La natura del fenomeno noto come Resistenza italiana, o come lotta partigiana o simili, e del suo ruolo nell’evoluzione dell’idea di Italia e nella formazione del senso di appartenenza degli italiani alla Repubblica è materia per l’indagine storica, ed è, ovviamente, un argomento su cui tutti gli italiani dovrebbero avere un’opinione fondata sui fatti e non, è il caso di dirlo, “partigiana”. Il termine partigiano in italiano è un aggettivo o un nome formato dall’incontro tra il tema parte- e il suffisso -igiano (risultato della fusione di due suffissi semplici, -ensis e -anus). Alla base di partigiano c’è, dunque, un teorico, ma mai veramente esistito *partensianus, dal momento che il suffisso -igiano è stato aggiunto alla base parte- nella prima metà del XIV secolo, quando aveva già assunto la sua forma attuale.
Perché i parlanti si sforzano di deformare le parole base aggiungendo ad esse non solamente suffissi, ma persino suffissi complessi? Perché vogliono ridurre lo spettro semantico della parola iniziale, per definire una ben specifica categoria di persone o oggetti. Nel caso del suffisso -igiano, esso si applica a nomi di città o regione soprattutto per definirne gli abitanti o indicare oggetti tipici di quei luoghi: astigiano, parmigiano, marchigiano, lunigiano (da Luni, da cui viene anche il nome della regione Lunigiana); affini a questi aggettivi sono quelli che alla base hanno un ambiente geografico: alpigiano, montigiano, pianigiano, valligiano. Il suffisso si applica – apparentemente in soli tre casi – anche a nomi comuni per formare aggettivi usabili come nomi: artigiano (l’unico nato come nome e poi usato anche come aggettivo), cortigiano, partigiano. In queste parole il doppio suffisso indica che la categoria così definita non solamente ruota intorno all’oggetto definito dalla base (arte, corte, parte), ma fa di quell’oggetto la causa principale della sua vita, il centro della sua attività (così come una città è il centro delle attività dei suoi abitanti).
Partigiano, allora, è una persona che fa di una parte, di un partito, di una fazione, la sua ragione di vita (e eventualmente di morte): una scelta che può essere percepita come nobile e persino eroica, oppure essere intesa come l’atteggiamento di chi difende una posizione acriticamente, o per un secondo fine. Da qui il valore negativo che a volte l’aggettivo assume, come nella frase iniziale di questo articolo. Questo valore negativo in italiano non si trasmette al nome, perché oggi è ancora forte l’identificazione culturale, instaurata a partire dal 1941, tra il partigiano e il combattente della Resistenza (soprattutto italiana, ma anche francese, iugoslava, norvegese, greca, polacca…). Mentre partigiano può essere chiunque, in qualunque momento storico, per convinzione o per motivi meno nobili, il partigiano è identificato con il combattente che alla fine della Seconda Guerra mondiale si unì ad un esercito irregolare per partecipare alla Resistenza del proprio Paese contro l’occupazione nazista o nazifascista.
Anche il nome resistenza, proveniente dalla lingua comune, dotato persino di un’accezione tecnico-specialistica in fisica, in ambito storico è legato ai movimenti degli anni Quaranta, a partire dalla Resistenza francese. Il nome è deverbale, cioè è creato a partire da un verbo, che è resistere. A sua volta, il verbo viene dal latino sisto ‘arrestare, fermare, trattenere’, unito al prefisso re-, che allude alla iterazione dell’azione, come a dire ‘continuo a trattenere’. Il nome dato al fenomeno suggerisce diverse cose: che la Resistenza fu percepita come una lotta di difesa da un’aggressione esterna; che non fu una guerra difensiva vera e propria, perché non fu combattuta da eserciti regolari; che lo scopo dell’azione dei partigiani era trattenere il nemico, non sconfiggerlo, attendendo attivamente, preparando un intervento risolutivo, anch’esso, per ovvie ragioni, straniero.
Fabio Ruggiano