L’aggettivo grottesco ‘comicamente deforme, goffo, sgraziato o bizzarro’ (definizione del GRADIT s. v. grottesco) si può riferire a persone, oggetti o situazioni. È evidentemente imparentato con il nome grotta, ma la storia dell’evoluzione da grotta a grottesco è davvero curiosa.
Alla fine del XIV secolo, secondo una storia probabilmente solo in parte vera, un ragazzo romano cadde in un buco nel terreno, dalle parti del colle Oppio, scoprendo, così, per caso, i resti della Domus Aurea di Nerone. L’immenso complesso residenziale, costruito dopo l’incendio del 64 d. C., subì un triste destino, a causa del risentimento della popolazione verso l’imperatore che lo aveva promosso. A pochi anni dalla morte di Nerone, cominciò ad essere demolito pezzo per pezzo, oppure ad essere riempito di sabbia per fungere da fondamenta per nuovi edifici (l’anfiteatro Flavio e le terme di Traiano, per esempio). Solo un padiglione di quel complesso rimase in piedi, sottoterra, in attesa del fortuito ritrovamento, millequattrocento anni più tardi.
Fu subito chiaro che la “grotta” scoperta sul colle Oppio era speciale, visto che i suoi muri erano affrescati riccamente, e offrivano delle raffigurazioni originali, con la fusione fantastica, a scopo prettamente decorativo e non rappresentativo, di forme naturalistiche e figure umane e animali all’interno di finte strutture architettoniche (a mo’ di trompe-l’oeil). Gli artisti dell’epoca (Filippino Lippi, Pinturicchio, Raffaello e Michelangelo, solo per fare alcuni nomi) corsero a studiare questi affreschi, venendone fortemente influenzati.
L’imitazione delle decorazioni parietali della grotta romana fu definita pittura alla grottesca, e ci fu, tra gli altri, un pittore che si specializzò in questo genere. Ne parla Giorgio Vasari nelle sue Vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani da Cimabue a’ tempi nostri (pubblicate nel 1550):
Coloro che sono per natura di cervello capriccioso e fantastico, sempre nuove cose ghiribizzano e cercano investigare, e coi pensieri strani e diversi da gli altri, fanno l’opere loro piene et abondanti di novità[…]. Questo si vide nel Morto pittore da Feltro, il quale molto fu astratto nella vita come era nel cervello e nelle novità della maniera nelle grottesche ch’egli faceva, le quali furono cagione di farlo molto stimare. Condussesi il Morto a Roma nella sua giovanezza in quel tempo che il Pinturicchio per Alessandro VI dipinse le camere papali, et in Castel Sant’Angelo molte altre logge e stanze da basso nel torrione e sopra in altre camere. Perché egli, che era maninconica persona, di continuo alle anticaglie studiava, dove spartimenti di volte et ordini di facce alla grottesca vedendo e piacendogli, quelle sempre studiò. […] Ritrovò il Morto le grottesche più simili alla maniera antica, ch’alcuno altro pittore, e per questo merita infinite lode, da che per il principio di lui sono oggi ridotte dalle mani di Giovanni da Udine e di altri artefici a tanta bellezza e bontà in questo mestiero.
Nonostante la specializzazione di Morto da Feltre, i dipinti alla grottesca, che presto furono chiamati semplicemente grottesche, più famosi sono quelli di Raffaello e di Giovanni da Udine nelle Logge Vaticane, seguite forse da quelle della Villa d’Este a Tivoli, di anonimi. Anche se, in realtà, la moda si diffuse in molte parti d’Italia, a tal punto che fu presa a emblema della superficialità ornamentale manieristica, priva di tensione morale ed espressione di una visione del mondo vuota e banale. A peggiorare la considerazione di questo genere, il concilio di Trento (1545-1563) segnò un giro di vite nelle politiche teologiche e liturgiche, condannando le rappresentazioni artistiche allegoriche, arcane, enigmatiche e legate all’antico mondo pagano, per favorire, all’opposto, l’impegno nelle raffigurazioni dottrinali e didascaliche.
Ancora nel 1659, un secolo dopo, Daniello Bartoli, nella Ricreazione del savio, usava l’espressione a grottesco con riferimento, dispregiativo, al genere decorativo, offrendone, peraltro, una descrizione colorita ed efficace:
M’era venuto in pensiero d’assomigliarlo all’opere del lavorare a grottesco, che tutto è, si può dire, un musaico di spropositi insieme commessi, tanto più bello quanto le parti son tolte di più lontano e in più sciocche forme s’adunano. Spuntar dal gambo d’un fiore il collo d’una gru finito in un capo di scimia, con quattro corna di lumaca che buttan fuoco; fiorire al mento d’un vecchio una coda di pavone per barba e una folta zazzera di coralli; a un altro le braccia viti, le gambe ellere attorcigliate, gli occhi due lumicini accesi nel guscio di una conchiglia, il naso un zufolo, gli orecchi un paio d’ali di vipistrello, e specchiandosi in una rete si vede dietro risponder l’imagine d’un mammone: e di cotali fantastiche bizzarrie quante i dipintori ne sogliono imaginare.
Ma quando avviene il passo decisivo dell’evoluzione del significato del termine dall’ambito artistico a quello comune? Un brano della Civil conversazione di Stefano Guazzo, del 1574, ci mostra già un avvicinamento al significato moderno:
Tuttavia quando ella torce alquanto il capo, le si scuopre la negrezza d’un collo e d’una gola così differente dal volto, che vi pare di vedere una figura grottesca, e direste che quel capo è stato levato dal collo d’una fiammenga e accommodato a quello d’una mora.
Si noti, nel brano, che grottesca è usato come aggettivo, mentre originariamente, e poi anche nell’espressione alla grottesca, era un nome. Il fenomeno del passaggio di una parola da una categoria ad un’altra, noto come transcategorizzazione (si veda qui un altro esempio), è stato, in questo caso, favorito dal suffisso -esca (-esco), normalmente usato per formare aggettivi a partire da nomi (michelangiolesco, novecentesco, pantesco) o a partire da altri aggettivi (spagnolesco).
Infine, nella seconda metà del Settecento, ecco emergere l’aggettivo con il significato pienamente moderno, in un brano famosissimo della nostra storia letteraria, la Rinunzia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico al Vocabolario della Crusca, scritta da Alessandro Verri nella rivista Il Caffè nel 1764:
In oltre, considerando noi che le cose utili a sapersi son molte e che la vita è breve, abbiamo consagrato il prezioso tempo all’acquisto delle idee, ponendo nel numero delle secondarie cognizioni la pura favella, del che siamo tanto lontani d’arrossirne che ne facciamo amende honorable avanti a tutti gli amatori de’ riboboli noiosissimi dell’infinitamente noioso Malmantile, i quali sparsi qua e là come gioielli nelle lombarde cicalate sono proprio il grottesco delle belle lettere.
Curiosamente, l’aggettivo è qui sostantivato, a voler racchiudere tutto il carattere ‘comicamente deforme, goffo, sgraziato o bizzarro’ delle opere tanto odiate dal giovane Verri.
Fabio Ruggiano