QUESITO:
Vorrei porre un quesito relativamente alla costruzione di frasi contenenti verbi servili/fraseologici. Nei manuali di scuola ho l’impressione che i verbi servili e i verbi fraseologici siano liquidati in poche parole e restino confinati in gruppi piuttosto riduttivi rispetto alla realtà. Per farla breve, in genere questo si trova: verbi servili: dovere, potere, volere (poi si aggiunge, in modo discreto, ma non mi pare che ci sia intesa unanime, che anche altri verbi possono essere tali: solere, sapere, desiderare, osare, preferire).
Verbi fraseologici: esprimono tentativo, imminenza, inizio, continuazione, fine di un’azione.
Finché si resta nel seminato tutto bene; mi chiedo però come vadano interpretate espressioni come:
1) riuscire a + infinito?
Ad esempio la frase «Luca non riesce a capire il teorema di Pitagora» è, a mio avviso, molto simile a «Luca cerca di capire il teorema di Pitagora», e quindi vedrei una costruzione fraseologica in entrambe. In qualche grammatica però mi è capitato di leggere che «riuscire a» regge una subordinata oggettiva. Quindi la mia idea sembra non corretta.
2) Andare/venire + infinito?
Le frasi «vieni a vedere» o «vai a controllare» contengono un’espressione fraseologica o sono da dividere in reggente e sub. finale? A me sembra che il senso sia «controlla» e «guarda» e quindi semplificherei.
3) Pensare di + infinito
Di solito «pensare» vuole un’oggettiva, ma nella frase «penso di uscire» io vedo il significato «ho intenzione di uscire» e quindi direi fraseologia per azione imminente.
4) Così poi ce ne sarebbero tante altre poco chiare al momento di fare l’analisi del periodo, come «divertirsi a giocare, decidersi a parlare, dimenticarsi di cenare» e simili. Nelle grammatiche per stranieri mi pare che venga messo tutto nello stesso calderone dei verbi fraseologici.
Invecchiando vedo che i dubbi aumentano anziché diminuire.
RISPOSTA:
Partiamo dal presupposto che avere dubbi sulla lingua è indizio di una sana inclinazione alla riflessione metalinguistica e alla riflessione in generale: il dubbio è pertanto una pratica salutare (solo i cretini non hanno mai dubbi), critica e naturalmente propria dell’età adulta. Quindi vivano i suoi dubbi! Ha ragione anche quando dice che le grammatiche più che fare chiarezza fanno confusione, sulla questione dei verbi che creano un unico predicato insieme con gli infiniti che li accompagnano. Va però detto che simili ripartizioni della realtà (cioè le classificazioni presenti nei libri di grammatica) sono, per l’appunto, classificazioni, cioè frutto del punto di vista, del metodo, dell’idea e dell’ideologia di chi le pratica. Quindi raramente esistono classificazioni giuste e sbagliate, bensì classificazioni più o meno utili secondo lo scopo prefisso. Se lo scopo di classificare i verbi che costituiscono un unico aggregato con l’infinito è di natura prevalentemente semantica, allora possono andar bene (ma non del tutto, come spiegherò tra poco) sia le attuali classificazioni (in verbi servili e fraseologici ecc.) della grammatica tradizionale, sia quelle da lei proposte (di natura, però, esclusivamente semantica: desiderare è sinonimo di volere, quindi va classificato come volere, e simili considerazioni). Se invece, come preferisco io, l’obiettivo della classificazione è quello di spiegare la sintassi della frase, la funzione dei sintagmi e il funzionamento della lingua, allora debbo ammettere che tanto la classificazione tradizionale quanto quella da lei adombrata fanno acqua da tutte le parti, mentre la classificazione proposta dalla grammatica generativa (anche nella sua versione più semplificata) è decisamente più utile e convincente. E ora spiego perché, semplificando al massimo un discorso che è in realtà molto complesso e può essere studiato, tra le altre sedi, nella Grande grammatica italiana di consultazione, di Renzi, Salvi e Cardinaletti, vol. 2, alle pp. 513-522.
Vi sono alcuni casi in cui il complesso verbo + infinito va analizzato come un unico predicato e altri casi in cui il suddetto complesso va analizzato come due frasi (o meglio proposizioni), cioè proposizione reggente + proposizione subordinata implicita. Che cosa consente di riconoscere le due categorie? Non certo motivi semantici, dato che vi sono verbi dal significato simile che appartengono a categorie diverse (come volere e desiderare, potere/provare a da un lato e osare dall’altro ecc.). Soltanto un elemento sintattico consente la distinzione, e precisamente la posizione del clitico, o particella pronominale atona. Tutte le volte che il clitico si trova davanti al verbo che regge l’infinito, allora siamo in presenza di un unico predicato (verbo + infinito). Viceversa, tutte le volte che il clitico (o l’oggetto in forma non pronominale) si trova dopo l’infinito, siamo in presenza della struttura bifrasale reggente + subordinata. Pertanto: «Riesco a incontrare Luca», «Riesco a incontrarlo» sono strutture bifrasali, mentre «Lo riesco a incontrare» è una struttura monofrasale. «Vado a vedere il film», «Vado a vederlo», «Posso vedere il film», «Posso vederlo» sono strutture bifrasali, mentre «Lo vado a vedere», «Lo posso vedere» sono monofrasali. «Penso di comprare il pane» può essere soltanto bifrasale, dato che è impossibile (o agrammaticale) dire «Lo penso di comprare». Tutti gli altri esempi da lei citati al punto 4 («divertirsi a giocare», «decidersi a parlare», «dimenticarsi di cenare») possono essere soltanto bifrasali, per i motivi già spiegati: naturalmente, lo si capisce con un verbo transitivo con oggetto espresso: «Dimentico di prendere la medicina» ma non «La dimentico di prendere». Tirando le somme, questa classificazione (bifrasale/monofrasale) serve, l’altra (verbi servili, fraeologici ecc.) non serve quasi a nulla e a nessuno. Se vogliamo conservarla, allora limitiamo l’etichetta di verbi servili a quei soli verbi che consentono la ristrutturazione, cioè la risalita del clitico che determina la trasformazione della struttura da bifrasale a monofrasale (potere, dovere, volere, solere e sapere [ma non nel senso di ‘conoscere’]). Chiamiamo fraseologici gli altri verbi, perlopiù a reggenza preposizionale, che consentono la stessa ristrutturazione, oltre ai cinque elencati: tentare di, riuscire a ecc. Oltre a quanto detto, dobbiamo ricordare che anche i verbi causativi e fattitivi (fare, lasciare + infinito) costituiscono strutture monofrasali: «Lo lascio fare», «Lo faccio fare» (sono impossibili «Lascio farlo» ecc.).
Se vogliamo invece fare una classificazione prevalentemente semantica, sarebbe meglio classificare i 5 verbi (potere, dovere, volere, solere e sapere [ma non nel senso di ‘conoscere’]) come modali, perché attribuiscono al verbo che reggono lo stesso valore di possibilità, volontà e simili espresso dal modo verbale: posso andare = andrei. Mentre chiamiamo alcuni degli altri aspettuali, perché indicano l’aspetto, cioè il modo in cui avviene l’azione: «Comincio a studiare» fotografa l’azione come incipiente, «Finisco di studiare» come terminale ecc.
Che cosa non funziona della corrente classificazione grammaticale, dell’analisi logica tradizionale e dell’analisi del periodo tradizionale? Il fatto che mette in un unico calderone oggetti diversi senza mai preoccuparsi di chiarire se li sta identificando per ragioni semantiche oppure per ragioni sintattiche. Col risultato che il parlante comune rimarrà per tutta la vita con i dubbi (più che legittimi) che ha lei. Quindi, da questo si deduce che lo studio della grammatica a scuola serve moltissimo e va rafforzato, ma anche rinnovato, alla luce delle acquisizioni della linguistica, tenendo conto di classificazioni utili, produttive e intelligenti come quelle che abbiamo qui sinteticamente cercato di illustrare. Mentre andrebbero via via abbandonate le altre classificazioni, che alla verifica dei fatti non servono a niente o sono addirittura dannose. Naturalmente la scuola evolve molto lentamente e dunque passerà ancora qualche decennio almeno, temo, prima che si verifichi un tale aggiornamento.
Sottolineo infine che tutto quello che ho appena detto a proposito della grammatica a scuola è stato detto, già decenni fa e molto più autorevolmente, da Tullio De Mauro, vale a dire uno dei più illustri linguisti del Novecento, il quale ha sempre invitato allo studio attivo della grammatica a scuola come strumento di linguistica democratica e di pensiero critico. È triste e gravissimo, invece, che proprio in questi giorni esponenti del mondo accademico e addirittura preposti all’aggiornamento dei programmai scolastici abbiamo attribuito proprio a Tullio De Mauro l’invito a liberarsi della grammatica. Un’accusa falsa e infamante, come può verificare facilmente chiunque abbia mai letto anche soltanto pochi righi dell’enorme e tuttora preziosissima produzione del compianto professor Tullio De Mauro.
Fabio Rossi