L’aggettivo ermetico ha a che fare con un mistero della storia della cultura occidentale. Pochi personaggi storici sono più inafferrabili di Ermete Trismegisto (‘tre volte grandissimo’): un dio, il figlio di un dio, l’aiutante di un dio, un mago, un filosofo? Oppure nessuno, un nome senza sostanza, creato per raggruppare sotto un unico autore un insieme di opere misteriose dal contenuto vagamente assimilabile.
Il dibattito sulla storicità di Ermete Trismegisto, sulla sua identità, sull’epoca storica in cui visse, sulla sua provenienza risale al Quindicesimo secolo, quando un monaco fiorentino trovò a Bisanzio e portò in patria il corpus hermeticum, l’insieme di opere misteriose di cui sopra, raccolto da un erudito bizantino, Michele Psello. A quell’epoca, non solo nessuno dubitò della storicità di questo mago-filosofo-semidio, ma costui fu assimilato al dio greco Hermes – Mercurio per i romani – e gli furono attribuiti meriti eccezionali, tra cui quello di aver ispirato con le sue idee, tratte dalla sapienza egizia, nientemeno che Mosè, Platone, Pitagora e altri grandi pensatori antichi. Stando a questa attribuzione, Ermete sarebbe stato il fondatore della civiltà occidentale come la conosciamo oggi.
A partire dal Cinquecento, diversi autori hanno cominciato a ridimensionare l’eccezionalità di Ermete, sostenendo che non fosse così antico come si credeva, che non avesse niente a che fare con il dio greco, che non avesse niente a che fare neanche con gli antichi egizi, e che, tutto sommato, magari non era mai esistito.
Non tutti, nel corso della storia moderna, hanno sposato questa visione razionalistica del problema, preferendo lasciare almeno un dubbio sulla storicità di Ermete. Indipendentemente dall’autore e dall’epoca di composizione, comunque, il corpus ha avuto una enorme fortuna tra gli alchimisti seicenteschi, perché descrive, tra le altre cose, alcune pratiche magiche legate agli spiriti e ai demoni, alla medicina e alla manipolazione dei minerali. Una di queste ultime è il modo di chiudere un contenitore di vetro fondendone i bordi in modo che aderiscano perfettamente tra loro e pressando sul punto della chiusura il sigillo con il simbolo di Ermete. Si otteneva, così, una chiusura ermetica. Questo procedimento, che aveva una funzione essenzialmente simbolica (la chiusura è il simbolo dell’impossibilità di comprendere la verità), aveva anche un risvolto pratico, tanto che col tempo (si trovano già esempi all’inizio dell’Ottocento) l’aggettivo ermetico fu usato comunemente col significato di ‘impenetrabile’, riferito a qualsiasi tipo di chiusura.
La figura di Ermete Trismegisto ha esercitato un forte fascino anche fuori dalla cerchia degli alchimisti. A questo hanno giovato il mistero sulla sua identità e addirittura sulla sua storicità; ma anche il fatto che incarni l’incontro delle maggiori tradizioni culturali antiche, quella egizia, quella greca e quella ebraica; per non parlare della sua caratterizzazione come mago, cioè come depositario di una sapienza iniziatica ed esclusiva.
A ben vedere, però, la qualità principale di Ermete è la comunicazione: le pratiche attribuite a questo personaggio mettono in comunicazione il mondo sensibile con quello trascendentale, e le parole contenute nel corpus trasmettono la conoscenza di quella realtà nascosta ai lettori (almeno a quelli che possono capire). In senso moderno, Ermete è un poeta: come i poeti capisce e usa il potere della parola di descrivere (ma non di spiegare) ciò che non può essere sperimentato con i sensi. A partire dal 1936, anno di pubblicazione del saggio La poesia ermetica di Francesco Flora, il titolo di ermetici è riservato solamente ad alcuni poeti, come Ungaretti, Quasimodo e Montale; in senso lato, però, tutti i poeti sono ermetici, esploratori del mistero, comunicatori dell’inconoscibile, maghi della parola.
Fabio Ruggiano