Ho sempre problemi con le doppie. Come posso fare?
I suoi sono problemi più che legittimi, vista l’impossibilità a ricondurre la grafia delle doppie (o geminate) a una serie di regole semplici e sempre valide. Questo è stato a lungo un punto debole della norma dell’italiano scritto e ancora oggi molti parlanti sono incerti su alcuni casi, per via della discrepanza tra il parlato e lo scritto, perché non sempre a un suono rafforzato corrisponde un grafema raddoppiato. I casi problematici sono tanti e, in assenza di un rimedio certo, il primo consiglio che possiamo dare è allenarsi costantemente alla scrittura e alla lettura, non avendo mai timore o vergogna a usare il dizionario.
Per il resto, possiamo solamente accennare ai fenomeni principali alla base delle incongruenze tra il parlato e lo scritto, e suggerire alcuni accorgimenti pratici. Prima di tutto, osserviamo che le geminate possono occorrere solo tra due vocali o se precedute da una vocale e seguite da r o l (occorrere, attrito, applausi): non è, infatti, possibile raddoppiare una consonante che si trova tra due consonanti (contratto) o tra una vocale e una consonante diversa da r o l (vescovo).
Molte parole che la maggior parte dei parlanti italiani pronunciano con una consonante rafforzata a cui corrisponde un solo grafema (che comunemente è chiamato lettera) sono latinismi (detti anche parole dotte), ovvero prestiti dal latino, che mantengono, in tutto o in parte, la forma grafica che avevano originariamente (un po’ come i prestiti dall’inglese, che nello scritto si mantengono inalterati, o cambiano di poco, mentre nel parlato si adattano quasi del tutto alla fonetica italiana). Un esempio di latinismo è vizio (dal latino VĬTĬUM), che, infatti, da Firenze in giù si pronuncia *vizzio. In italiano, i fonemi (o suoni) /ts/ e /dz/, che corrispondono entrambi al grafema z, sono sempre rafforzati quando si trovano tra due vocali, ma se la parola in cui uno dei due occorre è un latinismo, al fonema rafforzato corrisponde un solo grafema. Per questo motivo abbiamo parole popolari, nelle quali la grafia rispecchia la fonetica, come azzoppare, carrozza, corazza, piazza, pazzia, puzza, spazzare ecc., e latinismi come armistizio, ospizio, abbreviazione, razione, sodalizio, inezia, spezia ecc. Purtroppo, essere consapevoli dell’esistenza dei latinismi non è utile nella pratica; non ci consente, cioè, di prevedere se un fonema si scriva scempio o raddoppiato. Un utile accorgimento, molto noto, è scrivere sempre scempia la z del suffisso -zione (tipico dei latinismi), ma anche quella della terminazione -zio, -zia, -zie con la i non accentata (ozio, screzio, amicizia, calvizie) e comunque la z seguita dalla i non accentata, a sua volta seguita da un’altra vocale (come in prezioso e preziario, anche se alla base c’è prezzo). Se la z è seguita da i accentata le cose si complicano, perché abbiamo le parole popolari pazzia e razzia, e le parole dotte abbazia (anche abazia), democrazia e tutti i derivati da -crazia (burocrazia, plutocrazia, tecnocrazia…).
Al contrario, le parole che finiscono con i fonemi /ts/ o /dz/ seguiti direttamente dalla desinenza (e ovviamente preceduti da una vocale) hanno tutte la doppia: lezzo, lizza, pazzo, pezzo, pizza, razza, rozzo, vezzo… Attenzione, il suffisso accrescitivo -one (come tutti gli altri suffissi: -oso, -ino, -erello…) applicato a queste parole mantiene la doppia z, quindi pezzone, puzzone ecc. (da non confondere con le parole in -zione come intuizione, pozione, azione, razione, stazione ecc.).
Specularmente, le parole che finiscono in -gione vogliono sempre una sola g: ragione, regione, pigione, prigione, magione, religione, stagione; tra quelle che finiscono in -ggio e quelle in -gio, invece, prevalgono quelle raddoppiate, ma bisogna stare attenti. Per la grafia del fonema /dʒ/ (corrispondente al grafema g seguito da i o e), infatti, oltre ai latinismi, creano dubbi anche i francesismi; dal francese derivano agio e disagio, malvagio, regìa, ma anche paggio, coraggio, selvaggio, formaggio e, in generale, il suffisso -aggio. Il fonema /dʒ/, inoltre, è rappresentato da una g sola anche in bambagia (dal latino BAMBACĬAM, per effetto della sonorizzazione della /tʃ/), legittimo (dal latino LEGĬTĬMUM), regio ‘regale’ (dal latino REGĬUM, a cui si contrappone la parola popolare reggia ‘dimora del re’), rigido (dal latino RĬGĬDUM), rigettare (perché il prefisso ri- non produce assimilazione, diversamente dai prefissi che finiscono in consonante, come in-, da cui irrigidire, irrituale, irrevocabile) e simili. Un trucco, per la verità soggetto a coincidenze sfortunate, per indovinare con quante g si scriva una parola che termina in -agio o -aggio è separare quest’ultima parte dalla parte precedente: se rimane una parola di senso compiuto, o che si avvicina a una parola di senso compiuto, la parte finale è il suffisso -aggio, altrimenti la parola semplicemente finisce in -agio: quindi a vassallo corrisponde vassallaggio, a forma formaggio, al verbo pestare pestaggio e, meno chiaramente, a cuore coraggio, al francese ligne ‘discendenza’ (a sua volta dal latino LINĔAM) lignaggio, ancora al francese feurre ‘paglia’ foraggio ecc.; malvagio, invece, è una parola senza suffisso, così come contagio (coincidenza sfortunata: conta- potrebbe sembrare una parola, ma basta osservare che contare non ha niente a che fare con le malattie per riconoscere questo come un falso positivo), magio, naufragio, plagio, presagio (anche per presa- vale la considerazione fatta per conta- a proposito di contagio) ecc. Lo stesso trucco funziona per le parole terminanti in -eggio e -egio: alpeggio (corrispondente a Alpi), maneggio (mano), palleggio (palla), ma ciliegio, collegio (che non ha a che fare con colle), egregio, pregio, privilegio, sacrilegio. Per la verità, in quest’ultimo si riconosce la base sacro, come in regio si riconosce re: sono i limiti di questo trucco un po’ arrangiato. Limiti ancora più evidenti quando -ggio e -gio sono precedute dalle altre vocali: in questi casi il trucco perde quasi del tutto valore. Bisogna dire, però, che si tratta di pochissimi casi. C’è una sola parola (a parte qualche altro termine raro) che finisce in -iggio: pomeriggio; qualcuna in più finisce in -igio (bigio, grigio, ligio, fastigio, litigio, prestigio, prodigio…). Pochissime anche quelle che finiscono in -oggio: alloggio, appoggio e poggio, moggio, sloggio e poche altre; ancora meno quelle in -ogio: elogio, mogio, necrologio, orologio e poche altre. Non si registrano, infine, parole in -uggio (ma ricordiamo uggia ‘noia’), mentre rare sono quelle in -ugio: archibugio, indugio, pertugio, rifugio, segugio, sotterfugio.
Anche tra le parole che finiscono in -ggine o -gine queste terminazioni sono quasi sempre precedute dalla vocale a (quindi -aggine o -agine). Poche di queste hanno una sola g: cartilagine, immagine, indagine, ma anche caligine, origine, scaturigine, vertigine. Molte di più sono quelle con la doppia g: si tratta soprattutto di parole che indicano difetti del carattere, come balordaggine, cafonaggine, cocciutaggine, infingardaggine, sbadataggine, sfacciataggine ecc.; accanto a queste troviamo lentiggine, fuliggine, ruggine, testuggine e poche altre.
L’opposizione tra parole popolari, che rispecchiano nella grafia la pronuncia delle consonanti, e parole dotte si manifesta anche nel raddoppiamento incostante della b: da una parte abbiamo abbiamo e abbia, abbaiare, abbinare, babbo, rabbia, scabbia (anche rabbino, non dal latino, ma dall’ebraico rabbi ‘maestro mio’) ecc.; dall’altra abietto, abitare, abitudine, inibire, bibita, imbibire, rubino ecc. In un caso, vanno bene entrambe le soluzioni: obiettivo e obbiettivo. Il francese ha dato un piccolo contributo anche in questo ambito, con bobina, cabina (da cabine ‘capanna’), carabina e carabiniere e qualche altra parola. Ad aumentare la confusione, può capitare che la parola base sia popolare, mentre le derivate (o alcune di esse) siano dotte: è il caso di dubbio, da cui derivano tanto dubbioso quanto dubitare; un caso simile a quello, già visto, di prezzo, legato a prezioso e preziario.
Ricordiamo, infine, le parole univerbate, che hanno la geminata per effetto del raddoppiamento fonosintattico. Questo fenomeno ci porta a rafforzare la consonante iniziale delle parole precedute da alcuni monosillabi (a, da, e, è, che e altri), pochi bisillabi (ad esempio sopra), e tutte le parole che finiscono con una vocale accentata. Per questo motivo re Carlo si pronuncia (tranne che in alcune regioni del Nord) reccarlo (cosa, tra l’altro, utile, perché permette di distinguere nel parlato re Carlo da recarlo ‘portarlo’, che si pronuncia come si scrive). Ovviamente, però, re Carlo si scrive così, con una sola C in Carlo, perché in italiano nessuna parola, che non sia un acronimo, può cominciare con due consonanti uguali (al contrario, esistono rarissime parole che cominciano con due vocali uguali: aaleniano, iinga, oocito e poche altre).
Alcune espressioni di largo uso nelle quali opera il raddoppiamento fonosintattico, però, con il tempo sono divenute parole uniche, ovvero univerbate, come appena (a + pena), dappoco ‘buono a nulla’ (da + poco), sebbene (se + bene), soprattutto (sopra + tutto), vieppiù (via + più) ecc. A volte l’univerbazione è opzionale; infatti si può scrivere anche a pena e da poco, a capo e accapo, da capo e daccapo (ma se bene invece di sebbene, sopra tutto al posto di soprattutto, via più al posto di vieppiù sono decisamente inusuali). Quel che conta, però, è che quando queste parole si scrivono univerbate, la consonante foneticamente rafforzata si scrive geminata, perché rappresenta il raddoppiamento fonosintattico prodottosi quando le parole erano separate.
Un tranello in cui non si deve cadere è unire nella scrittura espressioni che, sebbene del tutto simili ad altre univerbate, si scrivono ancora separate. Così, accanto ad apposta (a + posta) abbiamo a posto, che non si può scrivere *apposto (la parola apposto esiste: è il participio passato del verbo apporre; bisogna stare attenti a non fare confusione), ma anche a volte, che non si può scrivere *avvolte (anche in questo caso, la parola avvolte esiste: è il participio passato del verbo avvolgere), a poco a poco, non *appoco appoco ecc.
Fabio Ruggiano