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QUESITO:

Volevo sapere quale delle due forme è corretta: «l’autobus/il treno viene» o «l’autobus/il treno arriva». E se solo una delle due forme è corretta vorrei capire perché l’altra non lo è.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono entrambe corrette, dal momento che, tra le varie accezioni (cioè significati) di entrambi i verbi venire e arrivare ve n’è almeno una in comune (cioè quella di ‘giungere in un luogo’), in cui, dunque, i due verbi sono sinonimi. Tuttavia, dato che, com’è noto, la sinonimia perfetta non esiste, va tenuto conto dei contesti in cui entrambi i verbi sono usati normalmente dai parlanti. Se se ne tiene conto, la differenza tra i due è schiacciante: con i mezzi di trasporto, arrivare è di gran lunga più frequente di venire, con migliaia (in qualche caso decine di migliaia) di occorrenze di scarto (dati facilmente verificabili in Google ricercando viene/arriva l’autobus/il treno). Perché? È pressoché impossibile rispondere a questa domanda, visto che la lingua evolve con percorsi non sempre lineari né analizzabili logicamente. Probabilmente i parlanti associano a venire (sempre in base alla frequenza e ai contesti d’uso) un tratto di maggiore ‘umanità’, cioè preferiscono quel verbo con soggetti umani o animati e con un certo scopo del movimento, laddove arrivare, invece, implica la sola idea di spostamento da un punto a un altro, con particolare riferimento alla meta. Infatti, se in Google si fa la ricerca “il treno che arriva/viene da”, ecco che la frequenza si inverte: viene è più frequente di arriva, perché, evidentemente, sottolineando la provenienza, si dà un valore semantico maggiore allo scopo o quantomeno alla natura dello spostamento. Morale della favola: i verbi sono corretti entrambi, ma è meglio usare arrivare, con i mezzi di trasporto, a meno che non ne si specifichi la provenienza.

Un’altra piccola osservazione a margine riguarda l’ordine dei sintagmi della frase con questi due verbi, che è preferibilmente quella verbo-soggetto, piuttosto che quella, canonica, soggetto-verbo. Questo accade perché arrivare e venire sono verbi inaccusativi, cioè intransitivi con ausiliare essere, che, come tali, trattano il soggetto perlopiù come elemento nuovo, piuttosto che come dato, e dunque un po’ alla stregua di un oggetto (per semplificare al massimo un fenomeno sintattico e pragmatico in verità molto complesso). Quindi: «arriva il treno/l’autobus» è un enunciato molto più frequente e naturale di «il treno/l’autobus arriva», se non segue altro sintagma, come per esempio «l’autobus arriva tra cinque minuti/subito», in cui invece l’ordine preferito è quello soggetto-verbo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Tema e rema, Verbo
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QUESITO:

So perfettamente che nell’italiano standard l’avverbio sempre va messo sempre dopo il verbo. Vale la stessa cosa per quasi sempre? A me la frase “Quasi sempre mangio carne la domenica” suona naturale, ma non so bene se si rifaccia a un italiano regionale o a quello standard.
Mi autereste a chiarire questo mio dubbio?

 

RISPOSTA:

Più che in posizione postverbale, l’avverbio sempre si trova naturalmente accanto al sintagma che focalizza, che a sua volta si trova di solito dopo il verbo. Questo avverbio, infatti (come anchesoltantoneanche e simili), ha il potere di far risaltare qualsiasi sintagma della frase che lo segua; prendendo la sua frase, per esempio, si noti come il picco informativo si sposti allo spostarsi dell’avverbio, anche se il sintagma si trova prima del verbo: “Mangio sempre carne la domenica”, “Mangio carne sempre la domenica” (ovvero ‘soltanto la domenica’), “Sempre carne mangio la domenica”, “Sempre la domenica mangio carne”. Gli avverbi focalizzanti non funzionano con i verbi, e per questo non si trovano davanti ai sintagmi verbali; possono, però, trovarsi tra l’ausiliare e il participio passato di un tempo composto, per focalizzare proprio il participio passato (“Ho sempre amato il calcio”). Quando è composto con quasisempre può mantenere la sua funzione di focalizzatore di un sintagma (“Mangio quasi sempre carne la domenica”), oppure può perderla, per divenire un’espansione, ovvero un’informazione aggiuntiva riferita all’intera frase, non a un singolo sintagma. Se serve a questo, l’avverbio può trovarsi all’inizio della frase, come nel suo esempio, o alla fine (“Mangio carne la domenica quasi sempre”), o anche in mezzo, purché sia pronunciato con una cadenza che ne chiarisce la natura di espansione (si noti la differenza tra “Mangio carne quasi sempre la domenica“, in cui quasi sempre focalizza la domenica, e “Mangio carne quasi sempre la domenica”, in cui quasi sempre si riferisce a tutta la frase.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Queste frasi possono essere scritte in tutti i modi proposti?
“Sarebbe bello se nella vita di tutti i giorni avessimo dei motori, come quelli scacchistici, che ci indicassero / indicano / indichino sempre la mossa migliore”.
“Da quando i Fenici hanno inventato / inventarono il denaro(,) il mondo va / sta andando a rotoli”.
È possibile inserire la virgola tra parentesi?

 

RISPOSTA:

Nella proposizione relativa della prima frase l’indicativo presente rappresenta l’azione dell’indicare come fattuale e atemporale; la relativa, così costruita, serve esclusivamente a identificare dei motori, come se fosse un aggettivo (dei motori che ci indicano la mossa migliore = dei motori indicanti la mossa migliore). Il congiuntivo imperfetto aggiunge una sfumatura di eventualità, che viene interpretata come desiderabilità, per via della doppia attrazione esercitata dalla reggente ipotetica (se avessimo dei motori) e dalla principale, perché la relativa viene facilmente scambiata per una completiva (sarebbe bello… che ci indicassero). Il congiuntivo presente nella relativa è in teoria possibile, con lo stesso valore del congiuntivo imperfetto, ma di fatto è poco accettabile proprio a causa dell’attrazione della struttura sarebbe bello… che ci indicassero: la completiva retta da verbi o espressioni di desiderio richiede, infatti, il congiuntivo imperfetto (si veda la discussione di questa norma qui).
Nella seconda frase nella temporale è preferibile il passato prossimo, perché l’evento dell’inventare è chiaramente ancora influente sul presente; nella principale si possono usare il passato prossimo è andato, per indicare che l’evento è iniziato nel passato ma è ancora attuale, il presente, per focalizzare l’attenzione sul presente, la perifrasi progressiva sta andando, per sottolineare ulteriormente la contemporaneità tra l’enunciazione e l’andare.
L’inserimento della virgola è possibile, ma non obbligatorio. La virgola tra una subordinata anteposta alla reggente e la reggente stessa è possibile, e persino consigliabile, nel caso in cui si vogliano separare le due informazioni in modo da far risaltare ciascuna. Questa separazione sarebbe più funzionale, per la verità, se la subordinata fosse posposta: “Il mondo è andato / va / sta andando a rotoli, da quando i Fenici hanno inventato il denaro” (= “Il mondo è andato / va / sta andando a rotoli; e questo sta succedendo da quando i Fenici hanno inventato il denaro”); nel caso specifico, invece, il collegamento logico tra le informazioni instaurato proprio dalla anteposizione della subordinata è talmente forte che il segno risulta controintuitivo. Esso, però, mantiene la sua utilità dal punto di vista sintattico, perché segmenta la frase in modo chiaro.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase “Sono venuti tutti”, tutti potrebbe sostituire, per esempio, tutti gli invitati, che è soggetto del verbo. Mi chiedo se entrambe le posizioni, pre e postberbale, di tutti pronome siano del tutto valide e se c’è una prevalenza di una posizione rispetto all’altra. A me la posizione postverbale sembra più naturale, ma non so spiegarmi il motivo.

 

RISPOSTA:

Bisogna fare un ragionamento in due passaggi.

Consideriamo innanzitutto la frase in astratto. Il soggetto può essere collocato quasi sempre in posizione postverbale: con i verbi non inaccusativi (gli inergativi, cioè gli intransitivi con l’ausiliare avere, e i transitivi), però, tale posizione è tendenzialmente focalizzata (il soggetto ha un valore informativo di rilievo), mentre con i verbi inaccusativi (gli intransitivi con l’ausiliare essere) questa posizione è tendenzialmente non marcata. Al contrario, con i verbi non inaccusativi la posizione preverbale è non marcata (al netto di intonazioni speciali), quella postverbale è focalizzata. Si confrontino le seguenti frasi:

1. Al ricevimento tutti hanno mangiato [verbo inergativo] a sazietà;

2. Al ricevimento hanno mangiato tutti a sazietà.

Nella 1 il soggetto preverbale è non marcato; nella seconda è focalizzato, cioè rappresentato come l’informazione più rilevante nella frase. Come si è detto, un’intonazione speciale può marcare il soggetto rendendolo focalizzato anche se è collocato in posizione non marcata: in questo caso un’intonaziona enfatica su tutti nella frase 1 renderebbe il soggetto focalizzato.

Ora si osservino queste due frasi:

3. Dieci persone sono venute alla festa;

4. Sono venute dieci persone alla festa / Alla festa sono venute dieci persone.

In 3 il soggetto preverbale è automaticamente focalizzato; nella coppia 4 è non marcato, perché forma un’informazione unitarica con il verbo (sono venute dieci persone). Si potrebbe al limite focalizzare anche nelle due frasi della coppia 4, ma soltanto pronunciandolo con enfasi.

Nel suo caso, “Sono venuti tutti” ricalca, in astratto, la costruzione della coppia 4; una eventuale costruzione “Tutti sono venuti”, invece, ricalcherebbe la frase 3. Diversamente, “Hanno tutti voti alti” (verbo transitivo) e “Giocano tutti a calcio” (verbo inergativo) ricalcano la coppia 2.

Secondo passaggio. Il pronome tutti, se la frase è inserita in una sequenza, quindi in un testo, assume una funzione anaforica ineludibile, che è associata, al netto di costruzioni particolari della frase e di intonazioni speciali, al valore marcato tematico (il soggetto è rappresentato nettamente come argomento della frase al fine di collegare con chiarezza la frase al discorso sviluppato precedentemente). Tale funzione si manifesterà a prescindere dal verbo della frase, quindi si manterrà anche in posizione focalizzata, anche se il valore focalizzato è nettamente distinto da quello tematico:

5. Gli studenti della terza C sono bravissimi; hanno tutti voti alti!

6. I miei amici fanno sport; giocano tutti a calcio!

Nelle frasi, tutti è anaforico e focalizzato. La focalizzazione non è evidente proprio a causa della funzione anaforica di tutti, che sfuma la rilevanza dell’informazione; essa, però, emerge chiaramente se sostituiamo tutti con un sintagma nominale, privo di funzione anaforica: “Al ricevimento hanno mangiato a sazietà tutti gli ospiti”. Con il sintagma nominale, si noti, sarebbe molto innaturale inserire il soggetto tra il verbo e il sintagma preposizionale (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti a sazietà”), perché tale sintagma risulta fortemente legato al verbo (è un suo circostante). La stessa cosa avviene con i verbi transitivi, che richiedono il complemento oggetto come argomento (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti la torta”): con i verbi transitivi e i verbi inergativi accompagnati da un circostante, quindi, la posizione postverbale del soggetto è possibile soltanto se tra il verbo e il soggetto si inserisce il complemento oggetto o il circostante.

7. Ho invitato dieci persone alla festa; sono venute tutte.

8. Ho invitato dieci persone alla festa; tutte sono venute.

Nella frase 7 il pronome è anaforico e non marcato; nella 8 è anaforico e focalizzato. Anche in questo caso, sostituendo il pronome anaforico con un sintagma non anaforico si fa emergere il valore informativo del sintagma, come avviene nelle frasi 3 e 4.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Può essere ritenuto corretto (o almeno non scorretto) un uso della virgola dopo espressioni come a seguire e al termine?
Ad esempio: “Al termine, consegna della medaglia al vincitore”, “A seguire, assegnazione di una borsa di studio al miglior studente”.

 

RISPOSTA:

La virgola non è affatto scorretta; al contrario, è preferibile inserirla. In generale, i sintagmi che hanno la funzione di espansioni (ovvero contengono informazioni che non sono collegate al verbo o a un singolo argomento del verbo, ma riguardano l’intera frase) e sono inseriti all’inizio della frase vanno separati con la virgola dal resto della frase. Se, invece, le espansioni si trovano in coda, la virgola è opzionale: “Consegna della medaglia al vincitore al termine” / “Consegna della medaglia al vincitore, al termine”. L’inserimento della virgola accentua la rilevanza informativa dell’espansione. Se, infine, la frase lo consente, l’inserimento dell’espansione al centro della frase richiede tipicamente la separazione dal resto della frase con le virgole di apertura e chiusura: “La medaglia sarà consegnata, al termine, al vincitore”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase “… a cui vorresti rivolgerti tu” il tu è pleonastico o si può considerare un rafforzativo?

 

RISPOSTA:

Non è pleonastico: il soggetto pronominale ribadito a destra della frase serve a sottolineare che la volontà di rivolgersi a quel qualcuno è proprio del soggetto, non di altri. Questa sottolineatura può essere utile per esempio se il parlante non condivide tale volontà, oppure se vuole elogiarla, perché altri avrebbero manifestato una volontà più comoda (ovviamente, dipende tutto dal contesto). L’esplicitazione del soggetto pronominale non sarebbe pleonastica neanche se questo fosse collocato prima del verbo: “… a cui tu vorresti rivolgerti”. In questo caso il pronome richiamerebbe al centro della discussione la responsabilità del soggetto nell’esprimere la volontà, senza, però, veicolare sfumature contrastive. Tali sfumature, però, sarebbero veicolate anche con il soggetto preverbale, se la frase fosse pronnciata con un’enfasi intonativa sul pronome.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sottoporre un quesito in seguito a una breve discussione nata dalla diversa percezione dell’uso del passato remoto nella frase seguente:
«Io comprai gli armadi lunedì.»
Mi è stato chiesto per quale motivo la gente di origini meridionali è così incline all’utilizzo del passato remoto quando bisogna descrivere un’azione collocata in un passato non lontano.
Questa domanda mi ha stupito, non tanto perché inaspettata, ma perché non notavo nessuna forma colloquiale in quella frase così comune. Riflettendoci qualche istante, ho risposto dicendo che non c’era niente di sintatticamente errato nella frase, che l’uso del passato remoto dipende dalle sensazioni che il parlante vuole trasmettere.
Mi è stato risposto che si tratta pur sempre di un avvenimento distante temporalmente soltanto quattro giorni, e non quattro anni.
Tornandoci a riflettere mi ritrovo sommerso di dubbi. In effetti quella frase così “normale” mi sembra problematica e mi chiedo:
1. se c’è un passato più indicato per descrivere un fatto avvenuto pochi giorni prima.
2. Se è consigliabile, quando non esiste possibilità di fraintendimenti, non specificare il soggetto.
3. Dove è meglio collocare il complimento di tempo in una frase. E nel caso di giorni della settimana se è più opportuno affiancarli all’aggettivo scorso o aggiungere una preposizione:
«(Io) comprai gli armadi (di) lunedì»
«(Io) ho comprato gli armadi (di) lunedì»
«(Io) avevo comprato gli armadi (di) lunedì»

 

RISPOSTA:

L’italiano contemporaneo sta lentamente abbandonando il passato remoto in favore del passato prossimo. Questa semplificazione del sistema verbale dipende da ragioni morfologiche (il passato prossimo si forma in modo più regolare del passato remoto), ma soprattutto psicologiche. Il passato prossimo, infatti, è il tempo della vicinanza psicologica, mentre il passato remoto è quello della lontananza. Con psicologico si intende che, come dice lei, la distanza dell’evento dal presente dipende da come il parlante vuole rappresentare l’evento, ovvero dalla sua volontà di lasciare intendere che l’evento ha prodotto effetti sul presente (in questo caso userà il passato prossimo) o no (passato remoto). Come si può intuire, nella comunicazione quotidiana gli eventi di cui si parla hanno quasi sempre rilevanza attuale, e da qui deriva la propensione per il passato prossimo, a prescindere dalla distanza temporale oggettiva. Per esempio, è più comune una frase come “Ci siamo conosciuti 50 anni fa” piuttosto che “Ci conoscemmo 50 anni fa”. Si aggiunga che un evento avvenuto poco tempo prima ha un’alta probabilità di essere ancora attuale; nel suo caso, per esempio, lei avrà probabilmente informato il suo interlocutore di aver acquistato gli armadi per ragioni legate alla sua situazione presente. L’acquisto, in altre parole, non è stata un’azione senza conseguenze, ma ha provocato riflessi sul presente, che sono rilevanti nel discorso che il parlante sta facendo.
Quello che vale per l’italiano standard non sempre vale per l’italiano regionale, perché in questa varietà l’italiano entra in contatto con il dialetto, con effetti di adattamento reciproco. Molti dialetti meridionali non hanno una forma verbale comparabile con il passato prossimo (si ricordi che tale forma è un’innovazione del fiorentino, assente in latino), ma usano per descivere gli eventi passati eclusivamente il passato semplice (proprio come in latino), che è comparabile con il passato remoto. Avviene, allora, che un parlante meridionale che usa l’italiano, ma è influenzato dal modello soggiacente del proprio dialetto di provenienza, tenda a sovraestendere l’uso del passato remoto rispetto a quanto è tipico dell’italiano standard (nonché degli italiani regionali di tutte quelle regioni in cui si parlano dialetti dotati di tempi composti per il passato). Questa tendenza si indebolisce quanto più il parlante ha una forte competenza in italiano standard, e quanto più si trova in una situazione di formalità. Può capitare, quindi, che un parlante meridionale, anche colto, usi qualche passato remoto in più in contesti informali e, viceversa, che un parlante mediamente colto rifugga dal passato remoto, che percepisce come marcato regionalmente, in contesti formali.
Per quanto riguarda la sua seconda domanda, la risposta è sì: il soggetto può essere omesso (e in alcuni casi è obbligatorio ometterlo) se è rappresentato da un pronome non focalizzato, cioè non necessario per conferire alla frase una certa sfumatura. Per esempio, se comunicare chi ha comprato l’armadio non è rilevante si potrà dire “Ho comprato l’armadio”; se, invece, è rilevante, per esempio per sottolineare che non è stato qualcun altro a farlo, si dirà “Io ho comprato l’armadio” (con enfasi intonativa su io).
Per la terza domanda, la posizione del complemento di tempo dipende dal rilievo che si vuole dare a questa informazione: più l’informazione si sposta a destra della frase, più diviene saliente. Per esempio, in “Lunedì ho comprato i divani” l’informazione di quando è avvenuto l’evento è poco rilevante; in “Ho comprato i divani lunedì”, al contrario, è molto rilevante. Sulla questione della preposizione la rimando a quest’altra risposta.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Riguardo il suo ultimo intervento (“È bastato a/per e topicalizzazioni”) mi è quasi tutto chiaro.

L’unica cosa che non mi è totalmente chiara è quella che riguarda la topicalizzazione.

Secondo me: Per esempio, con un complemento di fine o proposizione finale anteposta, quest’ultimo/a è topicalizzato/a e invece l’elemento focalizzato/marcato all’interno della frase è il soggetto posposto (“impegno”) ed è lì che cade la tonica:

  1. a) Cosa è bastato a raggiungere l’obiettivo/ al raggiungimento dell’obiettivo?
  2. b) A raggiungere l’obiettivo/al raggiungimento dell’obiettivo è bastato il sano impegno.

Invece quando il complemento di fine o proposizione finale viene posposto/a (piuttosto che anteposto/a) diventa l’elemento focalizzato/marcato (cioè, vi cade la tonica) e di conseguenza il soggetto (“impegno”) non ha particolare rilievo nella frase:

  1. c) L’impegno a cosa è bastato?
  2. d) L’impegno è bastato a raggiungere l’obiettivo/al raggiungimento dell’obiettivo.

Era questo che intendevo parlando di focalizzazione.

Sono corrette le mie considerazioni?

 

RISPOSTA:

Sì, le sue considerazioni ora sono corrette. Dalla sua precedente domanda sembrava considerare focalizzato quanto si trovasse preposto al verbo o alla reggente, mentre in quei casi di tratta di topicalizzazioni. Benché la terminologia sui fenomeni di sintassi marcata talora oscilli lievemente (non tutti danno a focus lo stesso significato), di norma ciò che è focalizzato ha maggiore salienza fonica (non soltanto accentuativa), ha maggior rilievo informativo, veicola un’informazione nuova e talora contrastata e riguarda il comment (o rema) o una sua parte. Di norma si trova sul lato destro degli enunciati, tranne casi specifici in cui viene anticipato, ma con forte rilievo prosodico: per es., «LUI devi incolpare, non me!». Quanto è topicalizzato, all’opposto, ha funzione di topic (o tema), è dato, ha intonazione ascendente-sospensiva, non saliente, si trova di norma sul lato sinistro degli enunciati.

Fabio Rossi

Parole chiave: Sintassi marcata, Tema e rema
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

1a) Cosa è bastato a fargli cambiare idea?

1b) A fargli cambiare idea è bastato qualche esempio pratico.

2a) Cosa è bastato per fargli cambiare idea?

2b) Per fargli cambiare idea è bastato qualche esempio pratico.

Sono sicuro della correttezza grammaticale di 2a e 2b, mentre non saprei esprimermi sulla correttezza grammaticale di 1a e 1b?

Ho consultato vari dizionari, ma non ho trovato esempi di quello che intendo: Se all’interno della frase il complemento di fine (introdotto da “a”) è focalizzato/marcato(su cui cade la tonica), allora so per certo che tale preposizione si può utilizzare:

-Questo a cosa è bastato?

-Questo è bastato a chiarire.

Se invece è il soggetto quello ad essere focalizzato/marcato (ovvero sempre l’elemento su cui cade la tonica), allora su ciò non ho trovato esempi:

-Cosa è bastato a fargli cambiare idea?(???)

-A fargli cambiare idea è bastato qualche esempio pratico(???)

Lei cosa ne pensa?

 

RISPOSTA:

Tutte le frasi sono corrette. Non si tratta in nessuna di complemento di fine, né di soggetto, bensì di proposizioni subordinate finali. Inoltre, se la finale è anteposta alla reggente non è focalizzata, bensì topicalizzata, cioè in funzione di topic.

Diverso il caso di «Questo a cosa è bastato?», in cui il pronome interrogativo «a cosa» ha in effetti funzione di complemento di fine ed è sicuramente più comune di «per» (che comunque non sarebbe scorretto), in dipendenza da bastare. Tuttavia, nella frase successiva, in cui il complemento di fine diventa invece una subordinata finale, a e per sono intercambiabili: «Cosa è bastato a/per fagli cambiare idea?».

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“In Norvegia non ci sono mai stato”. Quel “ci” può essere accettato anche in un linguaggio formale, pur essendo un pleonasmo, oppure è preferibile dire: “In Norvegia non sono mai stato”?

 

RISPOSTA:

Sicuramente il pleonasmo è evitabile nel registro formale, a condizione, però, di modificare l’ordine dei costituenti: «Non sono mai stato in Norvegia». Infatti la tematizzazione (o topicalizzazione), cioè la collocazione del tema in prima posizione, richiede la ripresa clitica (dislocazione a sinistra): «In Norvegia non ci sono mai stato». Se eliminasse il «ci» l’enunciato verrebbe interpretato come focalizzazione, anziché come tematizzazione, ovvero: «In Norvegia non sono mia stato [mentre in Svezia sì]».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei sapere se le due frasi sono entrambe corrette

1) pensa i sacrifici che ha fatto tuo padre

2) pensa ai sacrifici che ha fatto tuo padre

 

RISPOSTA:

Sì, le due frasi sono entrambe corrette, lievemente più formale la seconda. Il verbo pensare può essere usato sia come transitivo sia come intransitivo. Inoltre, la sintassi dei due periodi è differente, tanto da rendere più efficace la prima, della seconda frase, in determinati contesti, poiché focalizza «i sacrifici». «Che ha fatto tuo padre» è una proposizione relativa nel secondo caso; mentre nel primo caso può essere interpretato sia come una relativa, sia come una completiva con sollevamento dell’oggetto: Pensa che tuo padre ha fatto dei sacrifici. Per questo, benché meno formale, è comunque più efficace a sottolineare il valore di quei sacrifici.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Mi sono reso conto che a livello molto colloquiale molte persone (anch’io faccio parte di questa cerchia) fanno uso di una strana dislocazione a sinistra di vari elementi grammaticali: soggetto, periodo ipotetico e complementi di ogni tipo.

Le pongo qualche esempio:

  1. a) A me se piace qualcuno, mi faccio avanti = se a me piace qualcuno, mi faccio avanti.
  2. b) Non so lui ciò che ha fatto/ lui non so ciò che ha fatto= non so ciò che lui ha fatto.
  3. c) Lui non so chi pensavi che fosse/ non so lui chi pensavi che fosse? = non so chi pensavi che lui fosse/ non so chi pensavi che fosse, lui?
  4. d) Lui non so cosa vorrebbe che noi dicessimo/ non so lui cosa vorrebbe che noi dicessimo = non so cosa lui vorrebbe che noi dicessimo/ non so cosa lui vorrebbe che dicessimo.
  5. e) Lui noi non so cosa vorrebbe che pensassimo/ non so lui noi cosa vorrebbe che pensassimo = non so cosa lui vorrebbe che noi pensassimo/ non so cosa vorrebbe che pensassimo, lui, noi.
  6. f) Se fosse rimasta non penso che sarebbe cambiato qualcosa= non penso che se fosse rimasta sarebbe cambiato qualcosa.
  7. g) Se fosse rimasta non so cosa sarebbe cambiato/ non so se fosse rimasta cosa sarebbe cambiato= non so cosa sarebbe cambiato se fosse rimasta.
  8. h) Io quando/nel momento in cui entravo, la gente non mi salutava = quando io / nel momento in cui io entravo, la gente non mi salutava.
  9. i) Questo penso/ sembra che sia ottimo = penso/ sembra che questo sia ottimo.

In tutte queste frasi c’è una dislocazione a sinistra di qualche elemento, ad esempio:

Nella prima abbiamo la dislocazione di un complemento dipendente dalla protasi.

Nella seconda la dislocazione del soggetto della relativa.

Nella terza la dislocazione del soggetto di una oggettiva esplicita la quale è dipendente da una proposizione interrogativa.

Nella quarta c’è la dislocazione del soggetto della proposizione interrogativa.

Nella quinta c’è una doppia dislocazione, cioè degli elementi dislocati rispettivamente nella terza e nella quarta.

Nella sesta, per esempio, la protasi è contenuta nell’oggettiva ed è dipendente dalla stessa oggettiva (“che sarebbe cambiato qualcosa”) non dalla proposizione principale (“non penso”) eppure nonostante la protasi faccia parte dell’oggettiva viene occasionalmente dislocata a sinistra.

Nella settima abbiamo qualcosa di simile, ovvero la dislocazione della protasi dipendente da una proposizione interrogativa.

Possiamo parlare di dislocazioni grammaticalmente corrette oppure di colloquialismi impropri?

 

RISPOSTA:

L’italiano ammette molto spesso lo spostamento di un sintagma, o di una proposizione, rispetto alla sua posizione canonica in un ordine non marcato. Lo spostamento (che è una potente risorsa sintattica) è dovuto a esigenze informativo-pragmatiche, cioè per portare in prima posizione il tema dell’enunciato, cioè la parte su cui verte l’informazione. Talora questi spostamenti non hanno alcuna ricaduta sul registro, talaltra invece rendono l’enunciato meno formale, ma comunque corretto. Nessuno degli esempi da lei addotti è scorretto e soltanto alcuni rendono l’enunciato meno formale. Nessuno, inoltre, è configurabile come dislocazione tecnicamente intesa, ma soltanto come spostamento. In taluni casi, si parla anche di anacoluto o tema sospeso, in altri di sollevamento, ma, in buona sostanza, sempre di spostamento si tratta, ma non di dislocazione. Perché vi sia una dislocazione, oltre allo spostamento deve esservi anche una ripresa pronominale dell’elemento spostato, come in «il panino lo mangio», «che cosa vuoi non lo so» (dislocazioni a sinistra), oppure «lo mangio il panino», «non lo so che cosa vuoi» (dislocazioni a destra). Vediamo ora caso per caso.

  1. a) A me se piace qualcuno, mi faccio avanti: non è meno formale della versione senza spostamento.
  2. b) Non so lui ciò che ha fatto/ lui non so ciò che ha fatto: meno formali.
  3. c) Lui non so chi pensavi che fosse/ non so lui chi pensavi che fosse?: meno formali.
  4. d) Lui non so cosa vorrebbe che noi dicessimo/ non so lui cosa vorrebbe che noi dicessimo: lievemente meno formali.
  5. e) Lui noi non so cosa vorrebbe che pensassimo/ non so lui noi cosa vorrebbe che pensassimo: lievemente meno formali. In tutti i casi b-e, come vede, non soltanto la frase è perfettamente corretta, ma, in certi contesti, è anche migliore della frase non marcata, dal momento che valorizza il ruolo tematico di lui, che dunque può agevolare la coesione con quanto precede.
  6. f) Se fosse rimasta non penso che sarebbe cambiato qualcosa: non è meno formale della versione senza spostamento.
  7. g) Se fosse rimasta non so cosa sarebbe cambiato/ non so se fosse rimasta cosa sarebbe cambiato: non è meno formale della versione senza spostamento.
  8. h) Io quando/nel momento in cui entravo, la gente non mi salutava: tema sospeso o anacoluto, meno formale della frase non marcata.
  9. i) Questo penso/ sembra che sia ottimo: normalissimo caso di sollevamento del soggetto, non meno formale.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei sapere se sia sempre errato inserire una virgola prima o dopo un complemento («Hai lasciato altre cose in macchina», «Qui, nevica», «Parte anche lui dall’Australia, per poi arrivare in Cambogia», «Con il vocativo, ci va la virgola», «Andrò in Svizzera, partendo dalla Germania, ecc.), oppure prima del che («L’automobile di Luca è un vecchio catorcio, che quindi a volte può avere dei problemi»).

Mentre sono certo che una frase del genere è agrammaticale: «Il gatto di Luca, è un persiano.», «È un persiano, il gatto di Luca.»

 

RISPOSTA:

L’uso della punteggiatura, poco sistematico nelle trattazioni grammaticali, risponde a una molteplicità di funzioni, almeno sintattiche, pragmatiche, testuali, espressive, stilistiche, mimetiche dell’intonazione.

Quindi in molti degli esempi da lei riportati la virgola può esserci, oppure no, a seconda del contesto e della sfumatura pragmatico-semantica da dare al testo. Vediamoli in dettaglio.

1) «Hai lasciato altre cose, in macchina»: la presenza della virgola prima di in macchina attribuisce al sintagma il valore di informazione condivisa, per esempio perché è stata già introdotta: so che sai di aver lasciato alcune cose in macchina, ma ti faccio notare che ne hai lasciato anche altre (in macchina).

2) «Qui, nevica»: efficace nei casi di contrasto: qui, nevica, mentre da te in Sicilia immagino ci sia un sole che spacca, beato te!

3) «Parte anche lui dall’Australia, per poi arrivare in Cambogia»: la virgola prima di dall’Australia mette lui in relazione con qualcun altro che parte dall’Australia (per es. “Non saremo gli unici australiani alla riunione; domani parte anche lui, dall’Australia”).

4) «Con il vocativo, ci va la virgola»… mentre col soggetto no.

5) «Andrò in Svizzera, partendo dalla Germania»: la virgola attribuisce pari importanza a entrambe le proposizioni.

6) «L’automobile di Luca è un vecchio catorcio, che quindi a volte può avere dei problemi»: con le relative la virgola ne segnala la natura esplicativa, anziché limitativa. Cioè, se c’è la virgola la relativa aggiunge un particolare accessorio, non determinante ai fini dell’identificazione di qualcosa, come in: «La macchina, che può avere dei problemi, è di Luca»: c’è solo una macchina, che è di Luca e che può avere dei problemi; «La macchina che può avere dei problemi è di Luca»: ci sono almeno due macchine, una con problemi (e di Luca) e l’altra no.

7) «Il gatto di Luca, è un persiano»: mai separare il soggetto dal predicato con una virgola, a meno che non si voglia mettere in evidenza il soggetto, come in «È un persiano, il gatto di Luca», che va benissimo.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Leggo dal libro di una quotata scrittrice la seguente frase: «Mi ha raccontato che li abbracciava, a lui e a nonno, fra le lacrime e i singhiozzi…».

«Li abbracciava» è accusativo, ma subito dopo «a lui e a nonno» è dativo.

Chiedo: è da considerare un errore oppure quel dativo «a lui e a nonno» serve a rafforzare la frase ed è quindi accettabile?

 

RISPOSTA:

Il costrutto dell’oggetto preposizionale, come abbracciare a qualcuno, è diffuso negli italiani regionali, ma è senza dubbio da evitare in italiano standard, quindi in questo caso lo considererei, se non scorretto, quanto meno inappropriato, a meno che nel romanzo non si voglia riprodurre un parlato regionale. Non c’è dubbio che in molti casi i costrutti preposizionali servano a mettere in evidenza un sintagma, come nel caso di «a me non mi persuade» (comunque da evitare in un italiano non informale), ma in questo caso l’oggetto diretto è più che sufficiente a indicare la messa in rilievo, garantita dal pleonasmo pronominale della dislocazione a destra: «Li abbracciava, lui e nonno»:

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei esporvi queste frasi:
1)Roma,  che è capitale d’Italia, è una città vicina al mare.
2)Le rendo noto che, se non salderà il suo debito,  passerò a vie legali.
Sia il primo inciso (che è capitale d’Italia) che il secondo (se non salderà il suo debito), qualora vengano sottratti, permettono alla frase di avere un senso compiuto (Roma è una citta vicina al mare / le rendo noto che passerò a vie legali).
Nella prima frase, però, l’inciso dà informazioni irrilevanti rispetto al senso della frase, nella  seconda, invece, l’inciso fornisce informazioni sostanziali (io passerò a vie legali solo se si realizzerà una ben precisa condizione: il suo mancato pagamento).
Mentre il primo inciso va posto sicuramente fra le virgole, il secondo non lo porrei fra di esse, perché le virgole farebbero risultare l’affermazione ” se non salderà il suo debito” come marginale, anziché di centrale importanza.

 

RISPOSTA:

Va distinta la funzione di inciso da quella di parentetica. Una parentetica contiene di solito, come dice lei, un’informazione marginale (“che è la capitale d’Italia”). Per inciso, invece, si intende semplicemente la collocazione dell’informazione tra due pause, o virgole, ma non la sua marginalità. Le virgole che isolano la protasi del periodo ipotetico nell’esempio “Le rendo noto che, se non salderà il suo debito,  passerò a vie legali” sono necessarie (e dunque se le eliminasse commetterebbe un errore!), perché indicano la spezzatura del rapporto assai vincolante tra reggente e completiva (…rendo noto che passerò…) mediante l’intromissione della protasi del periodo ipotetico. La posizione di inciso, cioè la segnalazione di tale intromissione, non implica in alcun modo la minore importanza della protasi. Aggiungo che, qualora non vi fosse stata intromissione, e vi fosse dunque stato soltanto il periodo ipotetico, si sarebbe potuta usare la virgola oppure no (“se non salderà il suo debito[,]  passerò a vie legali”) senza alcun cambiamento di significato. La virgola, infatti, in questo caso è un semplice retaggio del passato, quando si soleva separare quasi sistematicamente la premessa dalla conseguenza.
In generale, faccia attenzione a non caricare la punteggiatura di valori logicistici che le sono estranei: la virgola non indica quasi mai una riduzione di importanza (tranne, e non sempre, nel caso delle parentetiche di cui sopra), bensì denota una frattura sintattica (in molti casi), una transizione di piano testuale o informativo (cioè il passaggio da un’informazione all’altra, in molti altri casi), la riproduzione di una piccola pausa o curva intonativa (più raramente e soltanto nei testi mimetici del parlato), la messa in evidenza di un’informazione (e dunque l’esatto contrario di quel che dice lei, cioè conferisce maggiore importanza a qualcosa: “Mario, ho incontrato, non Luca”, con focalizzazione di Mario), oppure uno stilema (stile di un certo autore, consuetudine scrittoria ecc.).

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Le sarei molto grato se mi chiarisse un dubbio relativo a questa frase: “Era sempre solo. Amici non ne aveva”. Quel “ne”, che sento usare regolarmente in frasi di questo tipo, mi suona bene, però  mi lascia
perplesso perché dovrebbe stare per “di amici”, ma allora la frase diventerebbe: “amici non di amici aveva”. Una affermazione insensata. Gradirei sapere se quel “ne” è da considerarsi corretto.
 

 

RISPOSTA:

Il costrutto, tipico dell’italiano informale e colloquiale e dunque non scorretto in assoluto  ma sicuramente inadatto all’italiano formale, si chiama “tema sospeso” e consiste nel riportare il tema, o topic, dell’enunciato all’inizio per poi riprenderlo mediante un clitico, ovvero particella pronominale atona. Naturalmente il clitico è pleonastico e il tema qui non ha valore di soggetto bensì di complemento oggetto (duplicato da ne). Molto prossimo a questo costrutto è un altro, sempre di anticipazione del tema, o topicalizzazione, denominato “dislocazione a sinistra”: “di amici non ne aveva”.
Il corrispettivo formale, o quantomeno non informale, delle due espressioni è “non aveva amici”.

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Mi sono imbattuto nella seguente frase: “Passione e dedizione di cui tutti dovremmo farne tesoro”. A me sembra che la formulazione corretta dovrebbe escludere la particella ne e si dovrebbe pertanto scrivere “passione e dedizione di cui tutti dovremmo fare tesoro”. Mi sbaglio?

 

RISPOSTA:

Non si sbaglia affatto. La duplicazione della particella pronominale, comune e tutto sommato accettabile in contesti parlati informali, nei quali assolve alla funzione di richiamare il tema rafforzando il poco trasparente pronome relativo di cui, non trova giustificazione nello scritto, specie formale o specialistico, e deve pertanto essere evitata.
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quali forme sono corrette?
Me ne hanno parlato bene di lui / mi hanno parlato bene di lui.
Io penso che il meglio DEBBA ancora avvenire / venire?
Io penso che il meglio DEVE ancora avvenire / venire ?

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti di tutte le frasi sono corrette. Ci sono, tra l’una e l’altra, delle differenze semantiche e diafasiche, cioè di registro. Nella prima frase, la seconda variante è del tutto normale; la prima variante, invece, presenta il tema, cioè l’argomento, ripetuto due volte: la prima volta con il pronome ne, la seconda con il sintagma preposizionale di lui. Per un verso, questa ripetizione è un difetto sintattico (per questo motivo questa costruzione è da evitare nello scritto e nel parlato formale); per un altro, in certi contesti può essere utile ripetere due volte il tema, per sottolinearlo. Nella seconda e nella terza frase l’alternanza tra deve e debba è totalmente diafasica; la scelta tra l’una e l’altra forma va fatta in base al registro che si vuole tenere nel discorso: il congiuntivo è più formale, l’indicativo è meno formale. Tra venire e avvenire, invece, c’è una differenza di significato: venire significa ‘arrivare’, avvenire significa ‘succedere’. Entrambi i significati sono perfettamente coerenti con la frase e cambiano di poco il senso generale della frase stessa, quindi entrambi i verbi si possono usare. La frase, comunque, è piuttosto convenzionale ed è costruita quasi sempre con venire.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura

QUESITO:

Ho trovato questi suggerimenti in Internet; sono corretti?

Se devi scrivere un periodo composto dal solo discorso diretto, la punteggiatura va all’interno del dialogo. 
«Vado a fare la spesa.» 
«Vado a fare la spesa?»         
«Vado a fare la spesa!»
Vado a fare la spesa…»

Se il dialogo è introdotto da una frase, la punteggiatura a quel punto riguarderà la frase e non dovrà essere inserita all’interno del dialogo.                           
Mi disse: «Vado a fare la spesa».

In presenza di punto esclamativo, interrogativo o puntini di sospensione, all’interno del dialogo non bisogna mai aggiungere il punto esterno.               
Mi disse: «Vado a fare la spesa…»
Mi disse: «Vado a fare la spesa!»  
Mi disse: «Vado a fare la spesa?» 

Se il dialogo è inserito in un periodo più complesso, devi valutare se usare la virgola o no.
Mi disse: «Vado a fare la spesa», e prese la borsa.          
In questo caso, visto che all’interno delle caporali non c’è nessun segno di punteggiatura è necessario inserire una virgola prima della fine del periodo. In questi altri casi, invece, poiché all’interno del dialogo c’è un segno di punteggiatura non bisogna inserire una virgola all’esterno della caporale di chiusura.
Mi disse: «Vado a fare la spesa?» e prese la borsa.
Mi disse: «Vado a fare la spesa!» e prese la borsa. 
Mi disse: «Vado a fare la spesa…» e prese la borsa.

Se il dialogo è spezzato da un inciso bisogna seguire altre regole.
«Vado», disse, «a fare la spesa.»                     
In questo caso ciò che riguarda il dialogo vero e proprio, il punto, va messo all’interno delle caporali. Le virgole dell’inciso, poiché riguardano l’inciso stesso, restano fuori.
Se la virgola riguarda il dialogo vero e proprio rimane dentro alle caporali:
«Vado,» disse, «a fare la spesa.»
Nello stesso preciso modo si ragiona per quanto riguarda gli altri segni di punteggiatura:
«Vado?» disse. «A fare la spesa?» 
«Vado!» disse. «A fare la spesa.» 
«Vado…» disse. «A fare la spesa…»
In questi tre casi l’unica cosa che devi cambiare è la punteggiatura dell’inciso. Al posto della virgola va messo il punto.

 

RISPOSTA:

I suggerimenti sono ragionevoli, ma più rigidi del dovuto. In questo campo diverse scelte sono ugualmente giustificabili e non si può separare nettamente il corretto dallo scorretto.
Una questione discutibile è l’interazione tra i segni interni alle virgolette e quelli esterni. Da una parte è legittimo evitare la ripetizione, ma dall’altra la ripetizione può essere utile. Un caso in cui la ripetizione è giustificata è il seguente: “Mi disse: «Vado a fare la spesa!», e prese la borsa”. La virgola fuori dalle virgolette segnala che e prese la borsa è un’unità informativa diversa rispetto a quella che contiene il discorso diretto. In particolare, le interazioni più utili sono quelle tra ?! (che chiamo punti intonativi) all’interno delle virgolette e qualsiasi altro segno fuori dalle virgolette: i punti emotivi, infatti, servono a veicolare una particolare modulazione del discorso diretto, mentre gli altri segni servono a segmentare il testo nel quale è inserito anche il discorso diretto, quindi riguardano un piano diverso. Se, invece, il discorso diretto termina con una virgola o un punto fermo, questi si possono tranquillamente inserire all’esterno delle virgolette e quindi riferire a tutto il testo, evitando la ripetizione.
Un caso possibile, ma raro, è il seguente: “«Vado a fare la spesa.», e prese la borsa”, nel quale il punto fermo serve a segnalare la perentorietà dell’affermazione, non a chiudere l’enunciato; in questo caso, quindi, il punto fermo è usato come se fosse un punto intonativo, quindi vige la riflessione fatta sopra su questo tipo di punteggiatura.
Un’altra questione discutibile è quella degli incisi, che possono essere separati dal discorso diretto in molti modi diversi ma ugualmente validi. Faccio notare che nei suoi esempi non ci sono incisi, perché la frase termina con il punto fermo. Si parla di inciso quando la proposizione o il sintagma divide in due una proposizione o un sintagma, ovviamente all’interno di un sola frase; per questo motivo l’inciso non può essere preceduto o seguito dal punto fermo, ma viene, invece, racchiuso tra due virgole, due trattini lunghi, due parentesi (raramente due punti e virgola).
Nei seguenti esempi osserviamo alcune delle possibilità per segnalare l’inciso che fa da cornice di un discorso diretto:
«Vado» disse «a fare la spesa?».
«Vado», disse, «a fare la spesa». 
«Vado… – disse – a fare la spesa…».
– Vado – disse – a fare la spesa.
Possibili anche:
«Vado,» – disse – «perché sono stanco».
«Vado, – disse – perché sono stanco».
«Vado,» disse «perché sono stanco». 
In questi casi la virgola va riferita al solo discorso diretto e non al testo in generale. Questi sono gli unici casi in cui può essere utile inserire un segno di punteggiatura intermedio (il trattino) fuori dalle virgolette dopo un segno di punteggiatura non intonativo all’interno delle virgolette. In ogni caso, comunque. eviterei una sequenza del genere, pure in astratto lecita: «Vado,», disse, «perché sono stanco». 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione, Tema e rema
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In questa frase dobbiamo inerire il pronome diretto, o siccome si tratta di una costruzione passiva non ci vuole? “In questa citta ci sono dei programmi la visita dei quali non (la) si può perdere”.

 

RISPOSTA:

La proposizione relativa nella prima frase è equivalente a la visita dei quali non può essere persa; il sintagma la visita, pertanto, è il soggetto della relativa, e non può essere ripreso con un pronome diretto (che serve a riprendere il complemento oggetto). La ripresa del sintagma con il pronome diretto si può fare se interpretiamo la relativa come impersonale, non passiva. In questo caso il sintagma nominale ha la funzione di complemento oggetto: la visita dei quali non si può perdere, o, con la ripresa pronominale, la visita dei quali non la si può perdere
La doppia interpretazione, impersonale e passiva, della forma del verbo costruita con il pronome si è possibile quando il sintagma nominale che funge da soggetto o da complemento oggetto è singolare; quando è plurale, invece, si propende sempre per il passivo (quindi senza la possibilità di riprendere il soggetto con un pronome): le visite dei quali non si possono perdere = le visite dei quali non possono essere perse.
La costruzione impersonale, anche se rara, è possibile anche al plurale: le visite dei quali non si può perdere. In questo caso, la ripresa è molto favorita: le visite dei quali non le si può perdere.
Si consideri che la ripresa pronominale è una possibilità sintattica marcata, adatta al parlato o allo scritto informale, ma non a contesti formali; la forma standard rimane la visita dei quali non si può perdere
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase “Ha seguito un percorso di alfabetizzazione della lingua italiana (,) conseguendo buoni risultati” è necessario inserire la virgola prima del gerundio?

 

RISPOSTA:

La virgola è facoltativa e influisce sul senso generale della frase. Senza la virgola, la frase risulta un’unità informativa unica, con il focus sul conseguimento di buoni risultati; con la virgola, l’unità informativa viene separata in due focus, la frequenza del corso, con una sua importanza autonoma, e il conseguimento di buoni risultati, ugualmente rilevante.
Sottolineo che il sintagma alfabetizzazione della lingua italiana non è ben formato, sebbene sia piuttosto diffuso nello “scolastichese”. La diffusione di questa espressione è dovuta al suo depotenziamento semantico, che la assimila a insegnamento della lingua italiana o, in modo ancora più approssimativo, a apprendimento della lingua italiana.
Ovviamente, c’è una sostanziale differenza tra insegnamento e alfabetizzazione, mentre davvero impossibile è confondere l’alfabetizzazione, che procede dall’insegnante verso l’apprendente, con l’apprendimento, che procede al contrario.
Soprattutto, però, il nome alfabetizzazione ha un comportamento sintattico particolare. Come il verbo alfabetizzare non può reggere il complemento oggetto dell’ambito del processo (nessuno direbbe mai *alfabetizzare la lingua italiana), ma può reggere il complemento oggetto del destinatario del processo (alfabetizzare gli stranieri), così il nome derivato dal verbo, alfabetizzazione, non ammette il complemento di specificazione dell’ambito, della lingua italiana, mentre ammette il complemento di specificazione del destinatario: “La scuola deve farsi carico dell’alfabetizzazione degli stranieri”.
Questa restrizione riguarda tutti i verbi in -izzare e i nomi in -izzazione con base nominale:
– sponsorizzare una squadra (non *sponsorizzare un contributo per le magliette) e sponsorizzazione di una squadra (non *sponsorizzazione di un contributo per le magliette); 
– parcellizzare gli sforzi (non *parcellizzare le piccole quantità) e parcellizzazione degli sforzi (non *parcellizzazione delle piccole quantità); 
– categorizzare i propri amici ‘dividere in categorie’ (non *categorizzare le classificazioni) e categorizzazione dei propri amici (non *categorizzazione delle classificazioni);
ecc.
Come si vede, questi verbi indicano la realizzazione della propria base: alfabetizzare ‘insegnare l’alfabeto’, sponsorizzare ‘attribuire un finanziamento’ ecc.; non possono, quindi, ammettere un complemento oggetto che ribadisca la base: *alfabetizzare la lingua italiana ‘insegnare l’alfabeto la lingua italiana’. I nomi derivati da questi verbi, come appunto alfabetizzazione, trasferiscono al complemento di specificazione questa restrizione relativa al complemento oggetto.
I verbi in -izzare e i nomi in -izzazione con base aggettivale si comportano esattamente al contrario, perché indicano la qualità che apportano al complemento oggetto: estremizzare la tensione ‘far diventare la tensione estrema’ (estremizzazione della tensione), realizzare un progetto ‘far diventare un progetto reale’ (realizzazione di un progetto), concretizzare le idee ‘far diventare le idee concrete’ (concretizzazione delle idee), ufficializzare una decisione ‘far diventare una decisione ufficiale’ (ufficializzazione di una decisione) ecc.
Alfabetizzazione della lingua italiana deve essere, quindi, evitato. Alfabetizzazione si può tranquillamente lasciare senza specificazione, oppure accompagnare con l’aggettivo linguistica (alfabetizzazione linguistica) o, al limite, con un complemento di limitazione: alfabetizzazione in lingua italiana
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome, Tema e rema, Verbo
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QUESITO:

I seguenti esempi contengono ripetizioni o pleonasmi e sono pertanto da evitare?
1) Il suo commento è di per sé già eloquente.
2) Te l’ho già detto prima.
3) Risolvere definitivamente il problema.
4) L’uomo è un assiduo avventore del locale.
5) Bazzico abitualmente quel circolo.
6) Non so se lei ne sia capace. Ma il fatto che/se lo sia o non lo sia non è rivelante.

 

RISPOSTA:

Le frasi 1, 2, 3 e 5 presentano avverbi o locuzioni avverbiali che non apportano un significato determinante alla frase e servono soprattutto ad arricchirla sintatticamente. Possono, pertanto, essere definiti pleonastici e in uno stile che voglia essere asciutto andranno evitati (sebbene non si tratti di errori da nessun punto di vista). Si noti che, se nello scritto gli avverbi superflui non hanno ragione di apparire, nel parlato possono servire da appendici informative del verbo. Questo si nota soprattutto nella frase 5: se eliminiamo l’avverbio, l’informazione saliente diviene quel circolo (infatti l’accento della frase viene a cadere tutto su questo sintagma), ma l’emittente potrebbe voler puntare l’attenzione sull’azione del bazzicare, non sul luogo. Per questo scopo avrebbe due possibilità: una dislocazione (quel circolo lo bazzico, così come il problema l’ho risolto) oppure, appunto, l’inserimento dell’avverbio semanticamente quasi neutrale che gli consenta di appoggiare la voce non sul sintagma nominale (bazzico ABITUALMENTE quel circolo). Non ugualmente efficace sarebbe, invece, BAZZICO quel circolo, perché la posizione iniziale non marcata del verbo lo configura come tema, ovvero come informazione poco saliente. Per approfondire i concetti di temaremadislocazione e simili può consultare l’archivio di DICO, a partire dalla risposta n. 28009, che rimanda a sua volta ad altre risorse della pagina.
Decisamente non superfluo è l’aggettivo assiduo della frase 4: un avventore, infatti, può non essere assiduo, ma occasionale, oppure essere accompagnato da una proposizione relativa che lo qualifica diversamente. Il secondo periodo della frase 6 deve essere scompartito, perché le due possibili costruzioni sintattiche accorpate non sono equivalenti, ma una esprime un dubbio, l’altra esprime un fatto:
6a. Ma se lo sia o non lo sia non è rivelante.
6b. Ma il fatto che lo sia non è rivelante. / Ma il fatto che non lo sia non è rivelante.
Le varianti b risultano in contrasto logico con il contenuto del primo periodo, che presenta un dubbio. La variante a potrebbe essere semplificata (Ma se lo sia non è rivelante oppure Ma se non lo sia non è rivelante), ma la semplificazione comporterebbe un lieve cambiamento nel senso della frase, perché farebbe propendere il dubbio verso una delle due possibilità, come se l’emittente sospettasse che il ricevente fosse oppure non fosse capace. Neanche qui, insomma, si riscontra un pleonasmo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Si può dire “a me mi piace”?

 

RISPOSTA:

​In contesti formali, soprattutto scritti, è da evitare, perché pleonastico (lo stesso pronome è ripetuto, sebbene in forma diversa, due volte). Nella lingua d’uso comune, però, specie nel parlato, il costrutto è molto diffuso e ampiamente accettato, tanto che sarebbe eccessivo sostenere che non si possa dire. 
La ragione del successo di questa costruzione, nota come dislocazione a sinistra, è che chiarisce bene quale sia l’argomento di cui si parla (tecnicamente il tema) e quale sia l’informazione fornita su quell’argomento (tecnicamente il rema). In questo caso il tema è a me, il rema mi piace. Per fare un altro esempio analogo, in una frase come “A te non ti credo più” (nella quale si nota la ripetizione del pronome, prima nella forma a te, poi nella forma atona ti), il tema è a te, il rema tutto il resto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei chiedere qualcosa sull’uso del verbo guadagnare con il pronome ci. Perché si dice: “Cosa ci guadagni a comportarti così male?”; perché si usa il pronome ci? È obbligatorio? E cosa significa la frase cosi?

 

RISPOSTA:

​Il pronome atono ci in guadagnarci può avere due funzioni diverse, corrispondenti a due diversi significati del verbo. Può servire a riprendere o anticipare il tema dell’enunciato nel quale è inserito: in “Dalla vendita della casa ci ho guadagnato poco” il tema (dalla vendita della casa) è ripreso da ci; in “Ci ho guadagnato poco dalla vendita della casa” il tema è anticipato. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a sinistra, ripreso da un pronome, o a destra, anticipato da un pronome, è nota come dislocazione e serve a mettere in evidenza proprio il tema; quella a sinistra, in particolare, è utile per collegarlo meglio al co-testo precedente, quella a destra, invece, funziona meglio per creare effetti retorici di ironia o polemica.

Più spesso, però, guadagnarci è un verbo procomplementare; rientra, cioè, in quel gruppo di verbi formati con una o più particelle pronominali che assumono, proprio in forza di queste particelle, dei significati diversi dal verbo base. Tra questi verbi troviamo, per esempio, farcelamettersivedersela e moltissimi altri. Come si può vedere dagli esempi, in questi verbi le particelle sono fuse con il verbo e non hanno una funzione sintattica identificabile; allo stesso tempo, dagli esempi si ricava che questi verbi sono particolarmente appropriati a contesti informali, nei quali rappresentano alternative brillanti a verbi più formali dal significato analogo (per esempio farcelariuscire, mettersi a / iniziare avedersela con / affrontare). Lo stesso vale per guadagnarci, che non è la variante informale di guadagnare, ma corrisponde piuttosto a ottenere; se, infatti, guadagnare riguarda un profitto materiale, guadagnarci si riferisce a un vantaggio astratto. Da questo significato di base, inoltre, guadagnarci ha sviluppato quello relativo all’aumento di valore, che emerge in una frase come “Con la costruzione della fermata della metropolitana la zona ci ha guadagnato”.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Credo che in tutta Italia si dica: ” Anche te” invece di “Anche tu”. Esempi: ” Vai a Parigi? Anche te?” Verrai anche te stasera? ” Ora ti ci metti anche te”.  Credo che sia sbagliato l’uso del pronome “te”. Ma a questo punto, in considerazione del fatto che viene utilizzato da tutti, anche in letteratura, che si fa? Cambiamo la grammatica?

 

RISPOSTA:

Ha ragione: esempi come quelli da lei citati, ancorché più comuni al Nord e a Roma che al Sud, sono comunque, almeno al livello informale, comuni in quasi tutta Italia. I motivi potrebbero essere vari e il più importante è forse il seguente: le forme pronominali di complemento oggetto (luileite) meglio si prestano a usi topicalizzati o focalizzati, in cui cioè l’attenzione si concentra sulla persona che prova una certa emozione, ha una certa idea ecc.: “te, ti piace di più carne o pesce?”, “Ti ci metti anche te!” ecc. Con lui e lei la tendenza, da secoli, si è talmente rafforzata da aver scalzato ormai quasi del tutto (già a partire da Manzoni) le relative forme di pronome soggetto: egli ed ella ormai sono, soprattutto il secondo, quasi solo retaggi letterari. Invece con tu (e ancor di più con io) il discorso è diverso, perché un buon numero di parlanti colti ha le sue stesse, giustificatissime, riserve, e magari utilizzano normalmente la formula ormai quasi cristallizzata “io e te”, ma sentono certo stridore da unghie sulla lavagna di fronte a “vieni pure te?”. Che fare, in questi casi? Cambiamo la grammatica? Ma se l’usano tutti? Si chiede assai saggiamente Lei. Come ben comprende, il rapporto tra norma e uso non può che essere fluido, in movimento e in rinegoziazione continua tra gli utenti della lingua, soprattutto negli ultimi decenni. E allora, al momento abbiamo cambiato la grammatica accogliendo lui e lei soggetto, ma forse non è ancora il momento di farlo per te soggetto, dato che un numero molto elevato di parlanti e scriventi, come Lei e come chi le scrive, ancora non sente naturale il te al posto di tu e gran parte degli italiani colti a Sud di Roma la pensa come noi due, credo. Pertanto, in barba allo strapotere romano-milanese, teniamoci ancora un po’ il nostro tu, senza crociate e pronti a cedere quando nessun altro, forse, ci farà più una domanda (bella) come la sua.
 
Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Mi viene in mente un problema ricorrente nelle tesi (e non solo) e cioè l’uso di “ne” pronome (col valore di complemento di specificazione, di argomento, partitivo etc.). Soprattutto l’uso pleonastico (per es.: “di questo ne abbiamo già parlato”; “di gelati ne ho mangiati due”; “non ne abbiamo bisogno del tuo aiuto” e simili) è spesso incontrollato, proprio perché viene usato abitualmente in riferimento a elementi della frase già espressi: appesantisce il dettato e credo che nella lingua scritta non debba essere usato.

 

RISPOSTA:

È vero: nei casi come quelli indicati nel quesito, il ne va assolutamente evitato, nel registro formale, in quanto pleonastico. Si tratta, tecnicamente, di casi di dislocazione, dei quali DICO si è già occupato qui.

Come detto in quella sede, tuttavia, non tutti i casi di dislocazione sono condannabili, sia perché alcuni di essi sono ormai perfettamente grammaticalizzati (“infischiarsene di qualcosa” ecc.), sia perché a volte sono un prezioso strumento pragmatico per agevolare la ripartizione del discorso in informazione data (o tema) e informazione nuova (o rema). Vedi, al riguardo, anche questo intervento.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Mi avvalgo della vostra cordiale disponibilità per esplicare il seguente interrogativo:
le frasi
1. Anche Tizio non è stato promosso;
2. Non è stato promosso neppure / nemmeno Tizio;
3. Neppure / nemmeno Tizio è stato promosso
sono tutte ben formate?
È possibile che modificando la posizione del predicato (esempio 2 rispetto a 1 e 3) o il tipo di costruzione da negativa a positiva (esempio 3 rispetto a 2), anche e nemmeno o neppure svolgano la medesima funzione?

 

RISPOSTA:

​Per quanto riguarda la funzione degli avverbi negativi nemmenoneancheneppure, essa cambia in relazione alla posizione degli avverbi nella frase; questi avverbi, cioè, negano il sintagma al quale sono adiacenti. Quindi “Neppure Tizio è stato promosso” vuol dire che neanche altri sono stati promossi, mentre “Tizio non è stato neppure promosso” vuol dire che Tizio non ha superato neanche altre prove.
Aggiungo che la frase 1. è al limite dell’accettabilità; la forma migliore sarebbe: “Neanche / neppure / nemmeno Tizio è stato promosso”.
La questione dello spostamento dell’elemento negato all’interno della frase è diversa, e chiama in causa la sintassi dell’informazione, ovvero il diverso peso che le informazioni acquisiscono a seconda della posizione in cui vengono inserite. Solitamente, le informazioni che inseriamo a destra sono quelle su cui vogliamo che il nostro interlocutore concentri la sua attenzione. Si pensi a un esempio come questo: “Ho preso la penna blu nel cassetto” / “Ho preso nel cassetto la penna blu”: l’informazione che si viene a trovare alla destra della frase (prima nel cassetto, poi la penna) riceve un peso maggiore; diviene, come si dice in linguistica testuale, il fuoco dell’enunciato. Alcune parole, come gli avverbi nemmeno e simili, sono dette focalizzatori, perché fanno risaltare l’informazione a cui si accompagnano qualsiasi sia la sua posizione. Nel nostro caso, infatti, nemmeno Tizio risulta il fuoco dell’enunciato anche se lo mettiamo a sinistra: “Neppure Tizio è stato promosso”. Rimane da capire che differenza ci sia tra quest’ultima formulazione e “Non è stato promosso neppure Tizio”. Dal punto di vista sintattico, notiamo che in questa formulazione diviene obbligatorio negare anche il verbo, mentre in quella con nemmeno Tizio a sinistra la negazione del verbo sarebbe, al contrario, inaccettabile. Questo avviene perché l’italiano preferisce inserire sempre la negazione all’inizio dell’enunciato e poi solitamente ammette, ma non richiede, la sua ripetizione. Notiamo anche che il soggetto grammaticale del verbo, Tizio, è posposto.
Dal punto di vista della sintassi dell’informazione, immaginiamo una situazione in cui il parlante (una persona diversa da Tizio) non abbia superato un esame, e qualcuno glielo faccia notare per mancanza di tatto, o per dargli fastidio: “Quindi non sei stato promosso, eh?”. Il parlante potrebbe rispondere con entrambe le formulazioni: “Non è stato promosso neppure Tizio” chiarirebbe i termini della questione in modo neutrale: ‘riguardo al tema che hai sollevato, ti faccio notare che…’; “Neppure Tizio è stato promosso”, invece, stabilirebbe fin da subito ciò che più preme al parlante comunicare, riducendo l’altra informazione a una appendice, richiesta per completare sintatticamente la frase (la sola enunciazione “Neppure Tizio” risulterebbe sospesa). Riguardo alla funzione informativa di questa appendice, emerge l’intento di rimarcarne il valore pragmatico, come se il parlante comunicasse tra le righe ‘visto che me lo chiedi / se proprio lo vuoi sapere’, con tutte le sfumature psicologiche che ne possono derivare.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase:Dove sei?; il sintagma “dove”, si può considerare un complemento
di stato in luogo? Grazie

 

RISPOSTA:

Sì. Però la forzatura di ricondurre un avverbio interrogativo (dove) a un’espressione lessicalmente più piena ed esplicita del tipo “in quale luogo” giustifica la perplessità che l’ha indotta, immagino, a rivolgerci questa più che legittima domanda. In realtà spesso l’analisi logica è abbastanza… illogica, nel senso che sembra troppo affezionata a una sterile e fantasiosa nomenclatura a metà strada tra il valore semantico (luogo) e quello funzionale (che funzione sintattica e testuale ha dove in una frase?)  e troppo poco attenta al reale funzionamento delle parole nella frase. In altri termini, l’analisi logica tradizionale sembra funzionare bene soltanto nelle frasi assertive canoniche (es.: “Adamo mangia la mela”). Già nelle domande vacilla. Figuriamoci in altre centinaia di esempi reali. Sarebbe più produttivo concentrarsi su altri quesiti sintattici quali: qual è il tema e qual è il rema della frase “dove sei”? (dove in questo caso funge da tema); come si può trasformare in interrogativa indiretta la frase in oggetto (“dimmi dove sei”)?; quali altri valori semantici e sintattici può avere dove in italiano? ecc. ecc. In realtà, la minuziosa casistica dei complementi dell’analisi logica tradizionale serve davvero a poco (spesso è del tutto idiosincratica: fine o scopo? agente o causa efficiente? e simili amenità). Basterebbe concentrarsi sugli argomenti del verbo (o valenze), sulla differenza tra soggetto e oggetto, sulla differenza tra oggetto diretto ed elementi avverbiali ecc. E bisognerebbe inoltre dare molta più importanza all’analisi del periodo. E forse così riusciremmo a migliorare la coscienza metalinguistica dei nostri studenti (anche universitari) e anche le loro competenze, stavolta sì, logiche. Ma logiche sul serio!

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Tema e rema
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