La Grande guerra maestra di scrittura

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Quando nasce l’italiano parlato, l’italiano comune standardizzato, una forma di comunicazione spicciola ed immediata, non letteraria, non dialettale, ad uso e consumo di tutti gli italiani?
Non è semplicissimo rispondere a questa domanda, dal momento che, mentre in letteratura abbiamo ampie testimonianze di unificazione linguistica almeno a partire dal Trecento, e a maggior ragione nel secolo della codificazione grammaticale e lessicografica (Cinquecento), per quanto riguarda la lingua parlata soltanto da poco più di un secolo si dispone di strumenti di registrazione in grado di documentare l’oralità.
Quel che comunemente si pensa è che il dialetto, o almeno forme compromissorie intermedie tra dialetti e italiano (gli italiani regionali), abbia dominato incontrastato almeno fino ai primi del Novecento (secondo Tullio De Mauro, in realtà, almeno fino all’avvento della televisione) e che dunque una forma di italiano parlato comune esista da non oltre 60-70 anni.
Eppure alcuni studiosi (da Arrigo Castellani a Luca Serianni, da Francesco Bruni a Enrico Testa) hanno dimostrato l’esistenza di forme di comunicazione più o meno prossime a un italiano semplificato e comprensibile (anche se pur sempre condizionato da elementi regionali) già a partire almeno dal Cinquecento. Ovviamente, la documentazione di tali forme comunicative non è data da testi orali, ma da testi scritti vicini, a vario titolo, al parlato: dalle lettere familiari ai testi teatrali, dai diari alle confessioni e testimonianze processuali ecc.
Un indubbio contributo al conseguimento, da parte degli italiani, di una forma di lingua più o meno unitaria, scritta ma che comunque risente fortemente dei retaggi del parlato, è costituito dalla Grande guerra del 1914-1918, di cui ricorre in questi anni il centenario. La ricorrenza ha dato l’opportunità, a storici, linguistici e studiosi di diverse discipline, di ricercare e approfondire la conoscenza di preziose documentazioni spesso precedentemente trascurate, quali i diari e i taccuini di guerra, le lettere dei soldati e simili.
Uno studio pioneristico sulle lettere dei soldati della Prima guerra mondiale è quello, celeberrimo, condotto dal linguista austriaco Leo Spitzer dal 1915 al 1918 e pubblicato nel 1921, ma uscito per la prima volta in traduzione italiana soltanto nel 1976, ed ora recentemente riedito: Lettere di prigionieri di guerra italiani: 1915-1918, Milano, il Saggiatore, 2016. Spitzer aveva in realtà il compito di censurare quelle lettere per conto del governo austriaco. Con l’occasione, però, viste le sue competenze dialettologiche e linguistiche e i suoi interessi sulle forme di scrittura imitativa del parlato (l’anno successivo pubblicherà un testo cardine della linguistica pragmatica e testuale: Italienische Umgangssprache, 1922, tradotto in italiano soltanto nel 2007 con il titolo La lingua italiana del dialogo, Milano, il Saggiatore, 2007), ne approfittò per commentare la lingua di quei materiali, considerandola un esempio di «italiano popolare unitario» (come l’avrebbe battezzato cinquant’anni dopo Tullio De Mauro), vale a dire una lingua di semicolti, scritta ma fortemente agganciata ai modi parlati, sì condizionata dal dialetto ma con evidenti fenomeni di unificazione rispondenti ai criteri di semplificazione, ridondanza, segmentazione, difficoltà di gestione dei sistemi grafico e interpuntorio ecc., tipici delle varietà diastratiche basse e dell’ambito informale e colloquiale.
Sulla Grande guerra, e non soltanto su Leo Spitzer, è imminente (24-26 ottobre 2016) lo svolgimento di un convegno di studi organizzato dal Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne (DICAM) dell’Università di Messina, a cura di un gruppo di ricerca “Research and Mobility”, diretto dalla prof.ssa Caterina Resta e finanziato dal medesimo ateneo, sul seguente tema: Rappresentare l’irrappresentabile: la Grande guerra. I seminari di preparazione al convegno sono disponibili, in modalità audiovisiva, nel sito dedicato del DICAM.
Le lettere studiate da Spitzer ci consegnano l’immagine degli sforzi titanici compiuti dagli italiani semicolti per uscire dall’isolamento localistico, cui li relegava il dominio pressoché incontrastato del dialetto, e conseguire una forma di comunicazione che fosse in grado di metterli a contatto, a distanza, gli uni con gli altri. La notevole uniformità delle lettere, più volte sottolineata da Spitzer, è indizio proprio della sovraregionalità di alcuni fenomeni tipici dell’italiano popolare e conversazionale
Il risultato è una lingua che mostra tutto lo sforzo della scrittura stessa, sforzo reso ancor più immane dall’insufficiente scolarizzazione degli umili, dalla scarsa confidenza con il mezzo scritto e, non ultimo, dall’enormità e indicibilità del conflitto di cui si trovavano a parlare. Cionondimeno, i soldati e i loro parenti riuscivano a comunicare per iscritto in un italiano che getterà le basi per la lingua del futuro, un italiano comune alternativo a quello letterario, che i linguisti avrebbero successivamente denominato italiano dell’uso medio o neostandard.
La Grande guerra è stata dunque, per gli italiani, una «palestra linguistica» (Vanelli 1976), una prima scuola di lingua comune e, paradossalmente, l’indicibilità del male bellico ha aiutato i semicolti a uscire dal silenzio. Altrettanto paradossalmente, il libro di Spitzer, dedicato a queste stentate e aurorali forme di italiano popolare scritto, è diventato una pietra miliare degli studi sul parlato.
Ma la linguistica, si sa, come forse qualunque altra disciplina criticamente orientata, vive di simili paradossi.

Fabio Rossi