima grammatica il quadro è ben più complesso, tant’è vero che l’articolo non è considerato un discrimine d’uso nominale del verbo, visto che alcuni casi di infinito preceduto da articolo vengono annoverati tra le subordinate infinitive. Viceversa, nell’articolo di Egerland e Simone, anche casi privi di articolo vengono annoverati tra i casi di infinito sostantivato. I confini tra le due categorie, uso nominale e uso verbale dell’infinito, sono spesso sottili e sfumati, come conferma, del resto, la stessa natura dell’infinito (e degli altri modi indefiniti: gerundio e participio) come forma nominale del verbo. Per essere chiari e pragmatici, e mediando tra i due estremi dei saggi appena citati, possiamo ritagliare due categorie: quella dell’infinito usato come nome e quello dell’infinito usato come verbo. Per comodità, diciamo che tutte le volte che l’infinito è preceduto dall’articolo o dalla preposizione articolata funge da nome. Ma non è vero il contrario. Se, per esempio, un infinito è privo di articolo ma è accompagnato da un aggettivo mantiene comunque il valore nominale: «s’alzarono a volo uno dopo l’altro con gran sbattere d’ali» (Calvino 1993, cit. in Egerland e Simone). Lo stesso dicasi per gli infiniti preceduti da preposizioni diverse da di e per, che sono sostantivati pur senza articolo: «Tra andare e venire non so più dove sbattere la testa» (andare e venire sono infiniti sostantivati). Tutte le volte, invece, in cui un infinito non preceduto da articolo né preposizione (semplice o articolata) dipende in modo inequivocabile da un altro verbo (che non sia ausiliare, servile, causativo, aspettuale) è bene per comodità considerarlo come subordinata completiva (soggettiva o oggettiva) e non come infinito sostantivato, indipendentemente dalla posizione. Pertanto sia in «È stato bello conoscerti» sia in «Conoscerti è stato bello», conoscerti va analizzato come subordinata soggettiva implicita. Mentre «Il conoscerti è stato bello» va analizzato (secondo la nostra tipologia) come infinito sostantivato, sebbene con ogni probabilità il capitolo della Grande grammatica analizzerebbe anch’esso come subordinata soggettiva implicita.
Fabio Rossi