Così Renzo sfogava la sua rabbia contro i potenti nel XIV capitolo dei Promessi sposi. La scrittura, che può essere uno strumento di liberazione (pensiamo al Diario di Anna Frank) per chi la domina, per il contadino semianalfabeta è l’arma del nemico, il simbolo del potere contro cui lui non si può difendere.
L’espressione “carta, penna e calamaio” è divenuta quasi proverbiale in italiano come simbolo della scrittura. Impossibile non ricordare l’inizio della scena della scrittura della lettera in Totò, Peppino e la malafemmina, con Totò che dice a Peppino: «Giovanotto, carta, calamaio e penna, su, avanti, scriviamo, dunque… Hai scritto?». La parola calamaio deriva da calamo, ma mentre quest’ultima è sparita dall’uso, quella è sopravvissuta, prima perché l’oggetto da essa designato è rimasto in uso molto più a lungo, poi perché è entrata nell’espressione idiomatica, nella quale si è cristallizzata.
La parola calamo viene dal greco kálamos e significa ‘canna’. Come spesso accade, i greci avevano trovato anche per questo oggetto un’origine mitologica: avevano immaginato che Calamo, figlio del fiume Meandro, bravissimo nel nuoto, fosse divenuto una canna per aver pianto tutte le sue lacrime in seguito alla morte dell’amico Carpo.
Da kálamos gli antichi romani avevano forgiato calǎmum, da cui derivarono calamarium con il suffisso -arium. Il calamo era una cannuccia, che veniva intinta nel calamaio, da cui risucchiava una piccola quantità d’inchiostro per rilasciarla gradualmente sulla pergamena. Ad esso furono sostituite, nel Medioevo, le più funzionali penne d’oca (da cui il nome penna), il cui uso si basava sullo stesso principio, quindi avevano ancora bisogno dei calamai. Le penne d’oca rimasero in uso fino al XIX secolo. Calamaria theca era l’astuccio nel quale si contenevano i calami, poi calamarium passò ad indicare la boccetta per l’inchiostro; infine fu usato, metaforicamente, per dare un nome a quel mollusco, diverso dal polpo, che si difende come il polpo: spruzzando inchiostro.
Il suffisso latino -arium in italiano a volte rimane tale e quale (come in abecedario, calendario, inventario), in parole prese come prestito dal latino o formate sul modello del latino. Più spesso, però, diventa -aio (immondezzaio, verminaio, formicaio, telaio…), in parole derivate normalmente dal latino o formate nel corso dei secoli sul modello di quelle derivate normalmente. Serve soprattutto per formare nomi di mestieri (portinaio, orologiaio, libraio, notaio…), oppure nomi che indicano luoghi o una molteplicità di oggetti, come quelli citati sopra, e come calamaio. Lo stesso suffisso in molti dialetti diviene -aro (o simili), formando parole come pizzettaro a Roma, auropellaro (scoprite voi che mestiere è) a Napoli, gilataru in giro per la Sicilia, calamer ‘calamaio’ in Emilia. Alcune di queste parole dialettali sono entrate in italiano, come calamaro (da un non meglio precisato dialetto meridionale), palombaro (forse dal veneziano), palazzinaro (dal romanesco).
Calamaio e calamaro, quindi, sono due varianti della stessa parola latina sviluppatesi in due diverse aree d’Italia. Tra queste due parole sono stati distribuiti i due significati già presenti nella parola latina calamarium: non sorprende che alla variante standard sia andato il significato legato alla cultura, a quella dialettale quello legato al cibo.
Fabio Ruggiano