QUESITO:
Il verbo pensare presenta delle difficoltà di non facile soluzione. In molti casi non ci sono dubbi: “io penso a lei”, “io penso bene di lei”. Quando, però, il verbo pensare è seguito da un verbo all’infinito, sorgono dubbi.
Faccio degli esempi: “Lui pensa a vendere la macchina” ben diverso da “Lui pensa di vendere la macchina”. Nel primo caso s’intende che lui si occupa della vendita della macchina, nel secondo caso lui è dell’idea di vendere la macchina. Altri esempi: “Lui pensa a lavorare bene” contrapposto a ” Lui pensa di lavorare bene”. Nel primo caso lui s’impegna a lavorare bene, nel secondo caso lui ritiene di lavorare bene. La differenza non è sottile. Altro esempio: “Lui pensa a trovar moglie” e “Lui pensa di trovare moglie”. Nel primo caso lui si dà da fare nella ricerca di una moglie, nel secondo caso lui pensa che troverà una moglie. Anche qui sono due concetti ben diversi. In altri casi la differenza è invece minima,
impercettibile: “Lui pensa a lasciare l’incarico”; ” Lui pensa di lasciare l’incarico”.
Ora le chiedo: le risulta che esista una regola nell’utilizzo del verbo pensare?
Quando pensare a e quando pensare di?
RISPOSTA:
Il verbo pensare seguito da una proposizione completiva all’infinito ammette una duplice reggenza preposizionale (sebbene in questo caso le preposizioni fungano da congiunzioni) in grazia del suo significato molto ampio; le due preposizioni, cioè, selezionano ciascuna una diversa parte del significato del verbo, coerente con la propria funzione. La a, che è la preposizione della direzione, seleziona il significato più fattivo del verbo, quello relativo al trovare, grazie al pensiero, il modo per raggiungere un obiettivo (quindi ‘progettare’, ma anche ‘adoperarsi per’). La preposizione di, invece, che instaura relazioni di pertinenza, anche riguardo all’argomento (discutere di politica), seleziona il significato più contemplativo: ‘ponderare, riflettere, valutare’. La reggenza di di, si noti, è limitata ai casi in cui pensare regga una proposizione completiva all’infinito; per il resto la preposizione selezionata è a.
Pensare può essere anche transitivo, e reggere un nome o un pronome: pensare una soluzione, che cosa ne pensi?, o una proposizione: pensa quanto ci divertiremo domani. In questi casi il verbo assume il suo significato più generico: ‘immaginare, formare un giudizio nella mente’. Si noti che l’ultima frase (pensa quanto ci divertiremo domani) può essere costruita anche con la preposizione / congiunzione a: pensa a quanto ci divertiremo domani, senza che questo faccia scattare il significato di ‘progettare’ o quello di ‘occuparsi di’. Questo avviene perché tale specializzazione si attiva quando sono possibili entrambe le costruzioni, con a e con di, ovvero quando la proposizione completiva è all’infinito. Negli altri casi, quando di è esclusa, la a non aggiunge una sfumatura particolare al significato generico del verbo.
Quando pensare è seguito da un nome, regge preferenzialmente a e a volte, come si è visto, è transitivo. Non regge mai di (ma è possibile, quando è transitivo, farlo seguire da un complemento di argomento: che ne pensi di Luca?). Seguito da un nome, pensare può oscillare tra un significato più fattivo e uno più contemplativo; la specializzazione semantica, in questi casi, si coglie dal senso della frase: penso io alla cena = mi occupo io della cena; penso ancora alla cena di ieri = rifletto ancora sulla cena di ieri.
Fabio Ruggiano