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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Non mi è ben chiaro come distinguere se nelle seguenti frasi gli elementi in maiuscolo sono aggettivi o pronomi indefiniti. Inoltre possono essere considerati tutti quantificatori, o alcuni di essi (ad es. “altri”) non hanno la funzione di quantificare?

1) In un mondo multietnico, inevitabilmente siamo in TANTE, TUTTE diverse e OGNUNA con il suo fascino e la propria identità, ma è pur vero che tra queste ALCUNE hanno un carisma irresistibile.

[tante=aggettivo indefinito quantitativo; tutte=aggettivo indefinito collettivo; ognuna= pronome indefinito collettivo; alcune=pronome indefinito singolativo]

2) Ne ho sentite dire di TUTTI i colori su di me.

[tutti=aggettivo indefinito collettivo]

3) TANTI mi confessano che trasmetto loro i piaceri della bellezza. ALTRI dicono che sono molto musicale e regalo benessere con le mie vibrazioni.

[tanti=pronome indefinito quantitativo; altri= pronome indefinito singolativo]

4) Sono UNA che lascia il segno e con orgoglio vi comunico che nella competizione mondiale sono arrivata quarta. Conosco gente di TUTTE le età che si avvicina a me per i motivi più diversi.

[una=pronome indefinito singolativo; tutte=aggettivo indefinito collettivo]

 

RISPOSTA:

Sono tutti quantificatori e indefiniti e sono quasi tutti pronomi, tranne quelli accompagnati a un nome, cioè “tutti i colori” (aggettivo indefinito) e “tutte le età” (aggettivo indefinito). In “sono una”, una, a rigore, è pronome numerale, anche se, dato il significato di “una certa persona” o “quel tipo di persona”, può anche essere interpretato come pronome indefinito. L’importante è riconoscerne il valore pronominale (anziché aggettivale, visto che non si accompagna a un nome) e di quantificatore.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Pronome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Non riesco a capire che funzione ha “questo” nella seguente frase (chi parla è la personificazione della lingua italiana): «Altri dicono che sono molto musicale e regalo benessere con le mie vibrazioni. Sarà forse per QUESTO che l’Opera è nata nel mio Paese»,

In questo caso, “questo” è un pronome dimostrativo che sostituisce un’intera frase (“il fatto che sono molto musicale e regalo benessere con le mie vibrazioni”)? O è una locuzione congiuntiva, sostituibile con “perciò”, “per tale motivo”? O è qualcosa d’altro?

 

RISPOSTA:

Questo è un pronome dimostrativo che funge da incapsulatore, in questo caso, cioè pronominalizza un’intera frase o porzione di testo, piuttosto che un singolo sintagma. Per questo, con parziale perdita semantica e grammaticalizzazione, può essere inteso anche come locuzione congiuntiva di valore analogo a perciò; tuttavia, nel caso specifico, la forte coesione della frase (con il complemento per questo retto dal verbo sarà) fa propendere per la prima interpretazione. Il valore di locuzione congiuntiva, o meglio ancora di segnale discorsivo, sarebbe più probabile in un caso del genere: «Per questo, l’opera è nata nel mio paese». Con perciò il confine tra i due tipi (molto sfumato) è più semplice, perché la grammaticalizzazione ha comportato l’univerbazione di per ciò in perciò (come per che in perché, poi che in poiché ecc.). Mentre per questo non ha (ancora) dato luogo a perquesto.

Fabio Rossi

Parole chiave: Congiunzione, Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Guardando un video di una docente di inglese e di comunicazione aziendale mi sono sorti dei dubbi sull’uso del congiuntivo. Riporto tre frasi di cui non capisco la costruzione.
1. Avevo distribuito volantini a tutti i ristoranti che mi capitassero di trovare.
2. Vi do tre consigli per gestire le telefonate di un cliente che parli inglese.
3. Mi è capitato che di fronte alla telefonata di un cliente che parlasse inglese.
Io nel primo e terzo caso avrei usato l’imperfetto, nel secondo il presente. Non ho fatto il liceo, ma un istituto professionale e faccio sempre molta fatica a capire casi come questo, anche studiando la grammatica di riferimento.

 

RISPOSTA:

In effetti i tempi usati dalla docente nelle frasi sono quelli che avrebbe usato lei, che sono anche quelli corretti: l’imperfetto nella prima e nella terza, il presente nella seconda. Per quanto riguarda il modo congiuntivo, si tratta di una scelta meno comune dell’indicativo nelle proposizioni relative, ma non è, per questo, scorretto. Nelle frasi in questione nelle proposizioni relative si può usare sia l’indicativo sia il congiuntivo, senza che il significato cambi: il congiuntivo rende semplicemente la frase più formale, adatta a un registo più elevato. Si potrebbe pensare che il congiuntivo aggiunga una sfumatura di eventualità alla proposizione, ma non è così: la sfumatura di eventualità, se c’è, è veicolata dall’intera frase, non dal modo del verbo della subordinata. Si osservi, infatti, che il congiuntivo è usato sia nella frase 2, in cui si parla di un cliente che potrebbe parlare inglese, sia nella frase 3, in cui si parla di clienti veramente conosciuti, quindi dei quali è noto se parlassero inglese o no. Anche nella frase 1, del resto, i ristoranti nei quali sono stati distribuiti i volantini sono stati trovati o no: non c’è niente di ipotetico in questo processo. Sottolineo, a margine, che nella relativa della frase 1 c’è un errore sintattico indipendente dal modo verbale usato. La terza persona plurale di capitassero dipende dall’idea che il pronome che, riferito ai ristoranti, sia il soggetto della proposizione relativa; ovviamente, però, non è così: il verbo capitare è usato nella forma impersonale, senza soggetto, e che (riferito ai ristoranti) è il complemento oggetto di trovare. La forma di capitare da usare è, quindi, la terza persona singolare capitasse (o capitava, se si vuole usare l’indicativo), che è la forma richiesta quando il verbo è impersonale.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho trovato queste frasi nel libro Di chi è la colpa di Alessandro Piperno:

(1) “Io c’avevo guadagnato una Sakura acustica con la paletta in finta madreperla su cui spaccarmi i polpastrelli; lui un partner affidabile e diligente che accompagnasse i suoi assolo” (p. 33).

Il che prima di accompagnasse è evidentemente un pronome relativo, che, a mio parere, introduce una proposizione dipendente impropria, cioè una proposizione consecutiva. Possiamo, quindi, sostituirlo con tale che? L’uso dell’imperfetto congiuntivo accompagnasse per me dà una sfumatura di un’eventualità, e quindi la sfumatura per me si avvinca a quella di una proposizione finale con il verbo all’imperfetto del congiuntivo.
Se sostituissimo accompagnasse con avrebbe accompagnato sembrerebbe che l’evento successivo sia certo, non più un’eventualità; in quel caso, quindi, la proposizione relativa impropria non avrebbe più la sfumatura finale, ma avrebbe soltanto quella consecutiva: giusto?

Secondo esempio:

(2) “E dato che non c’è limite all’imprudenza, gli avevo lanciato un’occhiata che un ceffo di tale suscettibilità avrebbe di certo interpretato nel peggiore dei modi” (p. 14).

A mio parere, anche in questa frase il che è un pronome relativo, ma curiosamente Piperno ha usato avrebbe interpretato invece dell’imperfetto del congiuntivo. A mio parere qui il pronome relativo introduce ancora una proposizione relativa impropria con valore consecutivo. A differenza dell’esempio (1), però, mi dicono che interpretasse non sia ammesso. Quindi se fosse così concluderei che la proposizione impropria non può essere una finale dato che le proposizioni finali reggono sempre un verbo al congiuntivo: è giusto?

Terzo esempio:

(3) “Gli avevo lanciato un’occhiata che aprisse svariati scenari possibili (che avrebbe aperto svariati scenari possibili)”.

Mi dicono che così sia aprisse sia avrebbe aperto siano accettabili. È giusto? Se tutti e due i verbi sono corretti nell’esempio significa che la proposizione relativa potrebbe essere interpretata sia come finale sia come consecutiva?
Mi domando se sia necessario in una proposizione relativa impropria che l’oggetto a cui fa riferimento il pronome relativo sia il soggetto della dipendente per interpretare la dipendente impropria come una finale.

 

RISPOSTA:

La proposizione relativa nell’esempio 1 riceve effettivamente dal congiuntivo una sfumatura eventuale, che le fa prendere un significato consecutivo-finale. Quando nella reggente è descritta un’azione volontaria non è facile distinguere tra i due valori, perché l’evento descritto nella proposizione relativa può essere interpretato come la conseguenza o anche come il fine dell’azione della reggente; nella frase in questione, però, nella reggente è descritta una condizione (lui (ci aveva guadagnato) un partner), per cui si può scartare il valore finale, visto che una condizione è uno stato di fatto privo di finalità. La sostituzione di che con tale che in questo caso è possibile (con l’effetto di trasformare il che a metà tra il relativo e la congiunzione consecutiva in una congiunzione consecutiva), anche se la sintassi in questo modo diventa poco naturale; con tale sarebbe preferibile la costruzione della consecutiva con l’infinito: , tale da accompagnare i suoi assolo.
Se sostituiamo il congiuntivo imperfetto con il condizionale passato la sfumatura eventuale viene meno e l’evento descritto nella relativa diviene fattuale: con che avrebbe accompagnato i suoi assolo, quindi, si intende descrivere quello che effettivamente sarebbe successo in seguito al verificarsi della condizione della reggente, non quello che sarebbe potuto succedere come conseguenza della condizione descritta nella reggente. Lo stesso avviene se sostituiamo che con tale che, tale che avrebbe accompagnato i suoi assolo.
Nella frase 2 il condizionale passato indica, come indicherebbe nella 1, che l’evento descritto è un fatto, non una possibilità. Va sottolineato che, trattandosi di un evento successivo, la fattualità non può che essere immaginata dal parlante, infatti nella frase si legge avrebbe di certo interpretato, cioè ‘avrebbe – io credevo in quel momento – interpretato’. Il congiuntivo imperfetto non è affatto impossibile, ma è strano: un’occhiata che un ceffo di tale suscettibilità interpretasse nel peggiore dei modi è un’occhiata lanciata con lo scopo di suscitare nel ceffo la reazione peggiore; la relativa, cioè, prende, per via del congiuntivo, il tipico significato consecutivo-finale. La stranezza dipende dal fatto che il bersaglio dell’azione (un ceffo di tale suscettibilità) è rappresentato come indeterminato, quindi l’azione sarebbe rappresentata come finalizzata a suscitare una certa reazione su un bersaglio indeterminato. La costruzione con il congiuntivo diviene del tutto regolare se si rappresenta il bersaglio come determinato; per esempio: avevo lanciato a quei due un’occhiata che interpretassero nel peggiore dei modi. L’esempio 3 funziona esattamente come il 2. Per quanto riguarda l’ultima osservazione, non è così: il relativo può avere varie funzioni nella proposizione che introduce anche quando questa ha un significato consecutivo-finale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nelle frasi che costituiscono l’elenco numerato è più appropriato utilizzare il congiuntivo o l’indicativo del verbo indicato tra parentesi?
Per l’analisi dei libri di testo è stato impiegato il modello di sviluppo dell’autonomia di Reinders, basato su 8 livelli, per ciascuno dei quali sono stati ricercati nei testi specifici elementi:
1. Per il livello della definizione dei bisogni sono stati ricercati elementi che (permettono o permettano?) al discente di riflettere sui propri punti di forza, di debolezza ed esigenza nell’utilizzo della LS.
3. Per la pianificazione dell’apprendimento è stato verificato se i libri (consentono o consentano?) al discente di definire i tempi, le modalità e gli obiettivi di apprendimento per ciascuna unità o alcune di esse.
5. Per la selezione delle strategie di apprendimento sono state ricercate sia attività che informazioni che (aiutano o aiutino?) il discente ad adottare consapevolmente una specifica strategia di apprendimento.
6. Per il livello delle esercitazioni è stata osservata la presenza di esercizi liberi, in cui lo studente (può o possa?) utilizzare la LS senza rigide linee guida ed esprimersi, quindi, in modo più autentico sia in classe che al di fuori.
7. Per il monitoraggio dei progressi sono state ricercate sezioni che (permettono o permettano?) al discente di registrare e riflettere su cosa e come ha imparato.
8. Infine, per il livello della valutazione sono state considerate attività di autovalutazione o di feedback tra pari che (consentono o consentano?) agli studenti di esprimere un giudizio su ciò che essi stessi o i propri pari hanno appreso.

 

RISPOSTA:

In tutti i casi meno uno il verbo si trova all’interno di proposizioni relative. Queste ultime, tipicamente costruite con l’indicativo, possono prendere il congiuntivo quando il pronome relativo ha un antecedente indeterminato; il congiuntivo invece dell’indicativo produce un innalzamento diafasico, mentre il significato, a seconda della frase, non cambia affatto oppure assume una sfumatura consecutivo-finale. Mentre, ad esempio, elementi che permettono indica che gli elementi ricercati posseggono la qualità descritta (cioè permettono al discente di riflettere), elementi che permettano indica che gli elementi sono ricercati perché posseggano quella stessa qualità, o, in altre parole, nel primo caso si cercano degli elementi con una certa qualità, nel secondo si cerca una certa qualità posseduta da alcuni elementi. Del tutto ininfluente sul significato è, invece, la scelta del modo verbale nella proposizione interrogativa indiretta nella frase 3: qui la scelta dipende soltanto da ragioni diafasiche, ovvero dall’intento di usare un registro medio-alto (con il congiuntivo) o medio-basso (con l’indicativo).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei porvi una domanda in merito (a mio parere) alla scarsa chiarezza riscontrabile nei testi di grammatica, in merito al rapporto fra la forma riflessiva e la forma passiva.
Nella forma riflessiva apparente (ad es., “Paolo si lava le mani”), il verbo sembra essere transitivo. Allora essendo transitivo dovrebbe essere possibile trasformare la frase riflessiva in passiva. Ad es., “Le mani di Paolo sono lavate da sé stesso”.
Ora, a prescindere dalla correttezza o meno dell’esempio, mi aspetterei che le grammatiche ne parlino. Oppure, se contraddice la regola, in quanto il verbo lavarsi non sarebbe transitivo, gli autori dei testi scolastici potrebbero spendere qualche parola in più e dire esplicitamente che la forma passiva non è possibile ottenerla dalle frasi riflessive. Punto.
Tenete conto che molto spesso gli allievi (specie quelli non madre lingua italiana, magari impegnati nell’apprendimento dell’italiano L2 ) necessitano di regole grammaticali – morfologiche e sintattiche – un po’ più agili, più lineari, meno deduttive.

 

RISPOSTA:

Il problema che lei solleva discende dall’idea che la forma passiva del verbo “si ottenga” da quella attiva. In realtà, la forma passiva del verbo ha le sue regole di formazione indipendenti dalla forma attiva; essa, inoltre, coinvolge la costruzione dell’intera frase e dipende dall’intento dell’emittente di rappresentare la realtà in un certo modo (mettendo in primo piano il processo e in secondo piano l’agente). La specularità tra la costruzione della frase attiva e passiva con i verbi transitivi è un fatto secondario, utile in chiave didattica, perché consente di instaurare un confronto tra le due, ma non essenziale per comprendere la funzione specifica della costruzione passiva. Anzi, tale confronto rischia di essere fuorviante, proprio perché concentra l’attenzione sulla corrispondenza formale tra attivo e passivo e oscura la funzione specifica della costruzione passiva. Venendo al suo caso, è vero che tra la costruzione attiva e quella passiva dei verbi transitivi pronominali c’è una corrispondenza imperfetta, perché nel passivo viene a mancare l’elemento pronominale che sottolinea il vantaggio che il soggetto trae dal processo o la particolare intensità con cui partecipa al processo. Tale imperfezione, però, non annulla la corrispondenza; non c’è qui, quindi, un’eccezione da rilevare, ma una minima deviazione dalla regolarità. Ora, soffermarsi a puntualizzare le innumerevoli deviazioni dalla regolarità non è possibile, né utile (si ricordi che la stessa regolarità delle costruzioni è una schematizzazione di comodo): se le grammatiche scolastiche lo facessero diventerebbero indigeribili e abdicherebbero alla loro funzione di inquadramenti sintetici per principianti.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le due frasi sono corrette?

1. Non ve n’è mai fregato della vostra famiglia.

2. Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia.

 

RISPOSTA:

Le due frasi sono corrette, ma hanno significati opposti per via del verbo, che soltanto in apparenza è uguale. Nel primo esempio, il verbo coinvolto è fregarsi, un verbo intransitivo pronominale che significa ‘importare’; la frase, quindi, può essere interpretata così: “Non vi è mai importato della vostra famiglia”. Il pronome atono ne, in questo caso, serve ad anticipare il tema: “Non ve n‘è mai fregato della vostra famiglia“. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a destra (o a sinistra) è definita dislocazione e serve a ribadire il tema, per assicurarsi che l’interlocutore l’abbia identificato.
Nel secondo esempio, invece, la frase è costruita attorno al verbo procomplementare fregarsene (sui verbi procomplementari rimando alle risposte contenute nell’Archivio di DICO). Il suo significato non è ‘importare’, come per fregarsi, ma ‘mostrare indifferenza, infischiarsene’. La frase, quindi, assume tutto un altro senso: “Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia” equivale a “Non avete mai mostrato indifferenza nei confronti della vostra famiglia”, quindi “Vi siete sempre interessati della vostra famiglia”.
Questo caso, molto interessante, è un tipico esempio la cui risoluzione richiede una particolare attenzione alle particelle pronominali presenti nella frase, che possono modificare o, addirittura, ribaltare il significato di ciò che si vuole scrivere o dire.
Raphael Merida

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

In grammatica, la posizione delle particelle pronominali è codificato da regole ben precise, oppure è libera e segue pertanto le preferenze del parlante?
In particolare, le costruzioni sotto indicate sono valide e caratterizzate dallo stesso grado di formalità?

1a) Posso parlarti?
1b) Ti posso parlare?
2a) Ti sto guardando
2b) Sto guardandoti
3a) Non ti muovere!
3b) Non muoverti!
4a) Ti sto venendo a cercare
4b) Sto venendoti a cercare
4c) Sto venendo a cercarti.

 

RISPOSTA:

Tutte le frasi riportate negli esempi sono corrette. I pronomi atoni (mi, ti, gli, lo ecc.) possono collocarsi, a seconda del modo verbale, prima o dopo il verbo: quando si trovano prima del verbo, i pronomi si chiamano proclitici (mi scrivi), quando stanno dopo il verbo, e quindi formano un’unica parola con esso, si chiamano enclitici (scrivimi).
Vediamo nel dettaglio perché tutti gli esempi da lei riportati ammettono questa doppia possibilità. Nelle frasi 1a e 1b l’infinito parlare è retto dal verbo servile potere; in questi casi, il pronome può seguire l’infinito, come nella frase 1a, oppure può precedere il servile, come nella frase 1b. Anche il verbo stare seguito dal gerundio, che indica un’azione nel suo svolgersi, ammette la doppia posizione del pronome atono; per questo motivo, le frasi 2a e 2b sono equivalenti. Il pronome può precedere o seguire il verbo anche quando la frase contiene un imperativo negativo, come nei casi di 3a e 3b; se, invece, la frase contenesse un imperativo affermativo il pronome potrebbe stare soltanto in posizione enclitica (muoviti). Le frasi 4a, 4b e 4c ammettono una triplice possibilità perché il verbo stare regge un verbo di moto (andare) che, a sua volta, regge un infinito preceduto da preposizione (a cercare): il verbo, quindi è andare a cercare. Per tali ragioni, il pronome può trovarsi prima o dopo la costruzione stare + gerundio (4a e 4b), oppure dopo l’infinito del verbo (4c).
Raphael Merida

Parole chiave: Coesione, Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se la preposizione “a“ davanti a “cui“ può essere sempre omessa, o se, in determinati casi, l’ellissi possa determinare costruzioni errate.

1) La riflessione (a) cui vorrei portarti è questa…
2) La signora (a) cui ho chiesto un favore è tua sorella.

Sono molto curioso circa l’origine della regola, e soprattutto mi chiedo per quale ragione si applichi esclusivamente, se non vado errato, a questa preposizione semplice e non anche ad alcune delle altre.

 

RISPOSTA:

Entrambe le varianti sono corrette (cui / a cui) perché nei due esempi cui assume la funzione di complemento di termine. L’oscillazione risale alla forma latina cui che significa ‘al quale’; a causa della possibile ambiguità generata dalla mancanza della preposizione, si è sentita l’esigenza di accostare al pronome cui la preposizione tipica del complemento di termine, cioè a. Per queste ragioni, la forma senza preposizione è considerata più formale di quella con la preposizione.
L’omissione riguarda anche la preposizione di in frasi come “Maria la cui bravura è proverbiale”, dove cui, posizionato fra l’articolo e il sostantivo, ha valore di complemento di specificazione (la frase, altrimenti, dovrebbe essere tradotta così: “Maria, la bravura della quale è proverbiale”). In casi come questo, fino all’Ottocento, la preposizione di era ammessa in una costruzione ormai uscita dall’uso, cioè il di cui.
Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella seguente frase il congiuntivo cerchino è preferibile rispetto all’indicativo cercano?
“Scelgo le forme che non cercano scopi per descrivere quello che sento per te”.

 

RISPOSTA:

No: l’indicativo è la forma migliore, perché l’antecedente del relativo, le forme, è determinato, quindi non si armonizza bene con il congiuntivo, che renderebbe la qualità del cercare scopi eventuale, quindi indeterminata. Diversamente, il congiuntivo sarebbe possibile, ma comunque non obbligatorio, se la frase fosse “Scelgo forme che non cerchino scopi…”. In questo caso cerchino sarebbe interpratato come un processo consecutivo-finale (come se le forme fossero scelte allo scopo di non cercare scopi), mentre cercano qualificherebbe in astratto le forme scelte.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

I verbi in maiuscolo nella seguente frase sono corretti?
“Se ci ferissimo in una zona remota dovremmo avere con noi un buon kit di primo soccorso, che CONTENGA quegli strumenti che ci CONSENTIREBBERO di fronteggiare anche gravi situazioni di urgenza”.

 

RISPOSTA:

Il congiuntivo presente contenga è adatto a esprimere l’atemporalità (o meglio la pantemporalità, ovvero l’indipendenza da coordinate temporali particolari) del processo che qualifica il kit. Si noti che il conguntivo è preferibile all’indicativo in questo caso perché l’antecedente del relativo, un buon kit, è indeterminato; se al posto di un buon kit ci fosse, per esempio, il kit, l’indicativo presente contiene sarebbe preferibile (in quel caso, però, la proposizione relativa diventerebbe automaticamente limitativa, quindi si dovrebbe anche eliminare la virgola prima del pronome relativo).
La decisione riguardo a consentirebbero è più complicata: nella frase così costruita si può usare sia questa forma sia l’indicativo presente consentono. Nel primo caso il processo è rappresentato come conseguenza di una condizione sottintesa (per esempio se si presentassero); nel secondo caso il processo è presentato come pantemporale, al pari di contenga. Rispetto a contenga, qui l’indicativo è preferibile al congiuntivo perché l’antecedente del relativo, quegli strumenti, è determinato.
Va detto, comunque, che bisogna evitare di subordinare una relativa a un’altra relativa. A questo scopo si può sostituire, per esempio, che ci consentono o che ci consentirebbero con utili a.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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QUESITO:

“L’amore non deve c’entrare mai con il possesso”, una frase ascoltata in un discorso televisivo, ma che mi è suonata molto cacofonica. È corretta la forma? Si sarebbe potuta formulare in modo diverso?

 

RISPOSTA:

La forma, in effetti, è sempre più comune. Le forme più usate del verbo entrarci, che hanno il pronome proclitico (collocato prima del verbo), nonché l’esistenza dell’omofono verbo centrare, stanno probabilmente provocando la ristrutturazione del verbo nella coscienza dei parlanti: da forme come che c’entra, cioè, si producono sempre più spesso le forme analogiche deve c’entrare e simili. Il conflitto tra le forme analogiche innovative e quelle etimologiche, regolari, è attestato dalla diffusione di varianti ibride come c’entrarci, ancora meno giustificabili di quelle analogiche.
Attualmente il processo di ristrutturazione del verbo è substandard (ma non possiamo prevedere se in futuro tale processo avrà successo), pertanto le forme indefinite con il pronome proclitico (e nello scritto addirittura univerbato: non deve centrare) non possono essere ritenute accettabili, se non in contesti molto trascurati. Le forme che può prendere il verbo pronominale entrarci sono descritte qui.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

«Questa critica è rivolta a me, che non ho seguito i tuoi consigli».

Non so se la costruzione sia corretta. Non ravviso niente di illogico o di irregolare in essa; tuttavia non sono convinta che, dal punto di vista grammaticale, il riferimento del «che» sia valido.

La frase, parafrasata, sarebbe questa:

«Questa critica è rivolta a me. Io non ho seguito i tuoi consigli».

Ma nell’esempio, il «che», se non erro, si riferisce a un soggetto non espresso. Mi domando se la mia osservazione sia giusta.

 

RISPOSTA:

La frase è ben formata e il che non si riferisce a un soggetto non espresso, bensì a un complemento di termine (della reggente), svolgendo tuttavia la funzione di soggetto della subordinata relativa. Il fatto che l’antecedente del relativo (cioè il nome cui il relativo si riferisce) sia in un complemento indiretto non crea alcuna difficoltà; l’importante è che il pronome relativo, all’interno della proposizione relativa, svolga il ruolo o di soggetto o di oggetto, e nessun altro (salvo eccezioni d’ambito colloquiale e al limite dell’accettabilità). Dunque, sarebbe substandard un esempio del genere: «la critica è rivolta a me, che non me ne importa niente» (cioè «a cui non importa niente»). In questo caso, saremmo di fronte a una cosiddetta relativa debole, o che polivalente, da evitare nello stile formale o anche di media formalità.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho una domanda riguardante la seguente frase, tratta da The Game di Alessandro Baricco:

L’istinto era quello di fermarli. Il pregiudizio, diffuso, quello che fossero dei distruttori punto e basta.

Nella frase, quello che fossero equivale a (l’istinto) era che fossero (l’uso del congiuntivo imperfetto è stilistico e non è semantico). La mia confusione riguarda il fatto che in quello che il che è un pronome relativo, mentre nella mia versione della frase il che è una congiunzione. Nella frase originale perché che è un pronome relativo? Non riesco a sostituirlo con il quale. A che cosa si referisce quello? Potrebbe farmi un altro esempio in cui quello che viene usato come nella frase di Baricco?

 

RISPOSTA:

Nella frase originale, quello serve a ripetere il sintagma l’istinto. Questa ripetizione è possibile (anche se appesantisce la sintassi) e può servire a far risaltare il sintagma ripreso. Essa, però, non è necessaria e non cambia la natura della proposizione introdotta da che; il che, infatti, non si riferisce a quello (infatti non può essere sostituito da il quale), ma è una congiunzione, proprio come nella versione modificata. La proposizione introdotta da che è una completiva: nella variante con quello è una dichiarativa; nella variante senza quello viene considerata soggettiva, anche se sostituisce una parte nominale (per un approfondimento si veda questa risposta). Frasi come quella da lei citata potrebbero essere “La paura era quella di non riuscire a vincere”; “La paura era quella che la mia squadra non avrebbe vinto”.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ieri ho scritto la seguente frase in un mio elaborato: «Uscì di casa alle 10 per farne ritorno alle 12».

La particella ne equivale, in questo caso, a “in” o eventualmente ad “a”: “(…) per fare ritorno in casa/a casa”.

La costruzione è corretta?

 

RISPOSTA:

No, la forma corretta, semmai, sarebbe: «…per farvi ritorno…». La particella pronominale atona ne, infatti, può pronominalizzare un complemento di moto da luogo («andò a Roma e ne ripartì subito dopo», cioè ripartì da Roma), oppure un complemento partitivo: «Quanta ne vuoi? Ne vuoi una fetta?»; o qualche altro complemento (per es. di argomento). Ci e vi, invece, pronominalizzano i complementi di stato in luogo, moto a luogo e moto per luogo. Peraltro, nel suo esempio, neppure vi sarebbe il massimo, ma suonerebbe un po’ ridondante e burocratico: che bisogno c’è, infatti, di specificare il luogo? È ovvio che torni a casa. E inoltre, è proprio necessario quel brutto verbo supporto, da antilingua calviniana, fare ritorno? Senta com’è più naturale così: «Uscì di casa alle 10 per ritornare alle 12». Evviva la semplicità!

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Pongo il seguente quesito. Nella frase “il gatto gli balzò addosso”, il termine “addosso” è da considerarsi avverbio o preposizione impropria riferita a “gli”? Io lo interpreto come avverbio e quindi penso a due complementi diversi in analisi logica, ma la presenza della particella pronominale prima del verbo mi pone qualche imbarazzo. Il problema si ripresenta in frasi come: “il bambino gli andò incontro; gli saltò sopra; gli rimase dietro; le mise sopra un cappello” e simili. Voi come lo interpretate?

 

RISPOSTA:

I casi portati a esempio rientrano nella tipologia dell’estrazione della preposizione nei casi di locuzione formata da preposizione polisillabica (o impropria, secondo la grammatica tradizionale) e preposizione semplice (cfr. L. Renzi, Grande grammatica italiana di consultazione, Bologna, il Mulino, 1988, vol. I, pp. 524-528; si veda anche la voce Preposizione, curata da Hanne Jansen, nell’Enciclopedia dell’italiano Treccani, 2011, liberamente accessibile online nel sito treccani.it). L’estrazione consiste in questo: in determinate condizioni (per es. in presenza di clitico, o particella pronominale atona), viene eliminata (tecnicamente, estratta; o meglio: viene estratto il sintagma preposizionale, ovvero il complemento: gli = a lui ecc.) la preposizione semplice, mentre il clitico viene anticipato: «il gatto balzò addosso a lui» > «il gatto gli balzò addosso». Quindi addosso, in questo caso (oppure incontro, dietro, contro, accanto ecc.) è una preposizione e non un avverbio. Dunque vi è un solo complemento, non due.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vi sottopongo questa frase: “Lei non volle andare in camera da letto. Restammo lì, su quelle vecchie poltrone, e pensai che eravamo i primi a farci l’amore”. Ovviamente a farci l’amore significa: ‘a fare l’amore SU quelle poltrone’. Ora vi chiedo: può il pronome ci sostutuire su (sulle poltrone)? Inoltre, la frase risulta subito comprensibile e scorrevole?

 

RISPOSTA:

La frase è scorrevole e comprensibile. I pronomi non hanno un significato preciso, ma prendono il significato del sintagma che di volta in volta riprendono, o a cui rimandano, adattandolo alla sintassi della frase in cui si trovano. Così, nella sua frase ci significa ‘su quelle poltrone’, in una frase come “Amo Roma e ci vado ogni volta che posso” il pronome ci significa ‘a Roma’, in una frase come “Se scavi sotto l’albero ci troverai una scatola” lo stesso pronome significa ‘sotto l’albero’ e così via.
Quasi tutte le grammatiche sostengono che civi e ne abbiano la natura di avverbi, non di pronomi, quando rappresentano indicazioni di luogo, come nella sua frase, dal momento che equivalgono a qui, da qui, da lì. Come si vede dagli esempi per ci (ma questo vale anche per gli altri), però, essi mantengono sempre la funzione di riprendere un sintagma introdotto altrove nella frase o nel testo, o ricavabile dal contesto (per esempio, davanti alla brochure di un viaggio organizzato un interlocutore potrebbe chiedere a un altro: “Ci andiamo?”): possiamo, quindi, considerarli pronomi anche in questo caso.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se entrambe le soluzioni riportate di seguito sono corrette, oppure se ve ne sia una meno formale rispetto all’altra:
È una sfumatura semantica che risulta difficile cogliere.
È una sfumatura semantica che risulta difficile da cogliere.

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono possibili e praticamente equivalenti dal punto di vista semantico; la prima, però, ha una costruzione sintattica intricata, per quanto del tutto comprensibile e ammessa dalla grammatica.
L’intrico dipende dalla natura della proposizione che cogliere, contemporaneamente relativa e soggettiva; da una parte, infatti, che riprende il sintagma una sfumatura semantica (quindi introduce una relativa), dall’altra la proposizione funge da soggetto di risulta difficile (quindi è una soggettiva). Per evidenziare questa sovrapposizione di funzioni, potremmo parafrasare questa parte della frase con cogliere la quale risulta difficile.
La seconda frase è più lineare dal punto di vista sintattico: che è il soggetto della proposizione relativa che risulta difficileda cogliere è una proposizione completiva assimilabile a una oggettiva, retta dall’aggettivo difficile. Non è facile associare le due frasi a determinati registri: in linea generale, mentre la seconda è adatta a tutti i contesti, la prima è più adatta a contesti medio-alti, soprattutto scritti, per via della complessità della costruzione.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Incontro difficoltà nel collocare le virgole in questa costruzione:
“Marco accusa Paolo che accusa Luigi che fa finta di niente”.
Mi verrebbe spontaneo inserire soltanto una virgola, dopo Luigi: “Marco accusa Paolo che accusa Luigi, che fa finta di niente”, ma al tempo stesso mi domando se non servirebbe anche dopo Paolo: “Marco accusa Paolo, che accusa Luigi, che fa finta di niente”.

 

RISPOSTA:

La soluzione corretta è quella con due virgole: entrambe le relative, infatti, sono per forza esplicative, perché i nomi propri sono fortemente determinati e possono essere ulteriormente identificati con una relativa limitativa soltanto in condizioni speciali (per esempio “Ho incontrato quel Paolo che fa il barista a Modena”).
Maggiori informazioni sulle relative limitative ed esplicative possono essere ricavate qui.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Queste frasi possono essere scritte in tutti i modi proposti?
“Sarebbe bello se nella vita di tutti i giorni avessimo dei motori, come quelli scacchistici, che ci indicassero / indicano / indichino sempre la mossa migliore”.
“Da quando i Fenici hanno inventato / inventarono il denaro(,) il mondo va / sta andando a rotoli”.
È possibile inserire la virgola tra parentesi?

 

RISPOSTA:

Nella proposizione relativa della prima frase l’indicativo presente rappresenta l’azione dell’indicare come fattuale e atemporale; la relativa, così costruita, serve esclusivamente a identificare dei motori, come se fosse un aggettivo (dei motori che ci indicano la mossa migliore = dei motori indicanti la mossa migliore). Il congiuntivo imperfetto aggiunge una sfumatura di eventualità, che viene interpretata come desiderabilità, per via della doppia attrazione esercitata dalla reggente ipotetica (se avessimo dei motori) e dalla principale, perché la relativa viene facilmente scambiata per una completiva (sarebbe bello… che ci indicassero). Il congiuntivo presente nella relativa è in teoria possibile, con lo stesso valore del congiuntivo imperfetto, ma di fatto è poco accettabile proprio a causa dell’attrazione della struttura sarebbe bello… che ci indicassero: la completiva retta da verbi o espressioni di desiderio richiede, infatti, il congiuntivo imperfetto (si veda la discussione di questa norma qui).
Nella seconda frase nella temporale è preferibile il passato prossimo, perché l’evento dell’inventare è chiaramente ancora influente sul presente; nella principale si possono usare il passato prossimo è andato, per indicare che l’evento è iniziato nel passato ma è ancora attuale, il presente, per focalizzare l’attenzione sul presente, la perifrasi progressiva sta andando, per sottolineare ulteriormente la contemporaneità tra l’enunciazione e l’andare.
L’inserimento della virgola è possibile, ma non obbligatorio. La virgola tra una subordinata anteposta alla reggente e la reggente stessa è possibile, e persino consigliabile, nel caso in cui si vogliano separare le due informazioni in modo da far risaltare ciascuna. Questa separazione sarebbe più funzionale, per la verità, se la subordinata fosse posposta: “Il mondo è andato / va / sta andando a rotoli, da quando i Fenici hanno inventato il denaro” (= “Il mondo è andato / va / sta andando a rotoli; e questo sta succedendo da quando i Fenici hanno inventato il denaro”); nel caso specifico, invece, il collegamento logico tra le informazioni instaurato proprio dalla anteposizione della subordinata è talmente forte che il segno risulta controintuitivo. Esso, però, mantiene la sua utilità dal punto di vista sintattico, perché segmenta la frase in modo chiaro.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Noi non li assomigliamo o li assomigliamo troppo poco” è corretto l’uso di li per loro?

 

RISPOSTA:

No: il verbo assomigliare regge un sintagma introdotto da a (assomiglio a mio padre), mentre il pronome li può fungere soltanto da complemento oggetto, non da complemento indiretto. Pertanto è corretto li chiamiamo (ovvero chiamiamo loro), mentre con il verbo assomigliare si possono usare gli oppure a loro (quindi gli assomigliamo o assomigliamo a loro). In teoria è possibile anche loro (assomigliamo loro), visto che loro può sostituire a loro, ma tale sostituzione è più comune quando il pronome ha una chiara funzione di complemento di termine (per esempio do loro un regalo); in questo caso, invece, in cui il sintagma è piuttosto un complemento oggetto obliquo (sul quale si veda questa risposta), è preferibile a loro.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere a quale persona si riferisce il pronome _questi _nella seguente frase:
“Con l’acquisto operato dal donante, Caio trasferiva a Tizio lo stesso bene con i relativi confini e questi con atto del 2002 enunciava che il trasferimento avveniva nello stato di fatto e di diritto in cui si trovava il cespite”.

 

RISPOSTA:

In base alle regole del riferimento anaforico questi riprende (o è coreferente con) Tizio, ovvero quello tra i due possibili antecedenti (Caio e Tizio) che non è il soggetto della proposizione reggente (Con l’acquisto Caio trasferiva lo stesso bene con i relativi confini). Per riprendere il soggetto di una proposizione reggente, infatti, bisogna usare l’ellissi del soggetto; per riprendere Caio nella coordinata, quindi, la frase avrebbe dovuto essere “… Caio trasferiva a Tizio lo stesso bene con i relativi confini e con atto del 2002 enunciava…”. Esiste un’alternativa all’ellissi per riprendere il soggetto della reggente, ma non è questi, bensì un pronome esplicito come lo stesso (preferibilmente completato dal nome): “… Caio trasferiva a Tizio lo stesso bene con i relativi confini e lo stesso Caio con atto del 2002 enunciava…”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nell’Italiano parlato, verbi che normalmente non avrebbero bisogno di particelle pronominali tendono ad assumerle quando si vuole esprimere un’emozione, di solito positiva, legata all’azione, tipicamente di soddisfazione.
Mangio un panino -> Mi mangio un panino
Bevi un tè! -> Beviti un tè!
In questo caso il pronome indica un complemento di vantaggio (Io mangio un panino per me, bevi un tè per te) oppure un altro complemento?

 

RISPOSTA:

I verbi formati con la particella pronominale a cui lei si riferisce rientrano nella categoria dei transitivi pronominali (anche detti riflessivi apparenti). In essi la particella pronominale ha la funzione di indicare a volte che l’azione è svolta per il soggetto (mi lavo le mani = ‘lavo le mani a me’) oppure, come nei casi da lei portati, di indicare che l’azione è svolta con particolare partecipazione emotiva da parte del soggetto. Volendo far rientrare queste funzioni nella classificazione dell’analisi logica, nei verbi come lavarsi + complemento oggetto la particella è più facilmente interpretabile come complemento di termine; in quelli come mangiarsi come complemento di vantaggio (come da lei suggerito). Va, però, rilevato che non è affatto necessario fare questa operazione di classificazione, che non aggiunge niente alla comprensione della frase e risulta un po’ logicistica.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase “Sono venuti tutti”, tutti potrebbe sostituire, per esempio, tutti gli invitati, che è soggetto del verbo. Mi chiedo se entrambe le posizioni, pre e postberbale, di tutti pronome siano del tutto valide e se c’è una prevalenza di una posizione rispetto all’altra. A me la posizione postverbale sembra più naturale, ma non so spiegarmi il motivo.

 

RISPOSTA:

Bisogna fare un ragionamento in due passaggi.

Consideriamo innanzitutto la frase in astratto. Il soggetto può essere collocato quasi sempre in posizione postverbale: con i verbi non inaccusativi (gli inergativi, cioè gli intransitivi con l’ausiliare avere, e i transitivi), però, tale posizione è tendenzialmente focalizzata (il soggetto ha un valore informativo di rilievo), mentre con i verbi inaccusativi (gli intransitivi con l’ausiliare essere) questa posizione è tendenzialmente non marcata. Al contrario, con i verbi non inaccusativi la posizione preverbale è non marcata (al netto di intonazioni speciali), quella postverbale è focalizzata. Si confrontino le seguenti frasi:

1. Al ricevimento tutti hanno mangiato [verbo inergativo] a sazietà;

2. Al ricevimento hanno mangiato tutti a sazietà.

Nella 1 il soggetto preverbale è non marcato; nella seconda è focalizzato, cioè rappresentato come l’informazione più rilevante nella frase. Come si è detto, un’intonazione speciale può marcare il soggetto rendendolo focalizzato anche se è collocato in posizione non marcata: in questo caso un’intonaziona enfatica su tutti nella frase 1 renderebbe il soggetto focalizzato.

Ora si osservino queste due frasi:

3. Dieci persone sono venute alla festa;

4. Sono venute dieci persone alla festa / Alla festa sono venute dieci persone.

In 3 il soggetto preverbale è automaticamente focalizzato; nella coppia 4 è non marcato, perché forma un’informazione unitarica con il verbo (sono venute dieci persone). Si potrebbe al limite focalizzare anche nelle due frasi della coppia 4, ma soltanto pronunciandolo con enfasi.

Nel suo caso, “Sono venuti tutti” ricalca, in astratto, la costruzione della coppia 4; una eventuale costruzione “Tutti sono venuti”, invece, ricalcherebbe la frase 3. Diversamente, “Hanno tutti voti alti” (verbo transitivo) e “Giocano tutti a calcio” (verbo inergativo) ricalcano la coppia 2.

Secondo passaggio. Il pronome tutti, se la frase è inserita in una sequenza, quindi in un testo, assume una funzione anaforica ineludibile, che è associata, al netto di costruzioni particolari della frase e di intonazioni speciali, al valore marcato tematico (il soggetto è rappresentato nettamente come argomento della frase al fine di collegare con chiarezza la frase al discorso sviluppato precedentemente). Tale funzione si manifesterà a prescindere dal verbo della frase, quindi si manterrà anche in posizione focalizzata, anche se il valore focalizzato è nettamente distinto da quello tematico:

5. Gli studenti della terza C sono bravissimi; hanno tutti voti alti!

6. I miei amici fanno sport; giocano tutti a calcio!

Nelle frasi, tutti è anaforico e focalizzato. La focalizzazione non è evidente proprio a causa della funzione anaforica di tutti, che sfuma la rilevanza dell’informazione; essa, però, emerge chiaramente se sostituiamo tutti con un sintagma nominale, privo di funzione anaforica: “Al ricevimento hanno mangiato a sazietà tutti gli ospiti”. Con il sintagma nominale, si noti, sarebbe molto innaturale inserire il soggetto tra il verbo e il sintagma preposizionale (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti a sazietà”), perché tale sintagma risulta fortemente legato al verbo (è un suo circostante). La stessa cosa avviene con i verbi transitivi, che richiedono il complemento oggetto come argomento (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti la torta”): con i verbi transitivi e i verbi inergativi accompagnati da un circostante, quindi, la posizione postverbale del soggetto è possibile soltanto se tra il verbo e il soggetto si inserisce il complemento oggetto o il circostante.

7. Ho invitato dieci persone alla festa; sono venute tutte.

8. Ho invitato dieci persone alla festa; tutte sono venute.

Nella frase 7 il pronome è anaforico e non marcato; nella 8 è anaforico e focalizzato. Anche in questo caso, sostituendo il pronome anaforico con un sintagma non anaforico si fa emergere il valore informativo del sintagma, come avviene nelle frasi 3 e 4.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi è capitato di scrivere la seguente frase in un messaggio: “Ti invio il documento di cui mio marito ha parlato alla tua collega”. Nel rileggerlo e analizzandone la sintassi, non riscontro errori; tuttavia, a orecchio, non mi convince.
Se non ci fosse il complemento di termine in coda alla costruzione, non avrei alcun dubbio.

 

RISPOSTA:

La sintassi della frase è corretta; il complemento di termine retto dal verbo parlare deve necessariamente essere inserito dopo il verbo stesso (l’inversione sarebbe molto innaturale), quindi la posizione in coda alla frase è quasi obbligata. Non è, del resto, possibile eliminarlo, visto che è il secondo argomento del verbo (il cui schema valenziale è, appunto, SOGG. + parlare + ARG. PREPOS.): parlare senza l’indicazione della persona a cui si parla, infatti, prende significati del tutto diversi da quello qui inteso, ovvero ‘avere la facoltà del linguaggio’ (“Mio figlio ancora non parla”), oppure ‘dialogare’ (“Di solito parliamo di calcio”) o anche ‘rivelare un segreto’ (“Il complice ha parlato”).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“Pensavo che avesse detto qualcosa in più, che io non AVESSI afferrato”.

È corretto/accettabile l’uso del congiuntivo nella relativa qui proposta o sarebbe stato più corretto usare l’indicativo?
Credo che il congiuntivo dia una sfumatura di eventualità o si tratta di un ipercorrettismo o attrazione modale?

 

RISPOSTA:

La proposizione relativa si costruisce normalmente con l’indicativo. In questa proposizione il congiuntivo può essere utile a esprimere una sfumatura consecutivo-finale (“Cerco una persona che mi capisca”); quando, inoltre, essa è subordinata a un’altra proposizione al congiuntivo, può prendere il congiuntivo per quella che possiamo definire attrazione modale. Che il congiuntivo nel suo caso non sia richiesto per ragioni semantiche è dimostrato dal fatto che, sostituendolo con l’indicativo (che io non avevo afferrato), il risultato non solo è pienamente accettabile, ma mantiene lo stesso significato. Perdipiù, il congiuntivo è persino forzato nella relativa esplicativa (quale è quella della sua frase), che aggiunge informazioni accesorie all’antecedente (qualcosa); risulterebbe del tutto naturale, invece, nella relativa limitativa, che serve a identificare l’antecedente: “Pensavo che avesse detto qualcosa in più che io non AVESSI afferrato”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Ho un dubbio reltivo alla seguente frase esterapolata dagli atti di un processo:
“i coniugi dichiarano di avere provveduto alla divisione dei beni mobili e di ogni altro oggetto di valore al di fuori di questa convenzione e di non avere null’altro a pretendere una dall’altra”.
Qual è la forma corretta: una dall’altrauno dall’altro oppure uno dall’altra?

 

RISPOSTA:

I pronomi uno e altro hanno quattro forme (diversamente, per esempio, da che, che ne ha una sola), quindi concordano con la parola a cui si riferiscono. Quando i due pronomi sono usati nell’espressione reciproca l’un l’altro o in varianti della stessa, può capitare che la concordanza influenzi soltanto il genere, non il numero. Questo avviene quando la parola a cui entrambi i pronomi si riferiscono è plurale, mentre ciascuno dei due pronomi rimanda a un referente singolare. L’esempio della frase da lei proposta è proprio il caso in cui la parola a cui i pronomi si riferiscono, coniugi, è plurale, mentre ciascuno dei due pronomi rimanda a un referente singolare, ovvero ciascuno dei due coniugi. Da questo consegue che la forma grammaticalmente ineccepibile sia, nel suo caso, l’uno dall’altro (ovvero ‘un coniuge dall’altro coniuge’). Comunemente, se i due referenti dei due pronomi sono uno maschile, l’altro femminile, è possibile anche costruire un accordo “logico”, cioè non con la parola, ma con i referenti. In questo modo, se i coniugi in questione sono un uomo e una donna la forma sarà uno dall’altra (ovvero ‘il marito dalla moglie’) o, viceversa, una dall’altro. Un testo come una sentenza o simili, comunque, richiede il maggior rigore grammaticale possibile; in un simile testo, pertanto, è preferibile usare la forma che concorda con coniugi.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quale di queste due espressioni è corretta:

“Sconcerta il nostro (come esseri umani) dibattersi o dibatterci per cose banali”.

 

RISPOSTA:

Il verbo dibattersi, intransitivo pronominale, viene usato all’interno dell’esempio proposto con la funzione di sostantivo, preceduto da articolo. Entrambe le forme del verbo sono possibili, ma hanno significati diversi: il dibattersi è impersonale, ed equivale a ‘il fatto che ci si dibatta’; il dibatterci contiene il pronome di prima persona plurale, quindi potremmo parafrasarlo come ‘il fatto che noi ci dibattiamo’. L’aggettivo possessivo nostro produce, pertanto, una precisazione determinante quando si unisce a dibattersi, perché personalizza di fatto la forma impersonale (il nostro dibattersi = ‘il fatto che noi ci dibattiamo’); quando si unisce a dibatterci, invece, produce soltanto un rafforzamento del concetto già espresso dal pronome ci. Tale rafforzamento è a rigore superfluo, ma è del tutto ammissibile, specie all’interno di un contesto informale, perché conferisce alla proposizione una maggiore enfasi, e perché è giustificato proprio dalla presenza di nostro, che è percepito come semanticamente coerente con ci (laddove la combinazione di nostro e dibattersi è sentita come insufficiente per esprimere la personalità dell’azione, ovvero chi sia il soggetto logico del dibattersi).

Francesca Rodolico

Fabio Ruggiano

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“Hai scelto il brano peggiore tra i tanti possibili”.
Vorrei sapere se l’aggettivo possibili nella suddetta costruzione è corretto.

Sì, la costruzione è corretta: l’aggettivo possibile è comunemente usato in contesti simili senza un significato preciso, ma con la funzione di rafforzare proprio l’aggettivo o il pronome (ogni possibile candidatotutti i libri possibili…).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È sbagliato usare “proprio” al posto di “nostro” come nell’esempio che segue?
“E per colpa tua, mettiamo anche oggi in dubbio la propria conoscenza”.

 

RISPOSTA:

Proprio può sostituire soltanto i possessivi di terza persona suo e loro. La frase proposta quindi non è corretta perché propria non si riferisce a un soggetto di terza persona (“E per colpa tua, Mario anche oggi mette in dubbio le sue/proprie conoscenze”), ma a un soggetto di prima persona plurale: “E per colpa tua, (noi) mettiamo anche oggi in dubbio la nostra conoscenza”.
Raphael Merida

Parole chiave: Aggettivo, Analisi logica, Pronome
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QUESITO:

Vorrei esprimere un dubbio in merito all’uso del congiuntivo passato e trapassato con il pronome relativo misto chiunque. Nella frase “Chiunque abbia pronunciato un giudizio così avventato, avrebbe dovuto documentarsi più scrupolosamente”, dopo il pronome chiunque potrebbe andarci bene anche il trapassato congiuntivo avesse pronunciato? Se sì, perché?

 

RISPOSTA:

La frase chiunque avesse pronunciato… è corretta: il trapassato avesse pronunciato può servire a collocare l’evento prima di un altro evento passato, per esempio in una frase come “Luca pensò che chiunque avesse pronunciato…” (in questo caso il passato non sarebbe corretto: *”Luca pensò che chiunque abbia pronunciato…”). Il trapassato è anche comunemente usato in relazione al presente, non al passato; in questo caso la relazione temporale rimane identica a quella instaurata dal passato: (penso che) chiunque abbia pronunciato… = (penso che) chiunque avesse pronunciato…. Quest’uso deriva dalla sovrapposizione sulla proposizione relativa introdotta da chiunque del modello della proposizione ipotetica (chiunque avesse pronunciato = se qualcuno avesse pronunciato); a ben vedere, però, la sovrapposizione è indebita, perché la sostituzione del passato con il trapassato non modifica il senso generale della proposizione relativa. Proprio perché il trapassato in queste condizioni (nella proposizione relativa introdotta da chiunque senza un rapporto di anteriorità rispetto al passato) è di fatto equivalente al passato, se ne può sconsigliare l’uso.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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QUESITO:

“Le città iniziano ad occuparsi da loro delle leggi”.

Mi chiedo se nella frase da loro sia corretto; a me verrebbe spontaneo utilizzare da sé, anche se si tratta di plurale.
Qual è la forma corretta?

 

RISPOSTA:

La forma corretta è da sé: questo pronome, infatti, sostituisce sia lui/lei, sia loro quando si riferisce al soggetto. Nella frase in questione, la sostituzione del pronome con loro è favorita da due fattori:  è associato più facilmente al singolare che al plurale; non è presente un altro possibile referente del pronome. La sostituzione sarebbe, infatti, ben più grave in una frase come “Le città greche iniziano a fare alleanze con città asiatiche; iniziano anche ad approvvigionarsi di merci da loro”, in cui loro sarebbe certamente riferito dal lettore alle città asiatiche, non alle città greche.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se è possibile usare glielo rivolgendosi a un gruppo di persone (solo maschi, solo femmine o a composizione mista): “Non appena lo avrò saputo, glielo riferirò”.

 

RISPOSTA:

Nell’esempio riportato, glielo è corretto e può essere usato per riferirsi a una donna o a un uomo. Ciò è possibile perché quando due pronomi complemento deboli sono usati in coppia il primo cambia forma: così avviene, per esempio, per mi che diventa me (“Mi presti il libro?” > “Me lo presti?”), per ti che diventa te (“Ti presto il libro” > “Te lo presto”) e per gli e le che si trasformano in glie invariabile (“Presto il libro a Fabio/Maria” > “Glielo presto)”.
È bene specificare che in passato l’uso della forma pronominale atona gli in funzione di complemento di termine per loro, a loro non era accettata; adesso, invece, è da ritenersi una forma senz’altro corretta in quasi tutti i livelli della lingua (tranne che nel caso, forse, di registri altamente formali, dove è consigliabile l’uso di loro al posto di gli). Per questo motivo, una frase come “Ho detto a Maria e Fabio che glielo presto” può essere considerata corretta.
Raphael Merida

Parole chiave: Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Perché nella frase “Molti trovano che Steve Jobs sia stato un genio”, un genio è complemento predicativo dell’oggetto? Lo capirei se ci fosse scritto “Molti ritengono Steve Jobs un genio”.
Riesco a fare l’analisi del periodo ma quando provo a fare l’analisi logica non mi ritrovo più:
Molti: sogg.
trovano: p. verbale
Steve Jobs: c. ogg.
che (il quale): sogg.
sia stato: copula
un genio: c. pred. del soggetto
Evidentemente così non va.

 

RISPOSTA:

L’analisi logica si applica alle frasi semplici. Nella frase da lei proposta, invece, ci sono due proposizioni legate da un rapporto di subordinazione. A causa di questo rapporto specifico, di tipo completivo, il soggetto della proposizione subordinata (Steve Jobs) è nello stesso tempo il complemento oggetto “logico” del verbo della proposizione reggente, tanto che lei stesso ha riformulato la frase trasformando la subordinata oggettiva in un complemento oggetto seguito da un complemento predicativo dell’oggetto. La frase, insomma, non può essere analizzata con gli strumenti dell’analisi logica senza incappare in questo dilemma.
Va sottolineato, per chiarezza, che nella frase “Molti trovano che Steve Jobs sia stato un genio” che non è un pronome relativo (come è indicato nella sua analisi, effettivamente impossibile), ma è una congiunzione che introduce la proposizione oggettiva.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

L’aggettivo poco concorda in genere e numero con il sostantivo al quale si riferisce. A tal proposito riprendo parte di un testo di una canzone: “Una è troppo poco, due sono tante”.

Di conseguenza, come devo comportarmi nelle seguenti espressioni?

  • La differenza è poco/poca
  • Due settimane è poco/sono poche

 

RISPOSTA:

Nel testo della canzone troppo poco è una locuzione avverbiale. In questo caso l’avverbio poco si unisce all’avverbio troppo per sottolineare un eccesso di scarsità. Negli altri due esempi poco invece è un aggettivo in funzione predicativa (cioè si collega al nome tramite il verbo), quindi: “La differenza è poca” e “Due settimane sono poche”. Nell’alternativa “Due settimane è poco”, poco è un pronome indefinito in un’espressione ellittica in cui è sottinteso un sostantivo ricavabile dal contesto: “Due settimane è poco (tempo)”.

Raphael Merida

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QUESITO:

Nella frase “… a cui vorresti rivolgerti tu” il tu è pleonastico o si può considerare un rafforzativo?

 

RISPOSTA:

Non è pleonastico: il soggetto pronominale ribadito a destra della frase serve a sottolineare che la volontà di rivolgersi a quel qualcuno è proprio del soggetto, non di altri. Questa sottolineatura può essere utile per esempio se il parlante non condivide tale volontà, oppure se vuole elogiarla, perché altri avrebbero manifestato una volontà più comoda (ovviamente, dipende tutto dal contesto). L’esplicitazione del soggetto pronominale non sarebbe pleonastica neanche se questo fosse collocato prima del verbo: “… a cui tu vorresti rivolgerti”. In questo caso il pronome richiamerebbe al centro della discussione la responsabilità del soggetto nell’esprimere la volontà, senza, però, veicolare sfumature contrastive. Tali sfumature, però, sarebbero veicolate anche con il soggetto preverbale, se la frase fosse pronnciata con un’enfasi intonativa sul pronome.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se entrambe le soluzioni sotto proposte possono essere giudicate valide.

1) Si è dovuto intervenire per placare gli animi.
2) Si è dovuti intervenire per placare gli animi.

A condizione di non essermi confusa durante la consultazione e l’analisi, in letteratura le due costruzioni coesistono.

 

RISPOSTA:

I verbi intransitivi (come intervenire) concordano il participio passato con il soggetto (Luisa è intervenuta). Nella costruzione impersonale, in cui, per definizione, manca il soggetto grammaticale, il participio viene concordato con un soggetto “logico”, che coincide con una prima persona plurale (maschile o femminile secondo le normali regole dell’accordo). La costruzione, pertanto, può essere si è intervenuti o si è intervenute. La presenza del verbo servile dovere complica questa regola, perché questo verbo ha come ausiliare avere, quindi nella forma impersonale mantiene il participio passato invariabile. Si pensi, per esempio, a una conversazione del genere:
-Siete intervenuti?
-Si è dovuto (impossibile *si è dovuti).
Come si può immaginare, le due costruzioni concorrenti entrano in conflitto, creando la doppia possibilità. Per le ragioni spiegate, entrambe le costruzioni sono giustificabili, anche se la seconda è preferibile, perché il verbo servile ha una forte tendenza a prendere la costruzione del verbo retto, che è semanticamente dominante. Questo si vede, per esempio, nella netta preferenza dei parlanti per forme come sono dovuto andare rispetto a ho dovuto andare.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Quale sarebbe la forma corretta?
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Un esempio sono Milano e Roma”
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Ne sono un esempio Milano e Roma”
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Esempi sono Milano e Roma”

 

RISPOSTA:

Le frasi sono tutte corrette. I dubbi legati a questa frase riguardano da una parte la concordanza tra il soggetto e il verbo, dall’altra l’inserimento del pronome anaforico ne. Per quanto riguarda il primo dubbio, la regola richiede che il verbo di una frase concordi con il soggetto, ma nel caso in cui nella frase ci sia un predicato nominale con il nome del predicato rappresentato da un sintagma nominale o da un pronome di una persona diversa dal soggetto, la concordanza del verbo con il soggetto può risultare, per quanto in astratto corretta, innaturale. La soluzione spesso adottata, allora, è concordare il verbo essere con il nome del predicato, come nella prima variante della frase da lei proposta. La stessa cosa succederebbe, per esempio, in una frase come “Il problema siete voi” (non *”Il problema è voi”). Si noti che questa soluzione può essere considerata a tutti gli effetti regolare, visto che il ruolo della parte nominale e quello del soggetto sono intercambiabili (“Un esempio sono Milano e Roma” può essere riformulata come “Milano e Roma sono un esempio”). In alternativa, se la frase lo permette si può far coincidere il numero del soggetto e quello della parte nominale, come nella terza variante della sua frase.
Per quanto riguarda l’inserimento di ne, è una scelta possibile ma non necessaria: il pronome riprende come incapsulatore tutta la frase precedente, trasformando la frase in qualche modo in “Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Del fatto che le città presenti nel grafico sono molto popolate sono un esempio Milano e Roma”. L’accostamento delle due frasi, però, è sufficiente a permettere al lettore di ricavare facilmente il collegamento logico; la coesione, pertanto, è garantita anche senza il pronome.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Mi permetto di dissentire da questa vostra risposta. Quel chiunque sia non può essere inteso come nel caso di qualora o nel caso in cui?: “Qualora qualcuno fosse interessato, mi contatti”.
Oppure come nel caso di un passato: “(…) la denuncia può essere fatta da chiunque sia stato presente ad un fatto punibile o ne abbia avuta cognizione in altro modo, senza essere stato offeso, né danneggiato (…)” (“Codice di procedura penale del Regno d’Italia”, 1871).
O come nel caso di una concessiva: “Chiunque sia stato, non la passerà liscia”.
O come la formulazione di una ipotesi: “Una macchina che sia rotta non potrebbe gareggiare”.

 

RISPOSTA:

Se assimiliamo la costruzione chi fosse a se qualcuno fosse, con riferimento al presente, la costruzione chi sia dovrebbe essere assimilata a se qualcuno sia, che non è prevista in italiano (e si sovrapporrebbe funzionalmente a se qualcuno fosse). Gli esempi che lei fa per contestare questa spiegazione riguardano non chi, ma chiunque: quest’ultimo pronome contiene un tratto di forte indeterminatezza che ne favorisce l’associazione al congiuntivo anche al presente a prescindere dalla sovrapposizione del costrutto ipotetico. Per la verità, chiunque è obbligatoriamente accompagnato dal congiuntivo, proprio in virtù del suo significato indeterminato, particolarmente coerente con la sfumatura non-fattuale attribuita al congiuntivo.
Chi può comportarsi come chiunque, quindi prendere il congiuntivo anche al presente, se nella relativa c’è il tempo passato, che accentua la non-fattualità dell’evento (chi sia stato interessato è del tutto legittima). Questa osservazione risponde alla sua seconda ipotesi: il passato cambia le condizioni d’uso del congiuntivo (e faccio comunque notare che nella citazione del Codice non c’è chi, ma chiunque). Un’altra circostanza che favorisce l’uso del congiuntivo nella relativa è l’indeterminatezza dell’antecedente. Questa non si applica a chi, che non ha un antecedente esplicito, ma a che; la cito qui perché spiega il suo ultimo esempio: “Una macchina che sia rotta…”.
Per quanto riguarda il terzo esempio, infine, non solo questo ripropone l’associazione tra chi sia e chiunque sia stato, doppiamente indebita perché chiunque sia stato è indeterminato e passato, ma viene definito “caso di una concessiva”, mentre nella frase non è presente alcun legame logico di concessione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Vorrei capire se siano corrette queste sequenze di pronomi:
Io o tu (o te) o Tu o io (o me)?
Io e tu (o te) o Tu e io (o me)?

RISPOSTA:

Io o tu e Tu o io sono in astratto le uniche sequenze corrette quando i due pronomi fungono da soggetto. In realtà la variante io o te è ammissibile (sebbene meno formale), e persino preferita dai parlanti, perché la forma del pronome oggetto è sfruttata per segnalare che il secondo soggetto è focalizzato (io o TE). Più discutibile la variante tu o me, per la quale vale la stessa considerazione fatta per io o te, ma che risulta essere meno favorita dai parlanti.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Non ho ben capito se il verbo interessare regge il complemento oggetto o il complemento di termine. Ad esempio nella frase «Mi interessa questo libro», «mi» che complemento è?

Quanto all’uso di anch’io/neanch’io, vanno bene queste frasi?

«Non vado al cinema». «Anch´io non vado» / «Neanch´io».

 

RISPOSTA:

Interessare può essere usato sia transitivamente (cioè col complemento oggetto: interessare qualcuno), sia intransitivamente (cioè col complemento di termine: interessare a qualcuno). Nonostante le sottili differenze semantiche rilevate dai vocabolari (interessare + compl. oggetto ha un valore meno intenso, e può significare sia ‘incuriosire’ sia ‘riguardare’: «l’esenzione interessa soltanto i maggiori di 60 anni»; interessare + compl. di termine significa ‘avere a cuore’: «a Laura interessava molto Raphael»), i due usi sono spesso intercambiabili, anche se la costruzione con il complemento di termine (cioè di interessare come verbo intransitivo) è molto più frequente. Per cui una frase come «Mi interessa questo libro» può valere sia ‘interessa me’, sia, più probabilmente ‘interessa a me’, tanto più se il complemento è espresso dal pronome clitico mi, ti ecc., che ha la medesima forma all’accusativo e al dativo. La costruzione transitiva, a differenza di quella intransitiva, può essere usata anche in riferimento alle cose: «l’interruzione interessa la strada statale 113» (e non *alla strada).

Anche non non è corretto in italiano. Con la negazione anche si trasforma in neanche, neppure o nemmeno: «Neanch’io» / «Neanche io varo al cinema» / «Non vado al cinema neanche io».

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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QUESITO:

“I rigori sono sempre una sfida di nervi tra chi calcia e il portiere, e stavolta ha vinto lui”. Lui chi? Il portiere o chi calcia?

 

RISPOSTA:
La frase non è ben composta, proprio perché non è decidibile quale sia l’antecedente di lui. Può essere corretta in diversi modi, per esempio sostituendo lui con il primo o il secondo (o anche quest’ultimo), a seconda di chi abbia effettivamente vinto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È corretta questa frase?

“Sta’ tranquillo: vedrai anche tu che coloro che anche ultimissimi saranno premiati”.

Il senso è che anche gli ultimi arrivati in una gara porteranno a casa qualcosa.

 

RISPOSTA:

La frase non è corretta dal punto di vista sintattico e necessita di essere riscritta. Suggerirei alcune riscritture semplificate:

  1. “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu che anche gli ultimissimi saranno premiati”;
  2. “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu che saranno premiati anche coloro che saranno arrivati ultimissimi”;
  3. “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu coloro che saranno arrivati anche ultimissimi premiati”;
  4. “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu premiati coloro che saranno arrivati anche ultimissimi”;
  5. “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu premiati anche coloro che saranno arrivati ultimissimi”.

Raphael Merida

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QUESITO:

“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli incondizionati di quando era giovane.”

Vi chiedo se è corretto l’uso dell’aggettivo (in questo caso “incondizionati”) dopo il dimostrativo “quelli”, che, in tale costruzione, se non vado errata assume la funzione di pronome.

Vi chiedo infine se sia possibile, per ottenere particolari effetti retorici, isolare l’aggettivo tra due virgole, creando così un inciso:

“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli, incondizionati, di quando era giovane.”

“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli incondizionati di quando era giovane.”

 

RISPOSTA:

La frase è corretta. Il referente slancio è singolare ma può capitare che un elemento anaforico (in questo caso il pronome quelli) rimandi a un referente con il quale non è grammaticalmente in accordo, senza che questo si configuri come un errore. L’aggettivo incondizionati deve accordarsi, naturalmente, con il pronome cui si riferisce, cioè quelli. Inoltre, l’aggettivo isolato tra due virgole crea una doppia focalizzazione nella sequenza narrativa. Dei due fuochi (“quelli” e “incondizionati”) il più marcato è il secondo grazie all’effetto dell’isolamento e del lavoro inferenziale a cui questo invita il lettore (gli slanci di una volta non erano semplici slanci; erano incondizionati).

Raphael Merida

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QUESITO:

1) “Non riesco a crederci che sia andata così”. È corretto l’uso della particella ci oppure sarebbe più corretto usare solamente l’infinito “Non riesco a credere che …”. Perché?

2) “Se ne hai voglia, leggi questo libro”. È corretto l’uso di ne oppure sarebbe più corretto scrivere/dire “Se hai voglia…”. Qual è la differenza?

3) “In più, consiglio di dare un’occhiata, anche a questi libri”. È ammissibile la virgola dopo consiglio di dare un’occhiata oppure viola le norme della punteggiatura?

4) Dei clienti entrano in un ristorante; dovrebbero dire: “Buongiorno, siamo quattro” oppure “… siamo in quattro?” C’è una differenza?

 

RISPOSTA:

1) Il pronome atono ci in crederci serve ad anticipare il tema: “Non riesco a crederci che sia andata così”. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a destra (o a sinistra) è definita dislocazione e serve a ribadire il tema, per assicurarsi che l’interlocutore l’abbia identificato. Si tratta di un costrutto tipico del parlato o dello scritto informale.

2) Sì, è corretto. Il sostantivo voglia unito al verbo avere (“avere voglia”) richiede l’argomento di ciò di cui si ha voglia, per avere senso; deve essere seguito, quindi, dalla preposizione di (“ho voglia di”). La frase può essere infatti parafrasata come segue: “Se hai voglia di leggere, leggi questo libro”. Il ne sostituisce il complemento di tipo argomentale di leggere.

3) No, non è ammissibile. Non bisogna mai separare con una virgola il predicato dall’oggetto. In questo caso il predicato è formato dalla locuzione dare un’occhiata, facilmente parafrasabile con guardare. Questo tipo di costrutti è definito dai linguisti “a verbo supporto” (per questo argomento la rimando alla risposta Fare piacere, i verbi supporto e i verbi causativi).

4) In questo caso non esiste una regola precisa, ma potrebbe esserci una sottilissima sfumatura semantica tra le due varianti. La presenza della preposizione tra il verbo e il numerale (“siamo in quattro) sembra indicare un gruppo definito di persone, il cui numero non è casuale ma già stabilito; l’assenza della preposizione (“siamo quattro”), invece, dà l’idea di un gruppo il cui numero è variabile e in corso di definizione. La preposizione in è essenziale, infine, con i verbi diversi da essere: “Giocheremo in cinque”, “Abbiamo viaggiato in venti” ecc.  

Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Non mi è del tutto chiaro quando è considerato accettabile sostituire che con il quale/la quale/i quali/le quali.

Da quanto ho capito è frequente e accettata la sostituzione in una relativa esplicativa in cui il pronome è soggetto (es: «Più tardi verrà a trovarci il nuovo vicino, il quale si è trasferito qui da sole due settimane».)

Sono considerate accettabili le forme composte come oggetto nelle relative esplicative (es: Paola e Giovanna, le quali hai conosciuto l’altro giorno alla festa, mi hanno detto che hanno intenzione di trasferirsi a Parigi.)

Inoltre, sono ancora considerate accettabili le forme composte nelle relative restrittive, o è ormai percepita come “strana”, se non errata?

Ad esempio:

Mi piacciono i fumetti che/*i quali propongono avventure.

Mi porteresti la borsa che/*la quale ho dimenticato nel portabagagli?

Stavo alla finestra a osservare le persone che/*le quali passavano.

Stavo alla finestra a osservare le persone che/*le quali passavano.

Cerco un gatto che/il quale* ha il pelo nero e il muso bianco.

È raro incontrare una persona che/*la quale abbia dedicato tutta la vita allo studio.

 

RISPOSTA:

Le sue considerazioni sono tutte giuste. Nelle relative esplicative il quale è usato in modo intercambiabile con che, sebbene ne rappresenti la variante più formale. Nelle relative limitative il quale è ancora usato, sebbene in modo minoritario, quando l’antecedente è un numerale, un pronome indefinito o un sintagma indeterminato come nell’esempio «È raro incontrare una persona la quale abbia dedicato tutta la vita allo studio»; quando invece l’antecedente è un sintagma determinato è impossibile la sostituzione: «Il mio amico *il quale ti ho presentato l’altro anno è morto ieri». Sulle relative esplicative e limitative la rimando alla risposta Relative limitative o esplicative contenuta nell’archivio di DICO.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Potreste indicarmi quale delle due versioni che seguono sia più corretta?

  1. Mi ha chiamato o mi ha chiamata (se donna);
  2. Ci hai inibito o ci hai inibiti?

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti sono corrette. In casi come questi, cioè quando le particelle pronominali ricoprono la funzione di complemento oggetto e si trovano prima del verbo, è possibile scegliere liberamente l’accordo sia per il genere (anche se il pronome indica una persona di sesso femminile), sia per il numero. Questa libertà non vale per i pronomi di terza persona singolare e plurale per i quali l’accordo di genere e numero del participio con l’oggetto è obbligatorio: «Li ho visti» (e non *li ho visto); «l(a) ho mangiata» (e non *l(a) ho mangiato).

Raphael Merida

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QUESITO:

La frase di partenza viene da Moravia:

(1) “Gli avevano fatto credere ad una tresca di Lisa….”.

Volevo confermare che in questa frase non possiamo dire: “Gli ci avevano fatto credere” (ci = ad una tresca) perché gli ci non è permesso nella grammatica italiana, giusto? Ma si sente:

(1a) Gli ci vuole molto tempo (gli = ‘a lui’).

 

Gli ci vuole molto tempo è una forma colloquiale? Potrebbe darmi altri esempi in cui gli ci viene usato?

 

(2) Ammaniti nel libro Ti prendo e ti porto via scrive:

“Mi ci faceva credere”.

Per me, il pronome mi ha valore di “a me”.  Di nuovo, volevo capire se questo uso della lingua è soltanto colloquiale dato che la grammatica non indica la combinazione di un pronome indiretto con ci.

 

RISPOSTA:

Nella frase di Moravia non avrebbe senso inserire ci. Esistono frasi come 1a che sono del tutto legittime e riconosciute dalla grammatica italiana. In questo caso, volerci, che significa ‘essere necessario’, rientra nella categoria dei verbi procomplementari, cioè verbi in cui i pronomi (in questo caso ci) non svolgono una funzione propria ma modificano il significato del verbo aggiungendo una sfumatura di partecipazione emotiva. La presenza di gli ci fa capire, nel suo esempio, che ci si riferisce a una terza persona, ma nulla vieta che ci si riferisca ad altre: “Gli/Ti/Mi ci è voluta una settimana”.

L’esempio tratto da Ammaniti, pur un po’ forzato, è possibile; si tratta, in questo caso, di una struttura colloquiale, presente soprattutto nel parlato, dove ci si riferisce a ciò che è stata detto prima.

Può approfondire questo argomento consultando l’archivio di DICO con la parola chiave procomplementare.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Nella frase “una madre di un ragazzo ogni giorno mette il suo zaino nell’entrata per ricordarglielo”, non ci sono errori o possibili equivoci nel pronome “suo”? Come ci si deve regolare in questi casi per non sbagliare?

 

RISPOSTA:

In questo caso non mi sembra vi siano equivoci, sia per motivi contestuali (perché mai la madre dovrebbe indurre il figlio a prendere il proprio, anziché il suo, zaino, per andare a scuola?), sia per motivi morfologici: infatti, se si volesse specificare l’appartenenza dello zaino al soggetto della frase (cioè, alla madre), si sarebbe potuto utilizzare proprio, per evitare ambiguità. In altri contesti, qualora vi fosse ambiguità, è suggeribile sostituire il possessivo con un sintagma disambiguante: «Luca accompagna Laura a casa di lei»; anche se, pure in questo caso, basterebbe sua, se ci si riferisce alla casa di Laura, propria se ci si riferisce a quella di Luca.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Tante di cose” o “tante di persone”, come dice Lei, sono agrammaticali, ma in caso di ripresa nominale, cioè col “ne” come ripresa pronominale in aggiunta al “di” partitivo (“Ne vede tante di cose/persone”), sarebbero legittime.

Se non si vuole utilizzare il pronome di ripresa “ne” allora bisognerebbe modificare il nome “cose”:

“Ogni giorno vede tante di queste cose/persone”.

Secondo lei, se cambiassimo ”vede tante di cose/persone” in “Vede tante di cose/persone interessanti” cambierebbe qualcosa o si resterebbe nell’agrammaticalità?

 

RISPOSTA:

Secondo me sì, sarebbe agrammaticale; accettabile, forse, soltanto in uno stile molto informale. L’indefinito tanto può reggere il partitivo, ma in contesti in cui sia chiara la ripartizione di un sottogruppo: «tanti dei miei amici non sono laureati», oppure: «vedo qui presenti tante delle persone che ho conosciuto al corso di francese» o simili. Invece, nel suo esempio («vede tante di persone interessanti») non c’è questa ripartizione, perché «tante persone» indica genericamente un numero elevato di persone e non un sottogruppo nell’ambito di un gruppo più ampio o di una totalità.

Fabio Rossi

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Non so se esista una regola precisa per quanto riguarda l’uso dell’apostrofo in casi come quello che segue: “Hai visto le due sorelle?” “Sì, le ho viste ieri”. Si potrebbe anche scrivere con l’apostrofo: “Sì, l’ho viste ieri”? Sono corrette entrambe le forme?

L’elisione degli articoli e dei pronomi è da evitare quando questi sono plurali: l’amica, ma non l’amiche; l’ho visto, ma non l’ho visti. Impossibile è l’elisione di gli, perché in una sequenza come gl’alberi il nesso -gl- sarebbe pronunciato come in glabro.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Sono molto comuni costruzione col “di” partitivo nelle quali manca un soggetto/oggetto perché sottinteso:

  1. a) Ce ne sono (tante) di cose!
  2. b) Ne ha fatte (tante) di cose!

Costruzioni analoghe sono quelle seguite da un modificatore nominale:

  1. c) Direi che (di persone) ce ne sono (tante) che non vanno mai al cinema.
  2. d) Di situazioni simili ne ho vissute (tante) di tutti i colori.
  3. e) Nella vita di cose ne vedrai (tante) di belle e di brutte.

Nella frase “e” il modificatore del sintagma nominale sottinteso (“tante) è preceduto dalla preposizione “di”, ma a differenza della frase “d”, dove il modificatore nominale è un vero e proprio sintagma preposizionale, qui abbiamo un aggettivo che fa modificatore nominale, aggettivo che di norma non è preceduto da nessuna preposizione, tranne in questi specifici casi.

Quello che mi chiedo è:

Se rendessimo esplicito il sintagma nominale “tante”, l’aggettivo richiederebbe lo stesso quel “di” o perlomeno sarebbe facoltativa la scelta di inserirlo o meno?

  1. f) Nella vita di cose ne vedrai tante di belle e di brutte. A me non convince proprio quel “di” in quest’ultima frase , anzi lo casserei proprio, poiché al mio orecchio suona malissimo, ma a rigor di logica forse è corretto?

 

RISPOSTA:

La ragione della presenza del sintagma preposizionale introdotto da di è dovuto al fatto che il clitico ne pronominalizza un sintagma preposizionale introdotto da di. Tant’è vero che senza ne il di cade: «ci sono tante cose/persone», «ha fatto tante cose», «ci sono tante persone che non vanno al cinema» ecc.

In «Di situazioni simili ne ho vissute (tante) di tutti i colori», «di tutti i colori» è un’espressione idiomatica ammissibile soltanto se introdotta da di, tant’è vero che il di rimane anche senza ne: «ho vissuto (tante) situazioni (simili) (che erano) di tutti i colori».

In «Nella vita di cose ne vedrai tante di belle e di brutte», come giustamente dice lei, il secondo (e il terzo) di è di troppo (e dunque da evitare), perché, per via del clitico ne, serve il sintagma preposizionale «di cose», mentre belle e brutte sono aggettivi che, come tali, si collegano al nome (cose) senza preposizione. Esattamente come «vedrai cose belle e brutte». A meno che non siano aggettivi sostantivati (cioè con cose sottinteso): «Nella vita ne vedrai (tante) di belle e di brutte». Meno bene «Nella vita ne vedrai (tante) belle e brutte». Del resto, l’espressione idiomatica è «vederne delle belle», non certo *«vederne belle».

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

  1. a) Forse ci sarebbe chi accetterebbe a occhi chiusi.
  2. b) Forse ci sarebbe chi accettasse a occhi chiusi.

Tra le due mi suona di più la frase “a”, dove peraltro penso si possa ipotizzare una protasi velata/sottintesa:

“Forse ci sarebbe chi (se ne avesse la possibilità) accetterebbe a occhi chiusi”.

Ecco, sempre in merito alla questione del congiuntivo, condizionale e un’eventuale protasi implicita, ho letto delle risposte recenti su “Dico”, formulazioni del tipo “Chiunque volesse/vorrebbe, farebbe…”

La mia personale proposta è:

  1. c) Chi parteciperebbe alla gara, forse si ritroverebbe davanti un avversario troppo forte.
  2. d) Chi partecipasse alla gara, forse si ritroverebbe davanti un avversario troppo forte.

La frase “d” ricalca ovviamente il periodo ipotetico:

“Se qualcuno partecipasse alla gara, forse si ritroverebbe davanti un avversario troppo forte.”

Mentre la frase “c” ha un condizionale che è innescato e condizionato da una protasi che resta implicita:

“Chi parteciperebbe alla gara (se ne avesse la possibilità), forse si ritroverebbe davanti un avversario troppo forte”.

Protasi, quest’ultima, che forse “potrebbe” (uso il condizionale) anche essere espressa per confermare la correttezza (?) del costrutto:

“Chi parteciperebbe alla gara se ne avesse la possibilità, forse si ritroverebbe davanti un avversario troppo forte”.

Che ne pensa? Sono intuizioni corrette, le mie?

 

RISPOSTA:

Sì, le sue sono intuizioni sostanzialmente corrette. Con alcune precisazioni. Il fatto che le “suoni” meglio «Forse ci sarebbe chi accetterebbe a occhi chiusi» si spiega con la struttura della frase, cioè una frase scissa con c’è presentativo, che dunque è un po’ come una frase semplice anziché complessa, equivalente a «Forse qualcuno accetterebbe a occhi chiusi». La modalità epistemica della frase autorizza pienamente il condizionale (ma anche il congiuntivo) senza alcun bisogno di sottintendere una protasi. Il concetto di sottinteso, infatti, andrebbe invocato il meno possibile, per evitare di sostituire le nostre personali e opinabili intuizioni all’effettiva natura della frase. Motivo per cui «Chi parteciperebbe alla gara…» è decisamente da respingere, a meno che, come dice lei, la protasi non sia presente. Ma, ne converrà, la frase con protasi “suona” come del tutto innaturale, nella sua farraginosità: «Chi parteciperebbe alla gara se ne avesse la possibilità, forse si ritroverebbe davanti un avversario troppo forte». Eviterei dunque questi tentativi scolastici e alessandrini di far tornare a tutti i costi i conti di frasi che nessuno pronuncerebbe mai, in contesti naturali. Meglio, dunque, il piano e naturale «Chi partecipasse alla gara» ecc.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“È arrivato il momento che il proprietario venga a ritirare la macchina”. La frase è corretta o si dovrebbe scrivere con in cui?
“È arrivato il momento in cui il proprietario venga a ritirare la macchina”.
Perché mi suona meglio la prima?

 

RISPOSTA:

Subordinate come quella da lei presentata si collocano a metà strada tra le relative, le temporali e le soggettive. Se la consideriamo una relativa dobbiamo costuirla con in cui, perché un evento succede in un momento; se la consideriamo temporale la costruiremo con quando; se la consideriamo soggettiva useremo la congiunzione che (in questo caso è il momento che viene assimilato a è il caso che o simili). I parlanti sfavoriscono decisamente l’opzione temporale e oscillano tra la relativa e la soggettiva, per via della somiglianza tra le due costruzioni (non a caso il che usato in casi come questi rientra nella casistica del cosiddetto che polivalente), preferendo, di solito, la seconda. Quest’ultima è da considerarsi del tutto regolare e utilizzabile in ogni contesto. A conferma della vicinanza di questa subordinata alle soggettive, se il soggetto della subordinata è impersonale essa si costruisce con di + infinito, proprio come le soggettive: “È arrivato il momento di andare”. Va detto, però, che la costruzione relativa diviene preferibile se il momento non è all’interno di un costrutto presentativo, per esempio “Nel momento stesso in cui l’ho visto ho provato una forte emozione”. In questo caso la costruzione con che è percepita come più trascurata.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In realtà non penso di aver trovato una risposta. Qualcuno (per es. nella voce «relative, congiunzioni», di Giuliana Fiorentino, nell’Enciclopedia dell’italiano Treccani) considera questi casi (Mi sembra ieri che/quando eri ancora piccolo tra le mie braccia e guardati adesso invece;

Mi sembra di essere ritornato piccolo che/quando la vita era più spensierata; Chiami proprio adesso che/quando sono così impegnato; L’informazione è arrivata proprio ieri che/quando è successo il casino) come introdotti da una congiunzione relativa. Ho semplicemente detto che sui dizionari si parla di congiunzione relativa assimilabile a “in cui” (“quell’estate quando lo incontrai”) o di congiunzione relativa doppia (“lo conobbi quando ero a Roma”). Tuttavia, nelle quattro frasi riportate (soprattutto la seconda), non mi sembra che la funzione di “quando” sia né quella di una congiunzione relativa né quella una congiunzione relativa doppia, visto che Lei stesso mi ha fatto notare che né “in cui” né “nel momento in cui” possono sostituire quel “quando” nelle frasi. Infatti, da lì è nato il mio dubbio, visto che ho chiesto quale valore avesse quel “quando” (vista la connessione che aveva con l’antecedente a mo’ di pronome relativo) e come lo si potesse eventualmente parafrasare.

 

RISPOSTA:

In effetti la classificazione di questi casi è problematica, né le grammatiche né i dizionari aiutano molto, dato che taluni classificano alcune subordinate introdotte da quando soltanto come temporali (escludendo dunque la possibilità di un quando congiunzione relativa), mentre altri pongono il caso. Ancora una volta, come ribadito più volte nelle nostre risposte di DICO, non esiste una risposta giusta e una sbagliata, ma è solo questione di diversi punti di vista da cui guardare al fenomeno. Chi classifica tutti i casi come temporali (Serianni), chi, invece, fa definizioni più sottili (come la voce «relative, congiunzioni», di Giuliana Fiorentino, nell’Enciclopedia dell’italiano Treccani. Certamente, però, il discrimine non può essere quello della parafrasi, perché, da questo punto di vista, anche una congiunzione temporale può essere parafrasata con ‘nel periodo/momento in cui’ o simili: «andrò al mare quando avrò finito gli esami». Allora forse sarebbe più prudente (ma, ripeto, è soltanto una delle tante soluzioni possibili) considerare quando come congiunzione relativa (o pronome relativo) soltanto nei casi di un antecedente chiaro: “quell’estate quando lo incontrai”. Per tutti gli altri casi, invece, ivi compresi quelli da lei segnalati in “Che temporale” (risposta di DICO), ritengo ancora più prudente la classificazione come temporale, senza dare rilievo alla parafrasi, che porta fuori strada per i motivi già detti. Infatti, in buona sostanza, in tutti e 4 i casi da lei segnalati la parafrasi possibile è uguale sia nel valore temporale, sia nel valore relativo. Ma allora che senso ha aggiungere quest’altra categoria? Entia multiplicanda non sunt praeter necessitatem. A meno che non si guardi alla struttura profonda della frase, sceverando di volta in volta se il valore sia più vicino all’amplificazione di un sintagma nominale (relativo), oppure a un valore avverbiale, cioè extranucleare (temporale). Per riprendere i suoi esempi:

  1. «Mi sembra ieri che/quando eri ancora piccolo tra le mie braccia e guardati adesso invece». Parafrasi: nel periodo/all’epoca in cui
  2. «Mi sembra di essere ritornato piccolo che/quando la vita era più spensierata». Parafrasi: nel periodo in cui.
  3. «Chiami proprio adesso che/quando sono così impegnato». Parafrasi: in un momento in cui.
  4. «L’informazione è arrivata proprio ieri che/quando è successo il casino». Parafrasi: nel momento in cui.

 

Come vede, in nessun caso c’è un antecedente (specifico) espresso, ma andrebbe ricostruito come se fosse inglobato nella congiunzione (o pronome) quando. Cosa che ho fatto nella parafrasi, che però, attenzione, è solo a scopo esplicativo. Se le frasi fossero davvero prodotte con la parafrasi da me proposta, sarebbero delle pessime frasi, cioè del tutto innaturali. In conclusione, come ripeto, ma che senso avrebbe addurre la parafrasi a riprova del valore relativo se quella stessa parafrasi spiegherebbe anche il valore temporale propriamente detto? «Rispondi quando ti chiamo», parafrasi: nel momento in cui.

Ovviamente, in altre frasi, quando può avere anche valori (interrogativo, ipotetico, avversativo), ma questa è un’altra storia.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

  1. Mi sembra ieri che/quando eri ancora piccolo tra le mie braccia e guardati adesso invece.
  2. Mi sembra di essere ritornato piccolo che/quando la vita era più spensierata.
  3. Chiami proprio adesso che/quando sono così impegnato.
  4. L’informazione è arrivata proprio ieri che/quando è successo il casino.

Il “che” in queste frasi che valore ha, di pronome relativo assimilabile a “in cui”?

“Quando” invece potrebbe essere una congiunzione relativa col valore di “in cui” oppure invece potrebbe essere una congiunzione relativa doppia, paragonabile a “il periodo in cui/nel periodo in cui”?

Fermo restando che tutti le alternative proposte in sostituzione di “che” o “quando” non mi suonerebbero nelle quattro frasi elencate.

 

RISPOSTA:

Il che in questione è un tipico «che temporale», vale a dire di valore intermedio tra il pronome relativo e la congiunzione, in alcuni casi; in altri con valore decisamente di congiunzione temporale. Quando è una congiunzione temporale e non un pronome relativo doppio, anche se la distinzione è di carattere più convenzionale-nomenclatorio che sostanziale: per esempio, è chiaro il parallelismo con dove pronome relativo doppio (‘nel luogo in cui’: «va’ dove di pare»); però, per convenzione, esistono le subordinate temporali, e non le “locali”, che vengono invece categorizzate come relative. In nessuna delle frasi proposte sarebbe possibile la sostituzione con “in cui”. Anche la sostituzione con “il periodo in cui” sarebbe del tutto innaturale.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

1) Lo fai pentire delle sue azioni.

2) Lo fai pentirsi delle sue azioni

3) Lo lasci pentire delle sue azioni.

4) Lo lasci pentirsi delle sue azioni.

Per quanto mi riguarda, penso che con “fare” sia sbagliata l’inserzione del pronome riflessivo “si”, nonostante il verbo sia intransitivo pronominale e lo richiede.

Per quanto riguarda il verbo “lasciare” credo che si possa utilizzare il riflessivo, o almeno l’ho sempre fatto, ma non so se sia necessario al 100%.

Quindi significa che per me sono corrette la prima e la quarta, la terza potrebbe forse essere corretta, infine c’è la seconda che è errata.

Non ho i mezzi per stabilirlo, quindi chiedo a lei.

Magari saprebbe dirmi se ci sono delle regole e ragioni grammaticali ben precise in merito, con cui si può stabilire la correttezza o la non correttezza delle quattro frasi?

 

RISPOSTA:

Come si legge nella Grande grammatica italiana di consultazione, di Renzi, Salvi, Cardinaletti, il Mulino, 1991, vol. 2, p. 509, «I verbi riflessivi appaiono nella costruzione fattitiva senza il clitico riflessivo», pertanto le sole frasi corrette sono la 1 e la 3. In altri termini, quanto il verbo fattitivo o causativo (fare, lasciare) determina lo spostamento del soggetto della subordinata infinitiva, ingloba in sé anche il clitico riflessivo, che invece deve essere espresso se lo spostamento del soggetto (e l’infinitiva) manca, cioè: «Fai (o lasci) che si penta delle sue azioni». Lo stesso vale per soggetto/oggetto espresso in forma piena: «Fai/lasci pentire (e non pentirsi) Marco delle sue azioni», ma «fai/lasci che Marco si penta (e non penta) delle sue azioni.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

Vi chiedo un consulto su questo esercizio: “Distingui gli aggettivi pronominali e i pronomi precisandone la funzione sintattica”.

“Te lo ricordo per l’ennesima volta, qui non c’è niente di utile al tuo obiettivo”.

Te = pron. personale tonico, compl. termine
Lo = pron. personale atono, compl. ogg.
C’è = questo non capisco cosa sia…
Niente = pron. indefinito, sogg.
Tuo = agg. possessivo, compl. fine.

L’analisi va bene, tranne che per due punti. 1. Il pronome te è atono, non tonico: non bisogna confondere te tonico (come nella frase “Dico a te”) da te atono, variante formale di ti, come in questa frase, o come in “Dovevi proprio portartelo?”. 2. Tuo è attributo, non complemento di fine (il complemento è al tuo obiettivo).
Per quanto riguarda c’è, si tratta di un’espressione formata da ci + è. Ci può essere un pronome personale atono di prima persona plurale (in frasi come “Ci fai un favore?”) e un pronome dimostrativo (in frasi come “Non ci pensare”); nell’espressione formata con il verbo essere, invece, equivale a oppure qui (a seconda dei contesti), quindi è considerato generalmente un avverbio di luogo (anche se ci sarebbero ragioni per considerarlo un pronome). Dal punto di vista sintattico può essere analizzato come complemento di stato in luogo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

1) Ti darò qualunque/qualsiasi cosa tu voglia o che tu voglia?

2) Si fa suggestionare da qualsiasi/qualunque rumore potrebbe sentire o che potrebbe sentire durante la notte?

3) Chiamami, di qualunque/qualsiasi cosa tu abbia bisogno o di cui tu abbia bisogno?

4) Ci sarà sempre da ridire, in qualunque/qualsiasi modo tu lo faccia o in cui tu lo faccia?

5) Mi troverai in qualsiasi/qualunque luogo si mangi bene o in cui si mangia?

Vanno bene sempre bene entrambe le soluzioni?

La mia impressione è che quando la preposizione che si usa nella frase principale è la stessa della relativa, allora il pronome relativo + preposizione si può anche omettere.

Diverso, penso, sia il caso in cui non ci sia questo combaciamento, dove bisogna inserirlo:

6a) Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene

6b)Parliamo di qualsiasi/qualunque si mangi bene*

A pensarci  bene, neanche nella frase 2 c’è una corrispondenza tra preposizioni, ma è anche vero che la relativa non ne ha nessuna.

È solo una mia impressione, sbagliata o giusta che sia, o c’è una spiegazione grammaticale dietro?

 

RISPOSTA:

La sua domanda contiene già la risposta (quasi del tutto) corretta e denota un’eccellente capacità di ragionamento induttivo sulla lingua: cioè, lei ha ricavato la regola sulla base di un’analisi attenta degli esempi. I pronomi relativi doppi (chi, chiunque: alcuni funzionano sia come indefiniti sia come relativi), cioè quelli che sottintendono, o per meglio dire inglobano, l’antecedente (chi/chiunque = la persona/qualunque persona la quale; con gli aggettivi qualunque e qualsiasi l’antecedente va invece espresso: cosa, persona ecc.) e alcuni aggettivi relativi indefiniti (qualunque, qualsiasi) possono omettere la preposizione nella proposizione relativa soltanto a condizione che l’elemento pronominalizzato della relativa sia un complemento diretto oppure un soggetto, con qualche eccezione se le due preposizioni, quella della reggente e quella della relativa, sono uguali. Se dunque il complemento pronominalizzato nella subordinata relativa richiede una preposizione, essa di norma non può essere omessa. Se il pronome è doppio, nel caso di reggenza preposizionale esso va sciolto in due elementi (cioè antecedente + pronome):

– «vai con chiunque ami» ma «vai con qualunque persona alla quale/a cui vuoi bene» e non «vai con chiunque vuoi bene». È possibile l’omissione della preposizione se è uguale alla preposizione della reggente: «vai con chi vuoi stare» = «vai con la persona con quale vuoi stare» (la prima frase è più informale).

Commentiamo di seguito uno a uno tutti i suoi esempi:

1) «Ti darò qualunque/qualsiasi cosa tu voglia» o «che tu voglia»? Il che è pleonastico, e dunque da eliminare, perché qualunque ha già valore di aggettivo relativo/indefinito e dunque non richiede un ulteriore pronome relativo: «qualunque cosa tu voglia».

2) «Si fa suggestionare da qualsiasi/qualunque rumore potrebbe sentire» o «che potrebbe sentire durante la notte»? Come sopra: il che va eliminato.

3) «Chiamami, di qualunque/qualsiasi cosa tu abbia bisogno» o «di cui tu abbia bisogno»? In teoria bisognerebbe dire e scrivere «di cui tu abbia bisogno», perché «avere bisogno di qualcosa» richiede la preposizione di; tuttavia nell’italiano comune è altrettanto corretta l’omissione del secondo di, attratto dal primo.

4) «Ci sarà sempre da ridire, in qualunque/qualsiasi modo tu lo faccia» o «in cui tu lo faccia»? Come sopra: vanno bene entrambi, e anzi il secondo (ancorché più corretto grammaticalmente) è decisamente innaturale.

5) «Mi troverai in qualsiasi/qualunque luogo si mangi bene» o «in cui si mangia»? La preposizione in è necessaria: «in qualunque luogo in cui si mangi», anche se nell’italiano comunque è possibile anche l’omissione del secondo in, attratto, per così dire, dal primo.

6a) «Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene»: giusto, ci vogliono entrambe le preposizioni.

6b) «Parliamo di qualsiasi/qualunque si mangi bene»: è errata; la versione corretta è: «Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Nella frase “Ne ha preparate tre, poi gliele ha spedite per congratularsi del suo successo” quali sono le funzioni sintattiche dei pronomi? Ecco la mia proposta:
Ne = pronome personale atono, compl. specificazione o partitivo
Tre = pronome numerale, complemento di quantità? O forse più genericamente compl. specif.
Gliele = pronome personale. Gli: compl. termine. Le: compl. ogg.
Si (congratularsi) = pron. personale, intransitivo pronominale.
Suo = agg. possessivo, compl. specif.

 

RISPOSTA:

Le sue analisi sono sostanzialmente corrette, tranne i seguenti punti:
Tre = complemento oggetto. Il si contenuto nel verbo congratularsi, che è intransitivo pronominale, non ha una funzione sintattica precisa, ma contribuisce alla costituzione del significato del verbo (forse lei intendeva proprio questo nella sua analisi, ma non è chiaro). Suo è l’unica parola tra quelle analizzate che non è un pronome, ma un aggettivo; dal punto di vista sintattico gli aggettivi non svolgono la funzione di complementi ma sono analizzati come attributi.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Tre esempi da <> Elisa Morante

(1) (p234 ): Fin dalla mattina presto, io li udivo dalla mia stanza CHE subito appena svegli incominciavano a mischiarsi fra loro due in giochi e risate……

Il che mi pare una congiunzione.   Quale tipo di proposizione èa la subordinata? Una dichiarativa?

Possiamo trasformare la frase cosi:

Fin dalla mattina presto, io li udivo dalla mia stanza INCOMINCIARE subito appena svegli a mischiarsi far loro due in giochi e risate…

(2) p227   e mentr’esse, in coro, gli magnificavano quel nuovo figlio, lui gli accordò solo un’attenzione opaca distratta, con l’aria di un ragazzo forastico, e cresciuto fuori della famiglia, A CUI LE SORELLE MINORI MOSTRASSERO la propria bambola.

La subordinata dopo a cui è una proposizione relativa impropria consecutiva?   Possiamo scriverla cosi:

in modo tale che le sorelle minori mostrassero la propria bambola?

L’indicativo e’ anche accettabile?

(3) p. 264  Intanto SI SAPPIA …che il fatale bacio, nella mia memoria capricciosa, s’era fatto più ingenuo del vero (come una musica di cui SI RAMMENTI solo il semplice tema).

Si sappia viene considerata l’imperativo o l’esortativo?

Possiamo anche usare Si RAMMENTA senza cambiare il significato della subordinata?  (non mi sembra ne’ una proposizione finale ne’ consecutiva).

 

RISPOSTA:

1) Il primo caso è una relativa dipendente da verbi di percezione, che può essere trasformata in una completiva. Pertanto: in «li udivo che incominciavano» il che è relativo, ma se trasformiamo la frase in una completiva (con il medesimo significato) il che diventa completivo: «udivo che loro incominciavano». È, come dice lei, possibile anche la trasformazione in relativa/completiva implicita: «li udivo incominciare».

2) Sì, può sostituire l’indicativo al congiuntivo senza alcun cambiamento di significato. Il congiuntivo si spiega non tanto per la sfumatura consecutiva (pure possibile) quanto per la sfumatura comparativo-ipotetica di tutta la frase: aveva l’aria come uno che…, come se…

3) «Si sappia» è congiuntivo esortativo impersonale. Anche in «ri rammenti/a» la sostituzione dell’indicativo al congiuntivo non cambia in nulla il significato della frase. Non occorre ipotizzare, ancora una volta, una sfumatura consecutiva (pure possibile, mentre è del tutto sbagliata la sfumatura finale), perché, ancora una volta, il congiuntivo si giustifica con la sfumatura eventuale.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“In Norvegia non ci sono mai stato”. Quel “ci” può essere accettato anche in un linguaggio formale, pur essendo un pleonasmo, oppure è preferibile dire: “In Norvegia non sono mai stato”?

 

RISPOSTA:

Sicuramente il pleonasmo è evitabile nel registro formale, a condizione, però, di modificare l’ordine dei costituenti: «Non sono mai stato in Norvegia». Infatti la tematizzazione (o topicalizzazione), cioè la collocazione del tema in prima posizione, richiede la ripresa clitica (dislocazione a sinistra): «In Norvegia non ci sono mai stato». Se eliminasse il «ci» l’enunciato verrebbe interpretato come focalizzazione, anziché come tematizzazione, ovvero: «In Norvegia non sono mia stato [mentre in Svezia sì]».

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

1a)Il segreto per il successo, te lo potranno svelare quanti sono arrivati al successo.

2a)Tendo ad apprezzare quanti hanno il coraggio di rischiare la vita.

1b)Questo lo sanno quanti ne sono arrivati l’anno scorso.

2b)Prendo quanti ne restano sul vassoio.

1c)Questo tragico evento te lo potranno raccontare (in?) quanti sono sopravvissuti alla strage.

2c)Ho salutato (in?) quanti hanno partecipato alla riunione.

1d)Questo tragico evento te lo potranno raccontare (in?) quanti ne sono arrivati l’anno scorso.

2d)Ho salutato (in?) quanti ne sono arrivati oggi.

È giusto usare quanti / in quanti come soggetto nelle varianti 1 e come complemento oggetto nelle varianti 2?

In linea di massima, le frasi sono ben costruite?

Sui vari dizionari quanti viene classificato anche come pronome, quindi pensavo che potesse avere la funzione di soggetto o di oggetto in base al contesto.

 

RISPOSTA:

 

Alcuni pronomi indefiniti (molti, pochi, tanti) e il pronome quanti sia come relativo sia come interrogativo possono essere costruiti con la preposizione in quando hanno la funzione di soggetto e si riferiscono a un gruppo di persone. In particolare, il pronome quanti ammette la costruzione con in quando è soggetto o della reggente, o della subordinata o di entrambe le proposizioni. In tutte le frasi proposte è possibile sostituire quanti con in quanti tranne che nella 2b, in cui quanti non si riferisce a un gruppo di persone ma agli oggetti rimasti sul vassoio.

Raphael Merida

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ormai siamo (quasi) tutti d’accordo che QUAL, avendo forma autonoma, non necessiti di apostrofo. Si dirà quindi: “Qual è la tua opinione, qual era la tua opinione” etc. Ma davanti a un sostantivo si usa QUAL o QUALE? Esempio: si può scrivere “Quale insalata preferisci?” oppure, avendo forma autonoma, si deve scrivere “Qual insalata preferisci?” Ancora: Lei scriverebbe “Quale evento della tua vita…” oppure “Qual evento della tua vita…”.

 

RISPOSTA:

La forma apocopata qual non ha restrizioni: in astratto è utilizzabile sempre. È, però, di fatto rarissima; si usa quasi esclusivamente davanti alle forme verbali è e era e nell’espressione qual buon vento. Per il resto si usa sempre quale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella frase “Tutto bene, davvero non vi preoccupate per me”, tutto è pronome, aggettivo o nessuno dei due? Inoltre, ha la funzione sintattica di soggetto?

 

RISPOSTA:

Nella frase tutto equivale a ‘tutte le cose, ogni cosa’, quindi è un pronome. La frase “Tutto bene” è analizzabile come frase nominale, cioè priva di verbo. In una frase senza verbo l’identificazione del soggetto è complicata, visto che quest’ultimo si definisce come il costituente sintattico con cui il verbo concorda. D’altro canto, è facile riconoscere la costruzione verbale soggiacente quella non verbale: “Va tutto bene”; in questa frase tutto ha proprio la funzione di soggetto.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

 

Si dice: “questi discorsi non c’entrano nulla” oppure “questi discorsi non centrano nulla”?

 

RISPOSTA:

 

La forma corretta è c’entrano. Entrarci è un verbo procomplementare che, come ci ricorda il Grande Dizionario Italiano dell’Uso (GRADIT), può essere usato con valore intensivo nel significato di ‘trovare posto, avere spazio sufficiente per stare in qualcosa’ («In questa stanza c’entrano mille persone») o con il significato figurato di ‘avere attinenza con qualcosa’, come nel caso da lei presentato. In una frase come «questi discorsi non centrano l’argomento» il verbo in questione è, invece, centrare nel significato figurato di ‘cogliere con precisione il punto centrale di un tema’.

Per approfondire la morfologia del verbo entrarci la invito a leggere la risposta La posizione del pronome.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il quesito a cui volevo sottoporre la sua attenzione è quello di frasi che apparentemente sembrano delle relative, o che forse lo sono in parte.

Questo tipo di frasi contiene spesso un che, che potrebbe forse trattarsi di un che polivalente.

Proporrei qualche frase che secondo me possono rientrare in questa definizione:

  1. Sono arrivato qui che ero piccolo.
  2. Ho iniziato che ero ricchissimo.
  3. Ho finito che sono diventato povero.
  4. L’ho conosciuto che non era ancora così famoso.
  5. L’ho trovato che dormiva beato.
  6. Sono qui che aspetto.

Le frasi in questione, per quanto contengano il pronome relativo che, mi sembrano abbiano tutt’altra funzione.

Per esempio, da 1 a 5 direi che quel che sia molto vicino ad un complemento di tempo.

Nella sesta il che mi sembra abbia valore finale: «Che aspetto» = per aspettare/ad aspettare.

 

RISPOSTA:

Sì, ha ragione, sono relative improprie, ovvero il che in esse usato può rientrare nell’ampia tipologia del che polivalente. Proviamo a spiegarne alla svelta l’uso caso per caso.

  1. Sono arrivato qui che ero piccolo: valore temporale, ma in uno stile meno informale può essere risolto anche con un complemento predicativo del soggetto: sono arrivato qui da piccolo.
  2. Ho iniziato che ero ricchissimo. Come sopra.
  3. Ho finito che sono diventato povero. Qui l’equivalente meno informale sarebbe più o meno un verbo aspettuale o fraseologico: ho finito per (o col) diventare povero.
  4. L’ho conosciuto che non era ancora così famoso. Questa e la frase successiva rientrano nella tipologia delle relative con verbi di percezione (o simili): l’ho visto che dormiva / l’ho visto dormire.
  5. L’ho trovato che dormiva beato. Come sopra.
  6. Sono qui che aspetto. Valore finale: sono qui ad aspettarti, ma anche: ti sto aspettando qui.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei proporvi questa frase: «Gli studiosi si sono chiesti come sarebbe andata a finire». In questo caso «chiesti» mi pare decisamente corretto. Se dico però: «Gli studiosi se lo sono chiesti», quel «chiesti» è altrettanto corretto o è necessario dire «chiesto»? Oppure entrambe le soluzioni sono accettabili?

 

RISPOSTA:

Entrambe le soluzioni sono corrette e con frequenze analoghe, in italiano. Infatti, se ricerchiamo le frequenze odierne in Google, troviamo 55.200 risultati per «se lo sono chiesti», contro 58.400 per «se lo sono chiesto». Quindi con una lieve prevalenza per l’accordo con l’oggetto. Come si può facilmente verificare sia nella Grammatica di Serianni (per es. la Garzantina), sia nella Grande grammatica italiana di consultazione di L. Renzi, G. Salvi e A. Cardinaletti (il Mulino), cioè le due più accreditate grammatiche dell’italiano, opposte nella concezione tanto da essere complementari, l’accordo del participio passato presenta una tipologia variegatissima in italiano, secondo mille variabili: a volte si tratta di cambiamento nel tempo, altre volte di usi regionali, altre volte di registro, altre volte ancora dipende dal tipo di verbo e finanche dal suo significato; molto spesso, infine, l’accordo è del tutto libero, cioè sono ammesse entrambe le forme (cioè con accordo o col soggetto, o con l’oggetto, o, addirittura, senza accordo, cioè al maschile indistinto non marcato). Data la ricchezza di usi e possibilità è impossibile ripercorrerne qui le coordinate dei vari costrutti. Pensi però a usi (tutti possibili) come i seguenti:

– me ne sono bevuta/o una (di birra) – ma: ho bevuto una birra

– se lo sono visti/o davanti (l’orso) – ma: hanno visto l’orso

– ne hanno prese/o/i due (di scatole) – hanno preso due scatole

– ne ho comprati/o/e due chili (di mele) – ma: ho comprato due chili di mele

– Paola non se ne è mangiati/a per niente (di biscotti) – ma: Paola non ha mangiato i biscotti.

Come linea di tendenza molto generale, l’accordo col soggetto e la forma senza accordo sono più rari, nei verbi pronominali con oggetto, laddove la forma preferita è quella dell’accordo con l’oggetto. Ma, come ha visto, le eccezioni sono numerose.

La lingua italiana, e qualunque altra lingua del mondo, è fatta di un’estesa «zona grigia», come la chiamava Serianni, cioè di usi plurimi tutti ammessi dalla norma. Il grigio (con tutte le sue sfumature), dunque, più del bianco o del nero, è il colore che si addice alla grammatica.

Fabio Rossi

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QUESITO:

«Me l’hai preso tu il libro che stavo leggendo?». La frase sopra riportata è corretta? La parola libro è una ripetizione?

 

RISPOSTA:

Sì, la frase è corretta, benché sia appropriata a un contesto informale e soprattutto parlato, meno appropriata (con qualche eccezione) nella lingua scritta e formale. Il costrutto si chiama dislocazione a destra (oppure a sinistra, se è rovesciato: «il libro me l’hai preso tu») e prevede la ripetizione, come dice lei, dell’oggetto, che, nel caso della sua frase, compare sia in forma piena (il libro), sia nella forma pronominale (l’). I motivi che inducono a scegliere un costrutto siffatto sono di solito legati all’esigenza di dare maggiore o minore rilievo a determinate informazioni della frase. Nel caso specifico, per esempio, si mette in rilievo l’azione e chi la compie (hai preso e tu) e si dà quasi per scontato il libro, come se fosse (come in effetti è) già ben presente nell’orizzonte comunicativo degli interlocutori; il libro, comunque, acquista esso stesso un suo particolare rilievo, perché diventa il tema su cui verte l’intero atto comunicativo. Delle dislocazioni abbiamo più volte discusso, nella banca dati di DICO. Può vedere, per esempio, la domanda/risposta “Dimmelo tu cosa sono le dislocazioni”.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedervi una consulenza sintattica sulla frase “questo quadro è stato comprato da qualcuno che se ne intende”. In particolare, mi interessava capire il valore sintattico della particella se. Ne è complemento di specificazione (o forse di argomento), m non riesco a comprendere la funzione di se.

 

RISPOSTA:

Se ne intende equivale a intendersene ‘essere competente in qualcosa’, che rientra nella categoria dei verbi procomplementari, cioè verbi in cui i pronomi (in questo caso si, nella forma se, e ne) non svolgono una funzione propria ma modificano il significato del verbo. L’appendice pronominale –sene, quindi, non ha un significato autonomo ma arricchisce il verbo base attraverso una sfumatura emotiva; nel caso da lei proposto, intendersene (o il corrispettivo intendersi), a differenza del transitivo intendere, richiede un complemento di specificazione: “se ne intende di arte” / “si intende di arte”.
Può approfondire questo argomento consultando l’archivio di DICO con la parola chiave procomplementar*.

Raphael Merida

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho udito in TV il seguente passaggio giornalistico:
1a) Una malattia da cui si è scoperto che xxx è affetto da tempo.
La frase, francamente, mi lascia molto perplessa. Forse sbaglio nella ricostruzione sintattica; ma, tradotta, la frase a mio avviso suonerebbe più o meno così: “Dalla malattia [da cui xxx è affetto] si è scoperto che…”, e non è certamente questo il significato che il giornalista voleva trasmettere ai telespettatori. Mi sono così applicata per provare a elaborare delle alternative, che vorrei sottoporvi, partendo da quello che dovrebbe essere il messaggio di base della frase.
1b) Una malattia da cui – si è scoperto – xxx è affetto da tempo.
Ho introdotto un inciso per non eliminare il si impersonale.
1c) Una malattia da cui xxx ha scoperto di essere affetto.
(Ho eliminato il si impersonale.)
Che cosa ne pensate?

 

RISPOSTA:

Ha ragione a considerare la frase mal costruita: il pronome da cui difficilmente può essere collegato a essere affetto, visto che il primo si trova nella proposizione relativa da cui si è scoperto, il secondo nella soggettiva esplicita che xxx è affetto da tempo, retta dalla relativa. Il pronome viene, invece, naturalmente collegato a scoprire, venendo a costituire un significato chiaramente impossibile per la frase, perché essere affetto rimane senza un argomento, quindi incompleto. La sua ricostruzione 1b è efficace, perché restaura il significato inteso mantenendo quasi la stessa forma della frase; la 1c, invece, pur essendo formalmente corretta, tradisce il significato inteso, perché attribuisce indebitamente la scoperta alla persona affetta dalla malattia. Si noti che la frase 1c riutilizza quasi la stessa struttura della 1a, con, però, la differenza determinante che la soggettiva esplicita è stata trasformata in una oggettiva implicita. Se l’oggettiva fosse esplicita la frase tornerebbe a essere mal costruita (per esempio “Una malattia da cui Luca ha scoperto che Andrea è affetto da tempo”, oppure “Una malattia da cui ho scoperto che sono affetto da tempo”), perché il che che introduce l’oggettiva (e la soggettiva nella frase 1a) interferisce con da cui.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome
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QUESITO:

Le proposizioni relative nelle frasi di seguito sono limitative o esplicative? La virgola serve oppure no? In certi casi potrebbe essere utile un “rinforzo” pronominale per il che?
1a) Queste sono le sue parole(,) su cui vorrei soffermarmi.
1b) Queste sono le sue parole, quelle su cui vorrei soffermarmi.
2a) Ho dovuto accettare le sue ragioni(,) che non condivido.
2b) Ho dovuto accettare le sue ragioni, quelle che non condivido.
3a) Ero attratta dal suo ragionamento(,) che mi trasportava nei luoghi in cui amavo perdermi.
3b) Ero attratta dal suo ragionamento, quello che mi trasportava nei luoghi in cui amavo perdermi.

 

RISPOSTA:

Tutte le frasi proposte sono possibili; in esse le relative sono costruite prima come limitative (che non richiedono la virgola), poi come esplicative, e questo cambiamento influisce sul significato della frase. Nella prima coppia, per esempio, la variante a indica che il soggetto vuole soffermarsi su alcune parole proferite da qualcuno; la variante b prima presenta le parole, poi indica che il soggetto vuole soffermarsi sulle parole presentate. L’inserimento del pronome dimostrativo nelle relative esplicative, possibile ma non necessario, ha l’effetto di separare ancora più nettamente le subordinate dalle reggenti.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Il soggetto della proposizione implicita può avere due interpretazioni: impersonale oppure coreferente col soggetto della reggente, e spesso, ma non sempre, c’è la doppia possibilità. Avrei da proporre alcune frasi che secondo possono essere da esempio:

1) Mario era  troppo grande per capirlo = doppia interpretazione: “Mario era troppo grande affinché lui stesso potesse capire ciò / Mario era troppo grande affinché si potesse capire Mario”.

2) Mario era  troppo grande da capirlo = interpretazione che ha un soggetto coreferente con quello della reggente: “Mario era troppo grande affinché lui stesso potesse capire ciò”.

3) Mario era troppo grande da capire = interpretazione con soggetto impersonale/ generico: “Mario era troppo grande affinché soggetto generico potesse capire Mario”.

Le interpretazioni che ho dato alle precedenti frasi sono corrette o c’è qualcosa da rivedere?

 

RISPOSTA:

Le proposizioni implicite richiedono identità di soggetto con la reggente, tranne casi specifici (come quelle all’infinito rette da verbi di comando e il gerundio e il participio assoluti), che, però, sono a loro volta regolati. Nei suoi esempi l’interpretazione con il soggetto non coreferenziale è favorita dalla presenza del pronome atono diretto, che l’interlocutore è tentato di riferire al soggetto della reggente, escludendo di conseguenza quest’ultimo dal ruolo di soggetto della subordinata. Tale interpretazione “logica” è possibile in contesti parlati informali, ma sarebbe ovviamente sconveniente anche in questi contesti se facesse sorgere ambiguità. Nello scritto e anche nel parlato mediamente formale, le varianti con soggetto non coreferenziale vanno costruite con il verbo esplicito, per esempio “Mario era  troppo grande perché lo si capisse”.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

A) Ci sono degli studenti, molti dei quali non si impegnano abbastanza.
B) Ci sono degli studenti, di cui molti non si impegnano abbastanza.

La A ha un complemento partitivo che funge da modificatore del sintagma nominale, come per esempio:
‘Molti di quelli che vedi non si impegnano abbastanza’.
La B invece ha un complemento partitivo che funge da modificatore del sintagma verbale, come per esempio:
‘Di quelli che vedi molti non si impegnano abbastanza’.
È un’analisi corretta la mia? Se così fosse, non ci sarebbe nessuna differenza d’uso tra A e B?

 

RISPOSTA:

L’unica differenza tra A e B è la forma del pronome relativo (di cui / dei quali). A prescindere dalla forma, la funzione del relativo è sempre quella di introdurre una proposizione relativa, che è un modificatore di un sintagma nominale (in questo caso gli studenti). Per quanto le due varianti del relativo siano funzionalmente identiche, quella analitica, formata dall’articolo determinativo e quale, è meno comune e più formale di quella sintetica, formata dal solo cui. Va aggiunto che la proposizione relativa richiesta qui è certamente limitativa, cioè contenente informazioni che identificano l’antecedente; questo tipo di proposizione relativa non va separato dalla reggente con alcun segno di punteggiatura e preferisce senz’altro la forma sintetica del relativo. Diversamente, la relativa esplicativa, che contiene informazioni aggiuntive sull’antecedente, va separata e può essere costruita con entrambe le forme (per esempio: “Quest’anno ho una classe con molti studenti, molti dei quali / di cui molti non si impegnano abbastanza”).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho preparato questo quesito perché, talvolta, ho difficoltà a capire su chi ricada l’azione della subordinata. La regola secondo cui, se non vado errata, è consigliata (tranne alcuni casi) la forma implicita, laddove vi sia identità di soggetto tra la reggente e appunto la subordinata, non so se possa essere applicata agli esempi proposti:

1) Stefano ha chiesto ad Alessia di uscire.

2) Stefano ha detto quella bugia ad Alessia per illuderla di aver ragione.

Riguardo al primo esempio: Stefano ha chiesto ad Alessia che fosse lei ad uscire, oppure Stefano ha chiesto il permesso per uscire ad Alessia?

Riguardo al secondo esempio: la bugia è stata detta ad Alessia per illuderla che Stefano avesse ragione, oppure Stefano, con quella bugia, ha voluto illudere Alessia?

Vorrei infine aggiungere un terzo esempio. Stavolta si tratta di un’interrogativa indiretta; ma l’incertezza sui rapporti semantici tra le parti permangono:

3) Stefano ha chiesto ad Alessia se poteva/potesse uscire.

Stessa criticità: chi “poteva (o potesse) uscire” tra i due?

 

RISPOSTA:

La regola generale dice che la subordinata completiva implicita presuppone che il soggetto sia lo stesso della reggente; ci sono, però, dei casi in cui questa regola entra in competizione con altre regole, oppure con la logica ingenua del parlante, con l’effetto di creare confusione nel parlante stesso. Nella frase 1) il problema è causato dalla polisemia del verbo chiedere: se lo intendiamo come ‘chiedere il permesso’ allora la subordinata rientra nella regola dell’identità di soggetto, per cui è Luca che vuole uscire; se, invece, lo intendiamo come ‘richiedere’, la subordinata rientra nella regola della costruzione con i verbi di comando, che prevede l’identità tra il soggetto della subordinata e l’oggetto del comando. In questo secondo caso, quindi, è Alessia che deve uscire. C’è anche una terza possibilità, attivata dal verbo chiedere in combinazione con uscire, e cioè che Luca abbia invitato Alessia a un appuntamento romantico. In questo caso la subordinata ha come soggetto loro, che non coincide né con Luca né con Alessia: la soluzione regolare sarebbe, quindi, “Luca ha chiesto ad Alessia che uscissero”, che, però, sarebbe interpretata piuttosto come ‘… ha richiesto ad Alessia di far uscire altre persone’. Con questo terzo significato, la costruzione più comune sarebbe ancora “Luca ha chiesto ad Alessia di uscire”, a rigore non corretta. La disambiguazione tra le tre possibilità sarà garantita dal contesto; la soluzione 3), invece (pure possibile), non aiuta completamente, perché l’inserimento di potere esclude la terza interpretazione, ma lascia aperte le prime due (anche se la seconda sarebbe molto favorita): nel primo caso potere sarà interpretato propriamente come ‘avere il permesso’; nel secondo sarà interpretato come segnale di cortesia, quindi la frase sarebbe la variante indiretta di “Alessia, puoi uscire, per favore?”.

Per quanto riguarda la frase 2), l’identificazione del soggetto di aver ragione è problematica perché l’oggetto pronominale della proposizione reggente (la) è sentito come un possibile candidato, anche se a rigore non lo è: il soggetto di aver è Stefano, ovvero il soggetto della proposizione reggente; se, invece, si vuole che il soggetto sia Alessia, bisognerà costruire la subordinata in modo esplicito: “…illuderla che avesse ragione”.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se le due soluzioni indicate più sotto sono, per motivi di registro, ammissibili.

1) Esserci impegnate / 2) Essersi impegnate.

Cerco di contestualizzare.

Un gruppo di studentesse contesta una valutazione da parte di un’insegnante. Una di esse, a nome del gruppo, si pronuncia in questi termini:

“Prendiamo atto che (l’)esserci/essersi impegnate al massimo e (l’)aver applicato, laddove possibile, gli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo, non è bastato per ottenere una valutazione almeno sufficiente” (ho incluso l’articolo determinativo tra parentesi perché credo che il parlante possa liberamente decidere se esplicitarlo od ometterlo).

Vorrei inoltre domandarvi se, modificando dati elementi della costruzione ed esulando dal caso specifico, si possa “spersonalizzare” il concetto, creando così una sorta di “causa-effetto” generale:

“Prendiamo atto che (l’)essersi impegnati [non più femminile plurale, ma maschile] al massimo e (l’) aver applicato gli insegnamenti ricevuti negli anni, potrebbe non bastare per ottenere una valutazione sufficiente”.

 

RISPOSTA:

L’espressione da lei evidenziata si trova all’interno di una proposizione subordinata soggettiva retta dall’oggettiva non è bastato, che è impersonale; se la soggettiva condivide lo stesso soggetto della reggente essa deve essere ugualmente impersonale, quindi deve prendere la forma essersi impegnato, con il pronome si e il participio al singolare maschile. Tale soluzione risulta doppiamente controintuitiva, perché il soggetto logico è plurale e di sesso femminile (anche se il costrutto è grammaticalmente impersonale) e perché la proposizione che regge l’oggettiva è a sua volta dipendente dalla principale (per giunta collocata subito alla sinistra della soggettiva) costruita con il soggetto noi. Ne deriva un comprensibile rifiuto della forma che sarebbe corretta. Le alternative a questa soluzione sono: 1. la forma essersi impegnate, che a rigore è scorretta, perché è per metà impersonale (l’infinito essersi) e per metà personale (il participio concordato con il soggetto logico plurale femminile); 2. la forma esserci impegnate, che è internamente ben formata, ma sintatticamente scorretta perché costruisce la proposizione dipendente da una proposizione impersonale con un soggetto logico personale; 3. la costruzione personale, ma esplicita, della soggettiva: che ci siamo impegnate, corretta da tutti i punti di vista ma resa impossibile dalla coincidenza della presenza di un altro che subito prima (“Prendiamo atto che che ci siamo impegnate al massimo…”). Insomma, presupponendo di voler scartare la costruzione impersonale essersi impegnato e l’alternativa 3, bisogna ammettere che scegliere una delle altre due comporta una scorrettezza tutto sommato veniale; in particolare la soluzione 2 sarebbe la più facilmente giustificabile, vista la costruzione personale della proposizione principale. Una soluzione del tutto corretta e priva di controindicazioni è ovviamente possibile, ma comporta una riorganizzazione sintattica della frase; per esempio: “Prendiamo atto che non è bastato che ci siamo impegnate al massimo e abbiamo applicato, laddove possibile, gli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo per ottenere una valutazione almeno sufficiente”, oppure “Prendiamo atto che non è bastato il nostro massimo impegno e l’applicazione, laddove sia stata possibile, degli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo per ottenere una valutazione almeno sufficiente” (che ha il vantaggio di evitare la sgradevole ripetizione di che a breve distanza).

A margine aggiungo che la virgola tra tempo e non non è richiesta, e anzi è al limite dell’errore, perché separa due parti non separabili della frase (prendiamo atto che… non è bastato) per il solo fatto che si trovano collocate a distanza.

In ultimo, la sua ipotesi di “spersonalizzazione” è valida, purché la forma sia quella corretta, ovvero essersi impegnato.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho dei dubbi riguardo alla possibile collocazione dei modificatori nominali in diversi contesti e situazioni.

Modificatori del nome preceduti da un modificatore verbale:

1a. Ho messo una cosa qui bellissima / di marmo / che potrebbe aiutarmi.

Modificatori del nome dopo il verbo dell’interrogativa:

2a. Quale cosa hai venduto di plastica / plasticosa / che non andava venduta?

3a. Quante ne hai dezuccherate / senza zucchero / che non fanno male alla salute?

4a. Cosa hai osato toccare di colore giallo / di legno / che non andava toccato?

5a. Di quale parte sei della Svezia?

Questione ancora più complicata:

Modificatori del nome, preceduti da un modificatore verbale, collocati dopo il verbo di un’interrogativa:

6a. Quale cosa hai messo qui di colore rosso / rossa / che non apprezzi più di tanto?

7a. Quale cosa hai comprato senza nemmeno avvisarmi di colore rosso / rossa / che ti piace?

Chiaramente tutte le frasi possono essere riformulate in questo modo:

1b. Ho messo qui una cosa bellissima / di vetro / che potrebbe aiutarmi.

2b. Quale cosa di plastica / plasticosa / che non andava venduta hai venduto?

3b. Quante dezuccherate / senza zucchero / che fanno male ne hai?

4b. Cosa di colore giallo / di legno / che non andava toccato hai osato toccare?

5b. Di quale parte della Svezia sei?

6b. Quale cosa di colore rosso / rossa / che non apprezzi hai messo qui?

7b. Quale cosa di colore rosso / rossa / che ti piace hai comprato senza avvisarmi?

La questione potrebbe farsi più intricata se si pensa che in alcune di queste frasi il complemento preposizionale / aggettivo potrebbe essere interpretato come modificatore verbale, più precisamente come complemento predicativo del soggetto / oggetto, non come modificatore nominale, vista la sua posizione postverbale, per la precisione negli esempi da 2 e 4.

Inoltre, l’esempio 7 potrebbe essere ambiguo, in quanto che ti piace potrebbe essere anche inteso come subordinata esplicita del verbo avvisare, dando il senso che qualcuno compra un qualcosa che gli piace, senza però avvisare qualcun altro.

Chiaramente queste situazioni di ambiguità si possono creare, ma quello che mi chiedo è questo: sintatticamente e grammaticalmente parlando, possiamo parlare di frasi corrette in questi significati e nel senso che vorrei dare? Cioè, i vari modificatori nominali (di legno, che non andava toccato, della Svezia, bellissima ecc.) delle frasi b si possono considerare dei modificatori nominali tanto nelle varianti a quanto nelle varianti b?

 

RISPOSTA:

Qualunque sia la posizione del modificatore, esso sarà sempre ricondotto al sintagma modificato; anche se interpretiamo i modificatori come complementi predicativi (o predicazioni supplementari), dal punto di vista sintattico e semantico essi modificano ancora i sintagmi nominali a cui si riferiscono. Va, però, detto, che il modificatore è tipicamente adiacente al modificato, tranne che non ci siano ragioni per allontanarlo (per esempio l’inserimento di un altro modificatore più strettamente legato al modificatore o la funzione predicativa del modificatore): alcune frasi a, pertanto, risultano innaturali e al limite dell’accettabilità (per esempio “Ho messo una cosa qui bellissima”, perché difficilmente si può accettare che l’aggettivo qualificativo sia legato al sintagma nominale qualificato meno strettamente di un’indicazione di luogo). La proposizione esclusiva nella frase 7 non è in nessun caso un modificatore del nome (infatti non può essere in alcun modo trasformata in una relativa il cui pronome introduttore riprenda il sintagma nominale o in un aggettivo); modificatori di sintagmi nominali introdotti da senza sarebbero, ad esempio, borsa senza manici (ovvero che non ha i manici), oppure maglietta senza maniche (smanicata).

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Tutte queste frasi e alternative sono corrette?

“Mi ha chiesto che cosa significasse quel gesto”

“Mi ha chiesto che cosa significhi quel gesto”

“Mi ha chiesto che cosa significherebbe quel gesto”

“Mi ha chiesto che cosa significa quel gesto”

 

“Un bambino che legga / leggesse / legge per bene una enciclopedia(,) imparerebbe tutto ciò che una scuola può / potesse / possa / potrebbe offrirgli”.

 

“Un amico che diffami / diffama / diffamasse non è / sarebbe un buon amico”.

 

Attenendomi, per esempio, a queste tabelle della “Treccani”, una frase del genere sarebbe agrammaticale: “Credo che l’avesse visto”?

A che attenersi per sapere se si sta (o stia?) costruendo una frase che rispetta (o rispetti?) la concordanza dei tempi verbali?

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti dei tre gruppi sono corrette. Nel primo gruppo la subordinata è una interrogativa indiretta, che è strettamente vincolata alla consecutio temporum; non tutte le varianti presentate, però, hanno a che fare direttamente con il sistema della consecutio. Le varianti con significa / significhi sono semanticamente equivalenti; in questo caso la differenza tra l’indicativo e il congiuntivo è di tipo diafasico, cioè di registro (lo stesso vale per sta / stia e rispetta / rispetti della frase finale della sua domanda). Quella con il condizionale contiene, ovviamente, una sfumatura di condizionalità; presuppone, cioè, che ci sia una condizione (espressa altrove o implicita) per l’avverarsi dell’evento del significare (per esempio “…che cosa significherebbe quel gesto se lui lo facesse“). In alternativa (ma la corretta interpretazione dipende dal contesto), il condizionale può essere interpretato come un segnale di cortesia, ovvero come una variante indiretta di significa. Per quanto riguarda la consecutio temporum, queste tre varianti esprimono tutte la contemporaneità con il presente; il passato prossimo (qui ha chiesto), infatti, può funzionare da passato ma anche da presente, se descrive un evento che è ancora in corso (ha chiesto comporta che la domanda è ancora valida nel momento in cui l’emittente parla). Diversamente da queste tre, la variante all’imperfetto esprime (anche qui l’interpretazione dipende dal contesto) la contemporaneità con il passato, l’anteriorità rispetto al presente o anche l’anteriorità rispetto al passato; per esempio “L’ho incontrato ieri e mi ha chiesto (passato) che cosa significasse (contemporaneità con il passato) il nostro incontro”; “L’ho appena incontrato e mi ha chiesto (domanda ancora valida = presente) che cosa significasse il mio discorso di ieri (anteriorità rispetto al presente)”; “L’ho incontrato ieri e mi ha chiesto (passato) che cosa significasse (anteriorità rispetto al passato) il mio discorso del giorno prima”.

La seconda e la terza frase contengono subordinate relative, che non sono strettamente legate alla consecutio temporum; le varianti legge / legga funzionano come significa / significhi del gruppo precedente; leggesse qui non è interpretabile come passato, per via del verbo della reggente (imparerebbe), che è presente; esso va, quindi, interpretato come una variante di legga favorita dalla sovrapposizione del modello del periodo ipotetico: che leggesse …imparerebbe = se leggesse …imparerebbe. Si noti che se il verbo della reggente fosse passato, leggesse sarebbe interpretato come passato (per esempio “Un bambino che cinquant’anni fa leggesse per bene una enciclopedia avrebbe imparato…”).

Per “…tutto ciò che una scuola può / potesse / possa / potrebbe offrirgli” vale quanto appena detto, tranne che qui è ammesso sia il congiuntivo imperfetto, con la stessa sfumatura ipotetica della prima relativa, sia il condizionale presente (non ammesso nella prima relativa per via della sovrapposizione del modello del periodo ipotetico), attratto dal condizionale della proposizione reggente. A margine sottolineo che la virgola tra enciclopedia e imparerebbe non va inserita, perché si configurerebbe come virgola tra il soggetto (Un bambino che legga / leggesse / legge per bene una enciclopedia) e il verbo.

Per la relativa della terza frase vale tutto quello che è stato detto per la prima relativa della seconda. Chiaramente, se si opta per diffamasse la reggente prenderà il condizionale sarebbe per via della sovrapposizione del modello del periodo ipotetico.

La frase “Credo che l’avesse visto” non è affatto agrammaticale, ma descrive una situazione in cui un parlante riferisce di un evento passato precedente un altro; per esempio “Luca ieri è rimasto a guardare il film per pura gentilezza; credo che l’avesse già visto”. Lo schema presentato nella pagina a cui lei rimanda contiene soltanto i casi più comuni di relazione temporale tra reggente e subordinata completiva; i tanti casi non contemplati non sono esclusi, ma solo tralasciati per brevità. Sulla consecutio temporum in generale rimando alle tante risposte dell’Archivio di DICO che contengono la parola consecutio; in particolare la scelta dei tempi nelle relative è al centro di questa.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho dei dubbi sulle frasi seguenti.

1a. È la prima volta che vedo questo film.

1b. È la prima volta che ho visto questo film.

1c. È stata la prima volta che ho visto questo film.

 

2a. Visto/viste tutte le poesie, abbiamo deciso che…

2b. Dato/dati i risultati, abbiamo deciso che…

 

RISPOSTA:

Nel primo gruppo di frasi la proposizione subordinata è di fatto una relativa (il che che la introduce è detto polivalente, ma la proposizione si comporta comunque come una relativa), quindi ha ampia libertà nella scelta del tempo verbale. La logica esclude la 1b, perché se la prima volta è presente anche la visione del film deve essere presente. Le altre due sono corrette. Nel secondo gruppo i participi passati concordano con i soggetti delle subordinate implicite (le poesie e i risultati): le proposizioni, infatti, sono equivalenti a “Essendo state viste tutte le poesie” e “Essendo stati dati tutti i risultati”.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Bisogna attenersi a quanto affermato dal “Sabatini”: «Se l’elemento negato è anteposto al verbo, questo rifiuta il non: neanche io so come fare»?

«Anche se dovessimo aspettare non sarebbe un problema» e «Neanche se dovessimo aspettare sarebbe un problema» sono le uniche possibilità corrette? Tuttavia mi è capitato di leggere esempi contradditori con quanto appena affermato anche in La luna e i falò.

E se l’elemento di negazione è posposto al verbo: «Non sarebbe un problema neanche se dovessimo aspettare di più»?

 

RISPOSTA:

Sebbene l’italiano richieda, o ammetta, la doppia negazione in alcuni casi («non voglio niente»), la rifiuta in altri, precisamente quando un elemento (avverbio, congiunzione, aggettivo o pronome, a seconda dei casi) di negazione come neanche, neppure, nemmeno, niente, nessuno è anteposto al verbo. Come giustamente osserva Serianni nel cap. VII, par. 193, della sua Grammatica, «questa norma va oggi osservata scrupolosamente, almeno nello scritto formale. Tuttavia, nell’italiano dei secoli scorsi e anche in quello contemporaneo non mancano le deflessioni in un senso o nell’altro», dovute per esempio a forme regionali, di italiano popolare, di trascuratezza, di espressività. Tra le deflessioni, troviamo addirittura Manzoni: «Una di quelle donnette alle quali nessuno, quasi per necessità, non manca mai di dare il buongiorno». Deflessioni, tra i moltissimi altri, in Pavese: «Neanche tra loro non si conoscevano», «neanche qui non mi credevano». Cionondimeno, ciò non altera la norma dell’italiano. Pertanto, «Anche se dovessimo aspettare non sarebbe un problema» e «Neanche se dovessimo aspettare sarebbe un problema» vanno bene, mentre «Neanche se dovessimo aspettare non sarebbe un problema» va evitato. Quando l’elemento di negazione è posposto al verbo, la doppia negazione è ammessa: «Non sarebbe un problema neanche se dovessimo aspettare di più» va altrettanto bene quanto «Non sarebbe un problema anche se dovessimo aspettare di più».

Fabio Rossi

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QUESITO:

I verbi procomplementari, essendo formati da particelle pronominali di valore intensivo, andrebbero usati soltanto in contesti colloquiali, oppure possono essere utilizzati in qualsiasi registro? Quanto è corretto scrivere: «stava per andarsene»? Tra l’altro sono frasi che si possono trovare ad apertura di libro.

Inoltre io distinguo perlomeno quattro tipi di frasi riflessive:

«Mi mangio la mela»: uso intensivo.

«Mi lavo le mani»: riflessivo apparente.

«Mi vesto»: riflessivo

«Quel ragazzo mi si mette sempre nei guai»: dativo etico.

Tolto l’uso intensivo e il riflessivo vero e proprio, gli altri due usi (riflessivo apparente e dativo etico) quanto sono accettabili? È corretto scrivere: «Non mi si chiedano spiegazioni»?

 

RISPOSTA:

Nei verbi pronominali, e nel sottogruppo dei verbi procomplementari, la particella pronominale (o più d’una), detta anche pronome atono o clitico, non svolge necessariamente un valore intensivo, ma svolge spesso un ruolo sintattico pieno di completamento della valenza del verbo, modificandone il significato. Per es. un conto è il verbo fare, un altro conto il verbo farcela, altro è sentire, altro è sentirsela, finire e finirla ecc. A volte, tra un verbo pronominale (o procomplementare) e un verbo non pronominale c’è quasi perfetta sinonimia, come accade per andare e andarsene, scordare e scordarsi, ricordare e ricordarsi, dimenticare e dimenticarsi ecc. In casi del genere, il verbo pronominale è perlopiù meno formale rispetto al verbo privo di pronome. Se, nel caso di andarsene, possiamo dunque dire (ma solo impropriamente) che i clitici siano d’uso intensivo, in altri casi, come sentirsela, o saperla lunga, o finirla, la funzione del clitico non è intensiva ma proprio strutturale e il cambiamento di significato, rispetto al verbo non pronominale, è sostanziale. I verbi procomplementari, come già detto, sono spesso usati nei registri colloquiali, ma non possono certo dirsi scorretti; inoltre, alcuni di essi possono addirittura essere d’uso molto formale, come ad es. volerne a qualcuno: «non me ne voglia». Nella maggior parte dei casi, pertanto, i verbi procomplementari possono essere usati in tutti i registri; in alcuni casi, invece, sono limitati agli usi informali: fregarsene, farsela addosso, infischiarsene ecc. Ma non è certo la presenza dei clitici a renderli informali: anche fregare è più informale di rubare. «Stava per andarsene» va benissimo in tutti gli usi. Il fatto che «stava per andare» sia lievemente più formale non scoraggia certo l’uso della forma pronominale. Come ripeto, stiamo comunque parlando di usi sempre corretti e ammissibili quasi sempre in ogni registro.

Eviterei, a scanso di equivoci, la dizione «uso intensivo», limitandola, se proprio deve, al solo dativo etico (del tipo «che mi combini?»), nel quale il pronome in effetti non ha valore strutturale ma solo di sfumatura semantica. Il dativo etico è d’ambito colloquiale ma è comunque corretto (anche Cicerone, come ricorderà, lo utilizzava nelle sue lettere).

«Non mi si chiedano spiegazioni» non è né un verbo procomplementare, né pronominale, né il clitico ha valore intensivo o etico. È un normalissimo complemento di termine con un verbo passivo con si passivante: «Non vengano chieste spiegazioni a me».

Per quanto riguarda le altre sottocategorie della macrocategoria dei verbi pronominali, osservo quanto segue.

«Mi mangio la mela»: verbo transitivo pronominale, d’uso colloquiale ma sempre corretto.

«Mi lavo le mani»: come sopra, detto anche riflessivo apparente.

«Mi vesto»: riflessivo

«Quel ragazzo mi si mette sempre nei guai»: dativo etico, d’uso perlopiù colloquiale ma sempre corretto.

Esistono poi anche altre categorie di verbi pronominali, come, per l’appunto, i verbi procomplementari, i verbi reciproci (salutarsi, baciarsi ecc.) e i verbi intransitivi pronominali (esserci, trovarsi, rompersi ecc.).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Chiedo gentilmente delucidazioni su un dubbio che mi è sorto. Scrivendo la frase “Gran parte del merito è …”, dove ci sono i puntini va messo “la sua” o “il suo”?

Es.: “Se sono riusciti a fare questa cosa gran parte del merito è la sua” o “Se sono riusciti a fare questa cosa gran parte del merito è il suo”?

In pratica: “Il suo/la sua” segue “gran parte” o “merito”?

Nello specifico la frase precisa sarebbe: “Il tempo per lui sembra non passare mai: ennesima prestazione sontuosa; puntuale nelle chiusure, preciso negli interventi e provvidenziale in più di un’occasione: se i biancoverdi sono riusciti a limitare il passivo nella prima frazione gran parte del merito è la sua/il suo”

 

RISPOSTA:

La concordanza a rigor di grammatica, e dunque consigliabile in uno stile sorvegliato, è al femminile, dal momento che la testa del sintagma è femminile («gran parte»). Il maschile si configura come una cosiddetta concordanza a senso, molto comune nell’italiano colloquiale ma da evitare in quello scritto formale.

C’è però un’alternativa per usare il maschile, ovvero quella di anticipare «il merito». Basterebbe scrivere così: «il merito è in gran parte suo».

Sarebbe inoltre preferibile, in una prosa più agile ed elegante, eliminare l’articolo, nella frase da lei segnalata: «gran parte del merito è sua», considerando dunque sua (o suo) come aggettivo piuttosto che some pronome.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Nel verso della canzone “Dammi solo un’ora baby / e un po’ di coca-cola che mi graffi la gola”, la relativa è consecutivo-finale, ma se al posto del congiuntivo graffi usassimo l’indicativo graffia la semantica della frase cambierebbe?

 

RISPOSTA:

Nel verso la relativa con che e il congiuntivo ha un valore a metà strada tra il consecutivo e il finale; il modo migliore per trasformarla è tale che + congiuntivo. La trasformazione con tale che + indicativo non sarebbe equivalente; tale costruzione sarebbe, anzi, molto strana, perché il graffiare è qui rappresentato non come una qualità della Coca-Cola (come sarebbe in una frase come “La Coca-Cola contiene una tale quantità di anidride carbonica che graffia la gola”), ma come lo scopo per cui il parlante chiede la Coca-Cola.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase (1) “Possono candidarsi al concorso solo persone che abbiano compiuto i 18 anni di età”, la relativa è definita da alcune fonti condizionale-restrittiva. L’uso del congiuntivo in questo tipo di proposizione relativa è diafasico?

Mi domando se sia anche possibile considerarla una proposizione relativa impropria consecutiva? Volevo provare a modellare altre frasi di questo genere:

(2) Gli anziani che abitino nella zona 5 possono vaccinarsi domani.

(3) Le persone che abbiano paura dei vaccini possono parlare con il rappresentante regionale della sanità. 

(4) Gli anziani che abbiano paura del covid dovrebbero vaccinarsi.

Non sono sicuro se le frase 3 e 4 funzionino con il congiuntivo e sembrano un po’ diverse dalla prima, ma non riesco a descrivere come mai.

 

RISPOSTA:

La proposizione relativa in 1 non è di tipo consecutivo; il congiuntivo al suo interno ha un valore diafasico, ovvero innalza lo stile rispetto all’indicativo. Se sostituiamo abbiano con hanno il significato complessivo non cambia. Bisogna, ovviamente, considerare che i parlanti associano al congiuntivo una sfumatura di eventualità; a ben vedere, però, persone che abbiano compiuto e persone che hanno compiuto descrive esattamente la stessa circostanza. Lo stesso vale per le proposizioni relative nelle altre frasi; queste frasi, però, risultano più forzate perché l’antecedente del relativo è determinato, quindi in contrasto con la sfumatura eventuale associata al congiuntivo.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi sono reso conto che a livello molto colloquiale molte persone (anch’io faccio parte di questa cerchia) fanno uso di una strana dislocazione a sinistra di vari elementi grammaticali: soggetto, periodo ipotetico e complementi di ogni tipo.

Le pongo qualche esempio:

  1. a) A me se piace qualcuno, mi faccio avanti = se a me piace qualcuno, mi faccio avanti.
  2. b) Non so lui ciò che ha fatto/ lui non so ciò che ha fatto= non so ciò che lui ha fatto.
  3. c) Lui non so chi pensavi che fosse/ non so lui chi pensavi che fosse? = non so chi pensavi che lui fosse/ non so chi pensavi che fosse, lui?
  4. d) Lui non so cosa vorrebbe che noi dicessimo/ non so lui cosa vorrebbe che noi dicessimo = non so cosa lui vorrebbe che noi dicessimo/ non so cosa lui vorrebbe che dicessimo.
  5. e) Lui noi non so cosa vorrebbe che pensassimo/ non so lui noi cosa vorrebbe che pensassimo = non so cosa lui vorrebbe che noi pensassimo/ non so cosa vorrebbe che pensassimo, lui, noi.
  6. f) Se fosse rimasta non penso che sarebbe cambiato qualcosa= non penso che se fosse rimasta sarebbe cambiato qualcosa.
  7. g) Se fosse rimasta non so cosa sarebbe cambiato/ non so se fosse rimasta cosa sarebbe cambiato= non so cosa sarebbe cambiato se fosse rimasta.
  8. h) Io quando/nel momento in cui entravo, la gente non mi salutava = quando io / nel momento in cui io entravo, la gente non mi salutava.
  9. i) Questo penso/ sembra che sia ottimo = penso/ sembra che questo sia ottimo.

In tutte queste frasi c’è una dislocazione a sinistra di qualche elemento, ad esempio:

Nella prima abbiamo la dislocazione di un complemento dipendente dalla protasi.

Nella seconda la dislocazione del soggetto della relativa.

Nella terza la dislocazione del soggetto di una oggettiva esplicita la quale è dipendente da una proposizione interrogativa.

Nella quarta c’è la dislocazione del soggetto della proposizione interrogativa.

Nella quinta c’è una doppia dislocazione, cioè degli elementi dislocati rispettivamente nella terza e nella quarta.

Nella sesta, per esempio, la protasi è contenuta nell’oggettiva ed è dipendente dalla stessa oggettiva (“che sarebbe cambiato qualcosa”) non dalla proposizione principale (“non penso”) eppure nonostante la protasi faccia parte dell’oggettiva viene occasionalmente dislocata a sinistra.

Nella settima abbiamo qualcosa di simile, ovvero la dislocazione della protasi dipendente da una proposizione interrogativa.

Possiamo parlare di dislocazioni grammaticalmente corrette oppure di colloquialismi impropri?

 

RISPOSTA:

L’italiano ammette molto spesso lo spostamento di un sintagma, o di una proposizione, rispetto alla sua posizione canonica in un ordine non marcato. Lo spostamento (che è una potente risorsa sintattica) è dovuto a esigenze informativo-pragmatiche, cioè per portare in prima posizione il tema dell’enunciato, cioè la parte su cui verte l’informazione. Talora questi spostamenti non hanno alcuna ricaduta sul registro, talaltra invece rendono l’enunciato meno formale, ma comunque corretto. Nessuno degli esempi da lei addotti è scorretto e soltanto alcuni rendono l’enunciato meno formale. Nessuno, inoltre, è configurabile come dislocazione tecnicamente intesa, ma soltanto come spostamento. In taluni casi, si parla anche di anacoluto o tema sospeso, in altri di sollevamento, ma, in buona sostanza, sempre di spostamento si tratta, ma non di dislocazione. Perché vi sia una dislocazione, oltre allo spostamento deve esservi anche una ripresa pronominale dell’elemento spostato, come in «il panino lo mangio», «che cosa vuoi non lo so» (dislocazioni a sinistra), oppure «lo mangio il panino», «non lo so che cosa vuoi» (dislocazioni a destra). Vediamo ora caso per caso.

  1. a) A me se piace qualcuno, mi faccio avanti: non è meno formale della versione senza spostamento.
  2. b) Non so lui ciò che ha fatto/ lui non so ciò che ha fatto: meno formali.
  3. c) Lui non so chi pensavi che fosse/ non so lui chi pensavi che fosse?: meno formali.
  4. d) Lui non so cosa vorrebbe che noi dicessimo/ non so lui cosa vorrebbe che noi dicessimo: lievemente meno formali.
  5. e) Lui noi non so cosa vorrebbe che pensassimo/ non so lui noi cosa vorrebbe che pensassimo: lievemente meno formali. In tutti i casi b-e, come vede, non soltanto la frase è perfettamente corretta, ma, in certi contesti, è anche migliore della frase non marcata, dal momento che valorizza il ruolo tematico di lui, che dunque può agevolare la coesione con quanto precede.
  6. f) Se fosse rimasta non penso che sarebbe cambiato qualcosa: non è meno formale della versione senza spostamento.
  7. g) Se fosse rimasta non so cosa sarebbe cambiato/ non so se fosse rimasta cosa sarebbe cambiato: non è meno formale della versione senza spostamento.
  8. h) Io quando/nel momento in cui entravo, la gente non mi salutava: tema sospeso o anacoluto, meno formale della frase non marcata.
  9. i) Questo penso/ sembra che sia ottimo: normalissimo caso di sollevamento del soggetto, non meno formale.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vi propongo un altro quesito.

  1. Cercò di riattivare una memoria/quella memoria che non gli venne in soccorso.

Domando se sia normale (e anche corretto), in questo caso, sostituire l’articolo determinativo “la” o con l’indeterminativo o con l’aggettivo dimostrativo. È evidente che la “memoria” sia sempre e soltanto una, non necessitando dunque di essere distinta da altre; mi sembra tuttavia che, nell’esempio segnalato, l’articolo indeterminativo o l’aggettivo dimostrativo si prestassero bene al legame con la proposizione successiva.

Il concetto si sarebbe potuto formulare, a mio avviso, anche mantenendo l’articolo determinativo e lavorando con la punteggiatura:

  1. Cercò di riattivare la memoria, che (però) non gli venne in soccorso.
  2. Cercò di riattivare la memoria. Che (però) non gli venne in soccorso.

Ma mi sento più incline verso le prime due soluzioni.

Nella speranza di aver espresso chiaramente il fulcro della questione, nonché le ragioni che mi hanno spinta a operare le scelte sopraindicate, vi ringrazio di nuovo per la vostra preziosa attenzione.

 

RISPOSTA:

Sia l’articolo (determinativo o indeterminativo) sia l’aggettivo dimostrativo svolgono la funzione di determinante, cioè servono a meglio circoscrivere il senso e l’ambito dei nomi che precedono, per es. specificando se indicano elementi generici, categorie astratte, elementi di un insieme, elementi già nominati o mai nominati prima, noti o ignoti all’interlocutore ecc. Con termini come memoria, che indicano elementi non numerabili, non è frequente l’articolo indeterminativo, se non in casi particolari («ha una memoria eccezionale»). Nella sua frase 1 quindi opterei per l’articolo determinativo la, preferibile anche rispetto a quella, perché il valore forico (cioè la memoria ripresa subito dopo tramite il pronome relativo che) è già reso dall’articolo determinativo. Non a caso, infatti, l’articolo determinativo italiano deriva proprio da un dimostrativo (latino): ILLAM (o, al maschile, ILLUM). Le alternative interpuntive proposte sono altrettanto corrette, ma non indispensabili, a meno che non si voglia sottolineare il fatto che (la memoria) non venga in soccorso. Del resto, come giustamente osserva lei, la memoria è sempre una, e dunque qui non ha senso la distinzione tra relativa limitativa (senza virgola) o esplicativa (con la virgola). Pertanto la presenza o no di un segno interpuntivo che distacchi la subordinata relativa dalla reggente è dovuta soltanto all’esigenza di conferire maggiore autonomia (e dunque rilievo semantico) al mancato soccorso della memoria.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se la seguente costruzione possa essere giudicata corretta (in particolare l’attacco, per così dire, della coordinata, con il pronome relativo che si riallaccia alla proposizione precedente).

«Spero che la poesia sia icastica e che le cui metafore traggano origine dal mondo della natura».

 

RISPOSTA:

No, la frase non è corretta, in quanto il pronome relativo, che introduce una subordinata relativa, risulta qui privo di verbo; il verbo in questione, traggano, è infatti in questo caso il verbo della subordinata completiva (che traggano) e non della relativa, che rimane dunque appesa, cioè senza un verbo. Quindi la versione corretta della sua frase è «Spero che la poesia sia icastica e che le sue metafore traggano origine dal mondo della natura». L’unico modo per inserire una relativa in dipendenza da un’altra subordinata è quello di far sì che entrambe le subordinate abbiano un verbo. Per esempio: «Apprezzo che tu abbia scritto una poesia icastica, le cui metafore traggono origine dal mondo della natura».

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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QUESITO:

A me riesce difficile capire quando di è essenziale e quando soltanto ridondante.

«Con l’aereo ci metto molto di meno/meno»; «Pensa di valere di più/più di noi».

C’è qualche regola da seguire?

Invece credo che una costruzione simile sia sbagliata: «Non me ne intendo di matematica». O soltanto «Non me ne intendo», sottintendendo l’argomento, oppure «Non mi intendo di matematica» senza “ne”.

Anche con in ho questo problema: «In molti andarono/Molti andarono».

 

RISPOSTA:

In effetti non è semplice, perché, più che vere e proprie regole di grammatica stabili, si tratta in questi casi di consuetudini di occorrenza, cioè di espressioni più o meno cristallizzate con o senza di. Di meno può fungere da locuzione avverbiale, del tutto interscambiabile con meno («bisognerebbe parlare di meno e pensare di più»), oppure da locuzione aggettivale, spesso, ma non sempre, interscambiabile con meno («un tempo le macchine in strada erano di meno» o «erano meno»); ma per esempio in «ho una carda di meno» (o «in meno») mal si presta alla sostituzione con il solo meno, così come «ce n’è uno di meno» (ma non «uno meno»).

Nel suo primo esempio, di può anche mancare: «Con l’aereo ci metto molto di meno/meno». Quando invece meno è seguito dal secondo di termine di paragone, è bene omettere di: «Pensa di valere più/meno di noi», anche se la forma con di, in questo caso, è comunque possibile. Ma, per esempio, in «Vorrei più/meno pasta di te», il di non va usato.

«Non me ne intendo di matematica» è una costruzione pleonastica tipica del parlato e della lingua informale denominata tecnicamente dislocazione a destra. In quanto pleonastica (dal momento che ne sta per di matematica) sarebbe meglio evitarla nella lingua scritta e formale, a meno che non manchi il sintagma pieno: «Non me ne intendo».

«Molti andarono» va bene per tutti gli usi, mentre «In molti andarono», oltreché meno formale, è più adatto nell’ordine invertito dei costituenti, per esempio: «Se ne sono andati in molti». Inoltre, in molti, rispetto a molti, fa presupporre una quantità assoluta, priva di relazione con altre: «molti andarono al mare, ma altrettanti in montagna»; «in molti andarono al mare».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Ho diverse domande sull’uso dei modi nelle subordinate.

1. L’alternanza tra l’indicativo e il congiuntivo ha una valore diafasico nelle completive?

2. Per quanto riguarda la proposizione relativa, nelle frasi seguenti il congiuntivo può essere sostituito dall’indicativo senza cambiamento di significato?

a. E poiché il denaro, in America come altrove, si guadagna in mille modi ma difficilmente con lo studio delle lettere e delle arti e alle lettere si dedicano volentieri soprattutto i facoltosi che vi siano inclinati (Soldati, America primo amore).

b. La stazione della vecchia Delhi di notte è uno di quei posti dove un viaggiatore che non abbia fatto l’abitudine all’India può essere preso dal panico (Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra).

c. Per un professionista sessantenne, che a suo tempo abbia fatto buoni studi superiori ma poi si sia occupato di altro – poniamo di import-export o di ortopedia –, la storia sarà probabilmente la disciplina che si interessa di guerre… (Serianni, Prima lezione di grammatica, p. 3).

d. Ho sentito storie da favola su tante notti passate all’aperto, non un problema che sia uno, tutto liscio come nei film (Daniele Mencarelli, Sempre tornare, p. 34).

e. Chi parla di un’intelligenza artificiale che possa prendere il potere o quantomeno surrogare l’intelligenza naturale non ha mai visto un bambino davanti a una pasticceria o un adulto o un’adulta disposti a giocarsi per amore, o per qualcosa che ne ha una vaga parvenza, la fama, la rispettabilità, la grandezza (Corriere della Sera, 31 gennaio 2023, A chi fa davvero paura l’intelligenza artificiale?).

f. Era l’unico che avesse la qualità per farlo.

3. Nella frase “Ho trovato qualcuno che potrebbe / può aiutarci” il congiuntivo possa non va bene. È vero?

4. Nei prossimi esempi la scelta tra il congiuntivo e l’indicativo è libera?

I ragazzi che non studino / studiano bene la lingua italiana non riusciranno a lavorare come giornalisti.

Un ragazzo che non studi bene….

5. Nella seguente frase è possibile sostituire pigliassero con pigliavano senza cambiare la semantica?

Proprio per questo avevo fatto l’attendente, per non avere sempre intorno i sergenti che mi pigliassero in giro quando parlavo (Pavese, La luna e il falò, p. 109).

6. In questi esempi la relativa è investita di un senso ipotetico di improbabilità?

Un viaggiatore armato di binocolo che si trovasse a bordo di una mongolfiera potrebbe vedere meglio di chiunque altro lo scenario della nostra storia.  (Ammaniti, Ti prendo e ti porto via, p. 46).

Un viaggiatore armato di binocolo che si trova / si trovi a bordo di una mongolfiera potrebbe vedere meglio di chiunque altro lo scenario della nostra storia (frase da Ammaniti modificata).

 

RISPOSTA:

1. Nei casi in cui l’alternanza è possibile (quindi esclusi i casi in cui è obbligatorio usare o l’indicativo o il congiuntivo) essa ha valore diafasico: la variante con il congiuntivo è più formale di quella con l’indicativo.

2. Nelle proposizioni relative a-d il congiuntivo ha ancora valore diafasico. Nell’esempio e la relativa è consecutivo-finale (un’intelligenza artificiale che possa prendere = un’intelligenza artificiale tale da poter prendere); la variante all’indicativo presenterebbe il poter prendere come fattuale. L’esempio f presenta una relativa apparentemente consecutiva, ma in cui, invece, il congiuntivo ha valore diafasico (avesse = aveva). Consecutivo-finale sarebbe una frase come “Era l’unico che avesse la possibilità di farlo; mentre, infatti, la qualità è certamente posseduta dal soggetto, e non può essere rappresentata come un’acquisizione possibile, la possibilità è per definizione un’acquisizione possibile.

3. Nella frase l’uso del congiuntivo è impedito dal verbo trovare al passato, che presenta l’antecedente qualcuno come certamente reale. Si noti che la relativa consecutivo-finale al congiuntivo sarebbe possibile se al posto di trovare ci fosse, per esempio, pensare (“Ho pensato a qualcuno che possa aiutarci”) e anche se il verbo trovare fosse presente (“Trova qualcuno che possa aiutarci”), perché in quel caso qualcuno non sarebbe certamente reale, ma sarebbe ipotetico.

4. Nella frase con l’antecedente i ragazzi la relativa al congiuntivo è molto innaturale, perché l’antecedente è determinato e complessivamente la frase è di formalità media. In quella con l’antecedente singolare si possono usare entrambi i modi, perché l’antecedente è indeterminato; in questo caso non sarebbe facile stabilire se il congiuntivo avrebbe valore diafasico o la funzione di rendere la relativa consecutiva: le due funzioni si sovrapporrebbero.

5. L’indicativo si può sostituire al congiuntivo, ma cambia il significato della frase. Il congiuntivo, infatti, è attratto dalla proposizione finale reggente (per non avere i sergenti che mi pigliassero in giro = affinché i sergenti non mi pigliassero in giro); l’indicativo darebbe, invece, alla relativa la funzione di qualificare fattualmente l’antecedente.

6. Nella frase originale che si trovasse = se si trovasse; nella frase modificata l’alternanza ha un valore simile a quello della seconda frase dell’esempio 4.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In un discorso racconto o poesia,  passare dalla forma impersonale alla seconda persona singolare è corretto?

 

RISPOSTA:

In linea di principio sì, è possibile e non è scorretto. Se già nelle questioni grammaticali il più delle volte è bene evitare la rigida dicotomia corretto/scorretto, ciò è vero tanto più nel terreno della testualità e della pragmatica, vale a dire a proposito del modo di rivolgersi ai lettori (cioè agli interlocutori) di un testo o di un discorso. Sicuramente però, soprattutto nella scrittura formale ma anche in quella narrativa, sarebbe bene evitare troppi salti di persona, anche perché ostacolano spesso la comprensione. Pertanto, se si decide di rivolgersi sempre con forme impersonali al destinatario (o narratario) del testo, sarebbe bene continuare a evitare il Tu/Lei/Voi. Certo, quanto più il testo è lungo, tanto più è difficile mantenere il controllo della persona, cioè dei pronomi da usare per rivolgersi al lettore/destinatario/narratario. Anche in un discorso orale, tanto più se formale, sarebbe auspicabile la coerenza negli usi del Tu/Lei/Voi, oppure delle forme impersonali, usando o sempre gli uni (Tu, Lei o Voi) o sempre le altre (le forme impersonali). La scelta meno marcata, cioè buona un po’ per tutte le occasioni, è quella dell’impersonalità, mentre la scelta del Tu/Lei/Voi, pure praticata spesso nel parlato e in poesia (da cui però di solito il Lei è bandito), è decisamente più insolita nella narrativa e nella saggistica. Nei testi poetici, poi, la libertà (e quindi anche la possibile alternanza tra Tu/Voi e forme impersonali) è ancora maggiore, per cui è davvero complicato individuare delle norme o anche soltanto delle linee guida su questo argomento. Per fare un esempio pratico, tutta questa risposta è scritta in forma impersonale. Si sarebbe potuto scriverla anche tutta dando del Tu o del Lei al lettore (non del Voi perché qui sto rispondendo a un lettore o a una lettrice specifico/a, non a un gruppo indistinto di lettori/lettrici), ma sarebbe stato strano alternare le due forme, come per esempio così:

«In linea di principio sì, è possibile e non è scorretto. Se già nelle questioni grammaticali il più delle volte è bene evitare la rigida dicotomia corretto/scorretto, ciò è vero tanto più nel terreno della testualità e della pragmatica, vale a dire a proposito del modo di rivolgersi ai lettori (cioè agli interlocutori) di un testo o di un discorso. Sicuramente però, soprattutto nella scrittura formale ma anche in quella narrativa, faresti bene a evitare troppi salti di persona, anche perché ostacolano spesso la comprensione. Pertanto, se decidi di rivolgerti sempre con forme impersonali al destinatario (o narratario) del testo, continua a evitare il Tu/Lei/Voi» ecc. ecc.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale tra le due è la costruzione più appropriata a un uso formale?

«Perché non si è ricorso/i prima a questo stratagemma?»

O ancora:

«Perché non si è intervenuto/i prima?».

 

RISPOSTA:

Abbiamo fornito molte risposte analoghe a questa, sugli usi del si passivante e del si impersonale: le suggerisco pertanto di ricercare nell’archivio delle risposte di Dico, scrivendo “passivante” o “passivato” o “si impersonale” nel campo della ricerca libera. I due casi specifici da lei segnalati, comunque, non rientrano nella tipologia del si passivante, bensì del si impersonale, poiché entrambi i verbi (ricorrere e intervenire) sono intransitivi e come tali non possono ammettere la forma passiva, dunque neppure il si passivante. Tuttavia la sua domanda è molto interessante, perché consente di riflettere sull’uso dell’accordo del participio passato nel caso di si impersonale con verbi composti.

I verbi intransitivi che hanno come ausiliare avere non accordano il participio con il soggetto; il participio rimane pertanto invariato, cioè sempre al maschile singolare: «per oggi si è lavorato abbastanza», «si è giocato a pallone»; mentre i verbi che hanno come ausiliare essere, richiedono l’accordo del participio: «si è andati (o andate) al mare», «si è morte (o morti) di noia». Pertanto l’unica forma corretta della sua seconda frase è: «Perché non si è intervenuti prima?», dal momento che intervenire ha come ausiliare essere. A rigore, anche nella sua prima frase il participio passato dovrebbe essere accordato: «Perché non si è ricorsi/e prima a questo stratagemma?»; tuttavia non sono rari (benché minoritari rispetto a essere) i casi in cui ricorrere possa reggere l’ausiliare avere; pertanto è corretta (ma meno formale) anche la forma con il participio non accordato, cioè al maschile singolare: «Perché non si è ricorso prima a questo stratagemma?».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Il testo che segue è la parte di una favola. Vorrei sapere se la punteggiatura e i verbi sono corretti:
«In una grande prateria ci vivevano bufali, cavalli e insetti. Tra questi un bellissimo bufalo: forte, bello, veloce… Però con tutte queste qualità era diventato superbo, si credeva chissà chi è proprio per questo non gli parlava più nessuno.
Un giorno un insetto decise di sfidare il bufalo e gli disse: “Sei così lento che non riesci a prendermi!”. Perciò il bufalo si arrabbiò, prese una rincorsa molto lunga e fece uno scatto che però finì male, infatti, il piccolo insetto si era messo davanti a un albero che così appena gli sarebbe venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e si sarebbe preso una botta/crapata e così andò».

 

RISPOSTA:

In brano presenta svariate inesattezze, che commenterò sotto.

«In una grande prateria ci vivevano [il ci è pleonastico: indica infatti il complemento di luogo già espresso da in una grande prateria; ci va dunque eliminato] bufali, cavalli e insetti. Tra questi un bellissimo bufalo: forte, bello, veloce… [eviterei i due punti che spezzano inutilmente il discorso; li sostituirei con una virgola] Però con tutte queste qualità era diventato superbo, si credeva chissà chi è [refuso per e congiunzione] proprio per questo non gli parlava più nessuno.
Un giorno un insetto decise di sfidare il bufalo e gli disse: “Sei così lento che non riesci a prendermi!”. Perciò il bufalo si arrabbiò, prese una rincorsa molto lunga e fece uno scatto che però finì male, [prima di infatti va un segno di punteggiatura forte, come un punto e virgola] infatti, il piccolo insetto si era messo davanti a un albero che [eliminare il che e aggiungere due punti] così [virgola] appena gli sarebbe [fosse: qui il condizionale è sbagliato perché è come se fosse un periodo ipotetico: se gli fosse venuto incontro, sarebbe bastato…] venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e [manca il soggetto, altrimenti il lettore crede che si tratti sempre dell’insetto, mentre invece qui il soggetto cambia ed è il bufalo] si sarebbe preso una botta/crapata [crapata è troppo informale/regionale e stona in un racconto; anche il generico botta non è il massimo; meglio testata, o gran testata, seguito da un punto] e così andò».

Quindi il brano corretto sarebbe come segue:

«In una grande prateria vivevano bufali, cavalli e insetti. Tra questi un bellissimo bufalo, forte, bello, veloce… Però con tutte queste qualità era diventato superbo, si credeva chissà chi e proprio per questo non gli parlava più nessuno.
Un giorno un insetto decise di sfidare il bufalo e gli disse: “Sei così lento che non riesci a prendermi!”. Perciò il bufalo si arrabbiò, prese una rincorsa molto lunga e fece uno scatto che però finì male; infatti, il piccolo insetto si era messo davanti a un albero: così, appena gli fosse venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e il bufalo si sarebbe preso una gran testata. E così andò». Oppure: «così, appena il bufalo gli fosse venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e quello si sarebbe preso una gran testata».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Avrei dei dubbi in merito ai verbi piacere, sedere e all’espressione dare per scontato.

Quale ausiliare si usa in presenza di un modale (al participio passato) e del verbo piacere? Ad es. Gli  è piaciuta la pizza. Come ha potuto piacergli la pizza / Come è potuta  piacergli la pizza?

Quanto al verbo sedere, io siedo è il presente ma sono seduto è anche presente? Qual è il passato prossimo di sedere? Mi sono seduto è il passato prossimo di sedersi.

Infine vorrei sapere se l´aggettivo scontato dell´espressione dare per scontato vada concordato col sostantivo a cui si riferisce.

 

RISPOSTA:

I verbi servili ammettono sia l’ausiliare proprio sia quello del verbo che dipende dal servile, pertanto entrambe le alternative sono corrette: Come ha potuto piacergli la pizza / Come è potuta  piacergli la pizza.

In sono seduto di fatto il participio passato perde il valore verbale per assumere quello aggettivale che pure gli è proprio, dunque l’espressione è al presente, non certo al passato. Sedere (verbo decisamente raro, rispetto al pronominale sedersi, oggi più comune) è di fatto difettivo, mancando dei tempi composti, nei quali viene sostituito, per l’appunto, dal pronominale: mi sono seduto. Possibile, nella lingua comune, anche l’uso di sedere come ‘far sedere’, dunque causativo (e transitivo), che pertanto ammette in questo caso i tempi composti e l’ausiliare avere: «ha seduto il bambino sul seggiolone».

Scontato può essere sia invariabile: dare per scontato la vittoria; sia accordato: dare per scontata la vittoria. Nel primo caso, l’originale valore verbale (participio passato del verbo scontare) tende a desemantizzarsi e a grammaticalizzarsi verso l’uso fraseologico, ma il processo non è ancora del tutto compiuto, dal momento che le forme non accordate ancora vengono avvertite come meno formali di quelle accordate, che dunque sono da preferirsi. Adesso in Google dare per scontato la vittoria conta circa 1000 occorrenze, contro le circa 4000 di dare per scontata la vittoria.

Fabio Rossi

Parole chiave: Pronome, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

In un avviso qual è la forma corretta da scrivere?

1) Si avvisa ai signori condomini

2) Si avvisa i signori condomini.

 

RISPOSTA:

Nessuna delle due, bensì: «Si avvisano i signori condomini», con il si passivante con valore impersonale: ‘i signori condomini sono avvisati’. Avvisare è intransitivo e dunque regge il complemento oggetto, non il complemento di termine (ai). Un’alternativa possibile soltanto in Toscana sarebbe quella con il si con valore di prima persona plurale: «Si avvisa i signori condomini», cioè ‘noi avvisiamo i signori condomini’.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale frase è corretta? Li adoro / Gli adoro?

 

RISPOSTA:

Li adoro, perché adorare regge il complemento oggetto (li) e non il complemento di termine (gli, loro).

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho dei dubbi riguardo all’uso del termine quest’ultimo, per il fatto che ho paura che ci siano dei fraintendimenti nelle frasi e nei concetti espressi. L’esempio è questo:

«Carla l’ultima volta che l’ho vista indossava una giacca di lana, quest’ultima era molto bella e aveva un colore blu scuro”. In questa frase è possibile che ci sia l’ambiguità quando si usa quest’ultima insieme agli aggettivi bella e di colore blu scuro, che magari non si capisce se questi aggettivi sono riferiti alla giacca come capo d’abbigliamento nella sua interezza o specificamente e solamente alla stoffa di lana di cui è composta la giacca? Chiedo questo perché l’ultimo sostantivo in ordine di apparizione nella frase è la parola lana che viene dopo la parola giacca, quindi quest’ultima potrebbe sembrare si riferisca solo a lana anziché a giacca.

 

RISPOSTA:

In effetti è spesso problematico il recupero anaforico di quest’ultimo, motivo per cui, in casi dubbi, è meglio ripetere il sintagma piuttosto che pronominalizzarlo con quest’ultimo. Ora nel caso che pone lei il buon senso aiuta a non riferirsi alla lana, ma all’intero capo di abbigliamento, però ci sono casi davvero problematici, soprattutto nei giornali, e soprattutto, come dice lei, nel caso di sintagmi che dipendono da altri sintagmi. Per esempio: «Il figlio del tabaccaio è stato rapito. Quest’ultimo aveva trent’anni». Chi, il tabaccaio o suo figlio? Meglio ripetere: Il figlio aveva trent’anni.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Mi sorge un dubbio. Quale delle seguenti affermazioni è corretta? Questi è mio cugino oppure questo è mio cugino?

Se dico: mio cugino fa il falegname. Questi è molto bravo nel suo lavoro.

Oppure si deve usare questo?

 

RISPOSTA:

Questo è più informale, questi è molto formale. Tuttavia nel suo esempio sono inappropriati entrambi, perché non c’è alcun bisogno di ribadire il soggetto nominato tre parole prima. Quindi l’unica frase adatta è la seguente: «Mio cugino fa il falegname. È molto bravo nel suo lavoro» (oppure «ed è molto bravo…»).

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Desidererei sapere se questa frase è corretta: «Non sono come te che ti (invece che «a cui») piacciono le auto di lusso».

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette, anche se la prima è meno formale della seconda. Le due alternative non sono peraltro identiche: il che della prima frase infatti non è propriamente un pronome relativo, bensì un che polivalente, con valore, in questo caso, vicino a quello di una congiunzione consecutiva: ‘tale che ti piacciono’. Dunque, oltre a essere meno formale, la prima frase esprime qualcosa in più rispetto alla seconda, cioè un maggior distacco (o un giudizio più negativo) nei confronti di una persona tale (talmente superficiale, materialista, capitalista, o che so io) da dar valore alle auto di lusso.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Nella frase seguente «ll Dirigente scolastico e gli insegnanti hanno il piacere di incontrarvi per presentare la nostra scuola», non sarebbe meglio scrivere presentarvi?

 

RISPOSTA:

Non è indispensabile, il senso è chiarissimo ugualmente. Del resto il verbo presentare richiede il dativo soltanto se si presenta una persona a un’altra, ma per altri contesti si può presentare una relazione, un progetto, una scuola, senza specificare a chi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Nel vostro archivio sono molteplici gli articoli inerenti all’alternanza, spesso ostica per i parlanti, tra il si passivante e il si impersonale. Alcuni di questi sono stati pubblicati di recente; approfitto pertanto dell’attualità dell’argomento per presentare una mia domanda.

Parto dall’esempio: Noi da giovani si mangiavano cibi genuini.

La costruzione è corretta? Quando il soggetto di prima persona plurale è, come nell’esempio, esplicito, ma anche quando è implicito purché facilmente ricavabile dal contesto, il parlante ha l’obbligo di scegliere il si impersonale, oppure anche il si passivante è possibile?

 

RISPOSTA:

L’esempio da lei proposto è il si di prima persona plurale tipico del toscano e non rientra dunque né nel si impersonale né nel si passivante. Tuttavia la sua frase presenta un errore: in (italiano regionale) toscano infatti il si ‘prima persona plurale’ si costruisce con la terza persona singolare (e non plurale) del verbo: «Noi si mangiava cibi genuini» = ‘noi mangiavamo cibi genuini’. A meno che la sua frase non costituisca un anacoluto (pure possibile nel parlato), con cambio di progetto da personale (noi) a passivante con valore di impersonale (si mangiavano).

Ecco poche regole per districarsi nell’uso del si impersonale/passivante. Se c’è un soggetto espresso, non si può utilizzare il si impersonale (altrimenti non sarebbe impersonale…). Se il verbo è intransitivo, e dunque non ammette la forma passiva, non si può utilizzare il si passivante (altrimenti non sarebbe passivante…). Nella pratica, il significato di entrambi i si è pressoché identico e l’incertezza di cui parla lei è dunque più teorica (e metalinguistica) che pratica.

Per esempio: in «si mangiavano cibi genuini» (senza soggetto espresso), il si è passivante (‘cibi genuini venivano mangiati’) ma il significato di fatto non cambia rispetto a un uso impersonale (o quasi): ‘qualcuno (o tutti, in generale) mangiava…’ .

Il si impersonale si costruisce soltanto con la terza persona singolare del verbo (si pensa, si dice, si teme, si arriva), mentre il si passivante ammette sia il singolare (si vede il mare, che può essere sia si passivante sia si impersonale), sia il plurale (non si mangiano cibi avariati). In caso di verbo intransitivo, come in si andava,  è possibile soltanto la terza persona singolare. Nei verbi transitivi è ammessa sia la terza singolare sia la terza plurale (si mangia, si mangiano).

Insomma, nella produzione e nell’interpretazione degli enunciati grossi problemi, almeno per i madrelingua, non ve ne sono: il significato, infatti, sia per il si impersonale sia per il si passivante, di fatto è sempre impersonale (o quasi), come ripeto: qualcuno (o tutti in generale) va, mangia ecc. A essere ostico, quindi, non è l’uso, quanto l’analisi, che tutto sommato mi sembra un problema (molto) secondario.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Leggo dal libro di una quotata scrittrice la seguente frase: «Mi ha raccontato che li abbracciava, a lui e a nonno, fra le lacrime e i singhiozzi…».

«Li abbracciava» è accusativo, ma subito dopo «a lui e a nonno» è dativo.

Chiedo: è da considerare un errore oppure quel dativo «a lui e a nonno» serve a rafforzare la frase ed è quindi accettabile?

 

RISPOSTA:

Il costrutto dell’oggetto preposizionale, come abbracciare a qualcuno, è diffuso negli italiani regionali, ma è senza dubbio da evitare in italiano standard, quindi in questo caso lo considererei, se non scorretto, quanto meno inappropriato, a meno che nel romanzo non si voglia riprodurre un parlato regionale. Non c’è dubbio che in molti casi i costrutti preposizionali servano a mettere in evidenza un sintagma, come nel caso di «a me non mi persuade» (comunque da evitare in un italiano non informale), ma in questo caso l’oggetto diretto è più che sufficiente a indicare la messa in rilievo, garantita dal pleonasmo pronominale della dislocazione a destra: «Li abbracciava, lui e nonno»:

Fabio Rossi

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QUESITO:

Avrei bisogno di sciogliere questo dubbio:

1 Si sono cominciate a introdurre nuove regole.

2 Si è cominciato a introdurre nuove regole.

Sono entrambe frasi corrette?

 

RISPOSTA:

Sì, sono entrambe frasi corrette e significano la stessa cosa. La prima è costruita con il si passivante, e dunque letteralmente equivale a «Nuove regole hanno cominciato a essere introdotte». La seconda è costruita con il si impersonale: «Qualcuno ha cominciato a introdurre nuove regole». In Toscana quest’ultima frase avrebbe anche il significato di «Noi abbiamo cominciato a introdurre nuove regole».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

L’ambiguita’ fa parte della bellezza e della frustrazione della lingua italiana dato che la particella <>  puo’ indicare diverse cose. Lo sapevo gia’.
Per evitare questi malintesi, che cosa puo’ consigliarmi? Devo evitare questo uso di ci nelle frasi che le ho girato o devo cambiare i miei interlocutori (scherzo).
Questo tipo di cosa mi succede abbastanza frequentemente anche se provo a fare pratica con gli italiani colti.   A volte mi fa impazzire quando va cosi’.    Vuol dire che la lingua italiana debba essere semplificata?  Forse vuol dire che in questi giorni con la tecnologia, i bombardamenti delle informazioni, non c’e’ tempo per studiare bene la lingua italiana in Italia.  Ne sono molto curioso.
Questo tipo di cosa succede anche tra le madrelingue?   Immagino di si’ dato che la lingua e’ a volte ambigua.  Potrebbe fare un’ipotesi per spiegarmi come mai due dei miei interlocutori non mi abbiano fatto una domanda per farmi chiarire quello che volevo dire con la particella ci???
 

 

RISPOSTA:

Come dice lei, l’ambiguità fa parte di tutte le lingue naturali del mondo. Se così non fosse, ci vorrebbe una quantità infinita di segni (parole, frasi ecc.) per esprimere un rapporto univoco segno / significato, ma la memoria umana non è fato per gestire l’infinito, pertanto ci si deve rassegnare alla polisemia (cioè al fatto che uno stesso segno, parola, frase, abbiano più significati) e all’ambiguità. Ambiguità che peraltro 99 volte su cento il contesto e la collaborazione tra gli interlocutori contribuiscono a limitare. Proprio per questo i suoi interlocutori, in quanto parlanti nativi e attivi, cioè collaborativi, non hanno avuto alcun problema a disambiguare, grazie al contesto, il suo enunciato.
Di casi come questi ne troverà a miliardi, in tutte le lingue del mondo, e non sono un male, bensì un bene delle lingue. Appunto perché consentono di risparmiare le risorse della nostra limitata memoria. La polisemia non ha nulla a che vedere né con lo studio, né con l’imperizia dei parlanti, né con la decadenza, o la semplificazione, delle lingue. Comunque, tutte le lingue tendono alla semplificazione delle risorse.
Quindi dorma pure sonni tranquilli e confidi nella forza del contesto e nello spirito collaborativo dei suoi interlocutori.
Per quanto riguarda (tra i miliardi) altri esempi possibili di polisemia di ci, nei vari contesti, pensi anche a un verbo pronominale come tenerci, che può indicare sia ‘avere interesse per qualcuno o qualcosa’, sia ‘tenere in un luogo’:
1) (riferito a una scatola): ci tengo (nel senso di ‘mi piace molto’)
2) ci tengo le sigarette.

Fabio Rossi

Parole chiave: Avverbio, Pronome
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QUESITO:

Ho una domanda con l’uso della particella CI nelle frasi seguenti:
(1) Grazie per avermici portato.  (ci = in questo posto, ci funziona come un avverbio di luogo)
(2) Una persona mi ha detto di essersi trasferita a Madrid senza aver trovato un lavoro.
 Le ho risposto:  Spero che tu CI abbia portato dei soldi.    
Intendevo “a Madrid” per CI.     E’ come dire” Spero che tu abbia portato li’ dei soldi.
Sto provando a pensare come un italiano.  Quest’esempio e’ una sciocchezza ma provo a caprine di piu’ della ragione per cui suoni male.   E’ una questione del verbo?  E’ locuzione?  Qualcos’altro?
So che non si dice “ci arrivo” per indicare a casa tua…(Ci arrivo ha il significato riuscire).  Ma si dice semplicemente Arrivo, ma si puo’ dire “ci sono arrivato (ci = li’).”  
Potrebbe farmi altri esempi (con altri verbi) in cui la particella CI non sembra corretta in una frase come un avverbio di luogo?

 

RISPOSTA:

Giusto l’esempio 1 e la sua interpretazione.
Anche l’esempio 2 va bene, però le sembra strano perché lì il ci tende a essere interpretato come ‘a noi’ (che peraltro ha la stessa etimologia dell’avverbio di luogo: lat. hicce ‘in questo luogo’, e poi per metonimia, ‘noi che siamo in questo luogo’). Dunque “suona male” non per via del verbo, né per via di “ci”, che è usato correttamente, ma per via del significato più comune di ci = a noi. Può comunque usare la frase esattamente come l’ha formulata lei, col significato di ‘lì’.
Può benissimo usare “ci arrivo” anche per indicare un luogo: “Come ci arrivi a casa mia?” “Ci arrivo con il treno”. Il significato di ‘riuscire’ è ancora una volta un significato traslato, metaforico, che non annulla assolutamente il significato locativo originario. 
Come esempi, può immaginare tutti i casi in cui arrivarci indichi un luogo, come quello che le ho fatto poco fa. Per es. una frase come “Non è difficile arrivarci” è interpretabile soltanto in base al contesto. In un caso può significare ‘a lavoro, a casa tua ecc.’; in un altro caso può significare, nell’italiano informale, ‘non è difficile capire quello che ti sto dicendo’.

Fabio Rossi 

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

‘In questo letto si dormono sonni tranquilli’.
In questa frase è corretto dire che il “si” è passivante e non impersonale?
Il soggetto, infatti, è “sonni tranquilli” (= in questo letto vengono dormiti sonni tranquilli).

 

RISPOSTA:

Sì, il si in questo caso ha valore passivante. La forma attiva è il costrutto con oggetto interno: dormire sonno tranquilli, al passivo: sono dormiti sonno tranquilli, ovviamente del tutto innaturale e impossibile, in questa forma, in italiano. Come sempre, il confine tra il si passivante e il si impersonale è molto labile, dal momento che i costrutti passivi servono proprio, spesso, a mascherare il soggetto, cioè nel caso di espressioni impersonali, come in questo caso: chiunque (cioè un soggetto generico, impersonale) può dormire sogni tranquilli in questo letto.
In conclusione: è un si passivante con valore impersonale.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Su un bando di un concorso artistico ho letto il seguente passaggio:
“Elaborati con cui si sia partecipato a precedenti competizioni non sono ammessi dal presente regolamento”.
Quel si sia dovrebbe ricondursi a un uso impersonale e, se non sbaglio, come tale dovrebbe ammettere l’ausiliare essere.
Per prima cosa: la frase letta sul bando è costruita bene?
Poi: l’uso, in un esempio del genere, dell’ausiliare avere sarebbe stato un errore grave? Nelle costruzioni impersonali l’ausiliare è sempre e comunque essere?

 

RISPOSTA:

La frase da lei riportata è costruita bene. La costruzione impersonale con il pronome si richiede sempre l’ausiliare essere. L’ausiliare avere può emergere in produzioni molto trascurate di parlanti il cui dialetto prevede tale costruzione; essa va considerata scorretta.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La frase
a) “Si sarebbero voluti far guidare dal leader del partito”
è equivalente (e quindi corretta, anche se meno elegante) di
b) “Avrebbero voluto farsi guidare”
o
c) “Avrebbero voluto essere guidati”?

 

RISPOSTA:

La frase a) è semanticamente equivalente alla b), rispetto alla quale si distngue soltanto per l’anticipazione del pronome si, che provoca il cambiamento di ausiliare. L’anticipazione del pronome (o risalita del clitico) è effettivamente una scelta che abbassa leggermente la formalità della frase. La c) è anche molto simile alle altre due, ma la sostituzione di farsi guidare con essere guidati produce un cambiamento di significato: essere guidati è più neutrale di farsi guidare, che implica un maggiore grado di dipendenza del soggetto dalla guida.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Vorrei sapere se l’espressione salutamelo in sostituzione di salutalo a nome mio può essere considerata corretta anche in un linguaggio di registro alto o se va considerata come una espressione informale.

 

RISPOSTA:

Si suppone che in un contesto che richieda un registro alto gli interlocutori si diano del lei, quindi la variante più formale sarebbe lo saluti a nome mio, o persino la prego di porgergli i miei saluti, e così via. Salutalo a nome mio, quindi, si situa a metà strada tra soluzioni più articolate come queste e salutamelo, che è una scelta di media formalità.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Gradirei sapere se è possibile usare i pronomi lui, lei, loro riferendoli a cose o ad animali. Mi suonerebbe piuttosto strano riferirmi ad un gatto usando il pronome esso (o essa  se fosse una gatta) o essi se si tratta di più animali. Lo stesso vale per animali considerati, più o meno a torto inferiori come, per esempio, gli scarafaggi. Così pure mi suonerebbe male parlare di un mobile usando il pronome esso anzichè lui o di più mobili servendomi del pronome essi anzichè usare loro.

RISPOSTA:

I pronomi esso, essa, essi, esse sono usati preferibilmente in riferimento a oggetti inanimati (anche se non è escluso l’uso riferito a esseri animati). Il caso degli animali è problematico, perchè gli animali sono esseri animati, ma generalmente considerati non come individui, bensì come “copie” dello stesso prototipo (per quanto questa convinzione sia discutibile). La scelta del pronome per gli animali, pertanto, è delegata alla sensibilità  del parlante, e non è soggetta a una regola precisa; spesso i parlanti sono indotti a usare lui, lei, loro in riferimento ad animali domestici, con i quali hanno un legame affettivo, e negli altri casi esso, essa, essi, esse, oppure questo ecc. o, quando possibile, nessun pronome o alternative al pronome, come la ripetizione del nome che definisce il genere dell’animale. Va anche detto che esso ;e varianti sono divenuti in generale rari in italiano, per cui in ogni caso i parlanti cercano modi per evitarli.
L’uso di esso e varianti in riferimento a mobili o altri oggetti inanimati non crea nessun problema, a parte, appunto, l’avversione per il pronome ormai raro, a cui vengono preferite sempre alternative come i pronomi dimostrativi, sintagmi nominali o l’omissione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale, Nome, Pronome
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Porto alla vostra attenzione il seguente testo:
“Sarebbero scattate le sanzioni, se si fossero superate le cinque infrazioni annuali del regolamento interno“.
Il si passivante è corretto? “Se si fossero superate“ equivale cioè a “se fossero state superate“? Quest’ultima forma sarebbe stata sostituibile all’altra, senza differenze di rilievo, nell’esempio menzionato?

 

RISPOSTA:

Sì, il si passivante è perfettamente corretto ed equivalente alla forma passiva, che in questo caso andrebbe ugualmente bene nell’esempio da lei fornito, senza scarti stilistici rilevanti.

Fabio Rossi

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nelle seguenti frasi si accorda o no il participio passato con il pronome diretto?

Frase 1:
Il senso dell’umorismo lo ha aiutato  (lui)

Frase 2:
L’ironia lo  ha aiutato    o
L’ironia lo ha aiutata? (lui)
 

RISPOSTA:

Il participio passato si accorda, in questo caso, con il pronome, che esprime il complemento oggetto: dunque, essendo maschile, l’unica forma corretta è al maschile. Se ci fosse “la” come pronome, allora il participio andrebbe al femminile: L’ironia la ha (o l’ha) aiutata (cioè lei, per es. Giulia).
Di norma, il participio passato nei verbi composti o non si accorda (è cioè al maschile indistinto): ti ho scritto una lettera. Oppure si accorda con l’oggetto se è transitivo attivo (l’ho salutata), con il soggetto se è intransitivo (Giulia è andata) oppure transitivo passivo (Giulia è stata promossa).

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Propongo questa frase: “Oggi sto bene, a differenza di ieri che avevo 38 di temperatura”. Quel che può essere accettato o è indispensabile sostituirlo con quando

 

RISPOSTA:

Si tratta di un che polivalente (sul quale può leggere la risposta n. 2800522 dell’archivio di DICO), molto frequente nella varietà di lingua usata comunemente nel parlato e nello scritto informale. In una frase come questa, quindi, è accettabilissimo. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Registri
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella frase seguente:
“A proposito di quello che si insegna nelle aule di medicina e CHE né Tizio, né Caio né Sempronio sembrano esserne a conoscenza”
ovviamente sarebbe stato meglio scrivere di cui al posto di che: ma è proprio sbagliato?

 

RISPOSTA:

Nella frase il pronome relativo indiretto è sostituito dalla forma base che; la funzione sintattica persa a causa della sostituzione è recuperata inserendo il secondo pronome, ne, nel corpo della frase (esserne). La variante standard, quindi, richiede in cui al posto di che e essere al posto di esserne…e di cui né Tizio, né Caio né Sempronio sembrano essere a conoscenza.  
Costruzioni come questa sono sempre più comuni nell’italiano contemporaneo (la persona che te ne ho parlato = di cui ti ho parlatola festa che non ci sono andato = alla quale non sono andatoil collega che ci ho pranzato insieme ieri = con cui / insieme a cui ho pranzato ieri ecc.), favorite dal vantaggio di usare i pronomi che e tutti quelli personali, ad alta funzionalità, quindi più facili da ricordare e scegliere correttamente per i parlanti, al posto delle forme indirette del pronome relativo, a bassa funzionalità, quindi più complicate. Non solo non sono previste dallo standard, ma comportano un uso dei pronomi contrario alle regole della sintassi; per questo sono da considerarsi trascurate e da evitare in contesti anche di media formalità.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Registri, Sintassi marcata
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QUESITO:

Quali forme del pronome dovrei usare nelle frasi seguenti?
“I ragazzi di oggi sono quello/quelli che sono”.
“Tu, figlia mia, sei quello/quella che tutti vorrebbero”.
Il pronome quello tanto nel primo quanto nel secondo esempio potrebbe essere valutato quale sinonimo di ciò?

 

RISPOSTA:

Proprio così: quello può avere la funzione (più che il significato) di pronome neutro, equivalente a ciò o la cosa. Per questo motivo nelle prime due frasi vanno bene sia quello sia il pronome concordato con il sintagma di cui è anaforico. La scelta, però, modifica il significato della frase:
“I ragazzi di oggi sono quello che sono” = ‘sono la cosa che sono, non ci si può aspettare altro da loro’ (con una sfumatura negativa, di critica).
“I ragazzi di oggi sono quelli che sono” = ‘sono proprio così, non li si può cambiare’ (con una sfumatura positiva).
Nella seconda coppia di frasi è decisamente preferibile quello:
“Tu, figlia mia, sei quello che tutti vorrebbero” = ‘sei il sogno di chiunque’.
“Tu, figlia mia, sei quella che tutti vorrebbero” = ‘sei la ragazza che tutti sceglierebbero all’interno del gruppo’. Quest’ultima frase suona innaturale dal punto di vista testuale, perché quella evoca un gruppo, o una coppia, che è stato già introdotto nel discorso, per cui, visto che già è stato detto che c’è un gruppo tra cui scegliere, ci si aspetterebbe una forma come “Sei tu, figlia mia, quella che tutti vorrebbero”, con enfasi su sei tu, non su quella che tutti vorrebbero. Per un giudizio più preciso, però, bisognerebbe inserire la frase in un contesto più ampio.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Volevo sapere se nella seguente frase fosse corretto l’uso di esternarmi, o se è meglio usare esternare

In sostanza: non ti fai problemi a esternarmi il tuo lato rustico e primitivo.

 

RISPOSTA:

Esternarmi, che si distingue da esternare perché ha il pronome mi integrato (esternarmi = esternare a me), è corretto. Alternative pure valide sono manifestarmimostrarmirivelarmisvelarmi.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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QUESITO:

Come già chiarito in passato, nonostante alle scuole mi abbiano insegnato che
quando si dal del Lei ad una persona si accorda al femminile (es. “Signor Verdi la
vedo stanca), Lei mi ha insegnato che al giorno d’oggi è consentito l’accordo al
maschile anche quando si da del Lei (es. “Signor Verdi La vedo stanco)…
Io sono d’accordo con Lei e la ringrazio per questo suo chiarimento, tuttavia
alcuni insegnanti di lettere miei amici dicono che accordare al maschile “la vedo
stanco” sia errato.
Ribadisco che invece io sono d’accordo con Lei.
Cosa ne pensa di questi insegnanti?
Volevo porLe una domanda ancora:
dando appunto del Lei ad una persona di sesso maschile, si dice “Signor Verdi
l’avrei chiamata o l’avrei chiamato?”

 

RISPOSTA:

Come giustamente ricorda Lei, sebbene l’accordo grammaticale richieda il femminile con l’allocutivo di cortesia Lei, l’italiano comune prevede che, per gli aggettivi connessi a un destinatario maschile, si violi l’accordo preferendo il maschile al femminile. Tuttavia questo non può accadere per l’accordo del participio passato, dal momento che l’accordo al maschile lascerebbe intendere, erroneamente, che ci si riferisse, non deitticamente, a qualcuno diverso dall’allocutario. Infatti, nell’esempio da Lei fornito, “Signor Verdi l’avrei chiamata” è l’unica forma corretta per rivolgersi all’uomo cui ci si sta rivolgendo, laddove, invece, “l’avrei chiamato” si riferirebbe ad altro uomo esterno alla conversazione. Naturalmente, in caso di allocutaria, il fraintendimento rimane, sebbene nel contesto dialogico l’interpretazione preferenziale sia sempre quella del riferimento alla persona cui si sta dando del Lei: “Signora l’avrei chiamata”. Ovviamente sarebbe la stessa forma anche se il “chiamata” si riferisse ad altra persona: “L’avrei chiamata, sua figlia”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Nella frase “grazie all’eredità, mi sono comprata una casa”, è corretto dire che MI (anche se è un pronome personale  ridondante, sconsigliato in contesti formali) è un complemento di vantaggio?

 

RISPOSTA:

Sì, se vogliamo rimanere a tutti i costi nei ranghi dell’analisi logica tradizionale, schiacciati dall’ottica un po’ asfittica della nomenclatura dei complementi.
Se invece vogliamo allargare il nostro sguardo all’analisi sintattica un po’ più profonda, in grado di spiegare il funzionamento dei verbi e dei loro argomenti nelle frasi e nei testi reali, possiamo dire che comprarsi è un verbo transitivo pronominale, nel quale la particella pronominale atona svolge il ruolo di argomento del verbo, cioè completa la valenza del verbo trivalente comprare usato nella versione pronominale comprarsi: soggetto + oggetto + argomento preposizionale (a me, a te, a sé ecc.).
Il tipo comprarsi una casa è adatto a tutti i tipi di contesto, non soltanto a quelli informali, e il pronome non è affatto pleonastico. Infatti ho comprato una casa e mi sono comprato (o compratauna casa sono due costruzioni diverse, la prima col verbo comprare, la seconda col verbo pronominale comprarsi, quasi sinonime ma sintatticamente diverse, al punto tale da richiedere due diversi ausiliari: avere il primo, essere il secondo,.  

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri, Verbo
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QUESITO:

Desidero sottoporre alla vostra attenzione un altro testo dei miei. Volevo
sapere se questo testo fosse ben scritto (anche a livello della
punteggiatura) e se è necessario migliorare il riferimento
pronominale. Inoltre volevo sapere se nel testo si intuisce che la ragazza
si tiene il naso tappato dal momento in cui mi ci infila dentro fino a che
non raggiunge la sua abitazione. Per quanto riguarda l’ultima frase, volevo
sapere se questa fosse ben scritta, oppure se posso formularla ancora
meglio. In altre parole, ciò che voglio dire è che la ragazza fa le ultime
due azioni per tirarmi fuori dal suo naso.

*Successivamente provi ad acciuffarmi, però non ci riesci: sono troppo
piccolo. Ritenti una seconda volta e anche una terza, ma non c’è verso: è
troppo complicato per te. Tuttavia non ti arrendi, e alla fine, dopo aver
fatto quasi l’impossibile, hai successo: a questo punto usi le dita per
infilarmi nel tuo naso; dopodiché continui a tenerti sempre il naso tappato
per intrappolarmici dentro. Ormai non perdi più altro tempo ed esci di
soppiatto dal mio appartamento, e cammini a passo spedito verso casa tua:
che è lontanissima dalla mia. Non appena arrivi, entri subito in camera tua
e chiudi la porta della stanza. Adesso usi sempre le tue stesse dita per
tirarmi fuori dal tuo naso, così come provi a soffiarti, di nuovo, il naso
con la mano: una volta che mi hai espulso fuori da quello, non fai
nient’altro che posarmi con estrema delicatezza sul cuscino del tuo letto.*

Vi ringrazio come sempre per i vostri preziosi suggerimenti. Ne sto facendo
tesoro, e posso dire che grazie ai vostri consigli sto evitando un sacco di
errori. Ancora grazie per il magnifico servizio che offrite.

 

RISPOSTA:

I riferimenti pronominali sono corretti e quanto vuole esprimere si capisce benissimo. Forse si potrebbero migliorare un paio di cose che segnalo sotto nel testo tra parentesi quadre. Ciò che contribuirebbe a rendere il testo un po’ meno faticoso, tra l’altro, è l’eliminazione dei continui aggettivi possessivi tuo: è ovvio che una parte del corpo (naso) sia della persona di cui si fa riferimento, non c’è alcun bisogno di sottolinearlo, di norma. Questa abitudine (sbagliata) di dire continuamente mio nasotue mani ecc. è invalsa dall’inglese (per es. del doppiaggio), in cui invece i possessivi sono sempre obbligatori: my nosemy fingermy house ecc.
Ecco qui il brano con alcune proposte di correzione:

Successivamente provi ad acciuffarmi, però non ci riesci: sono troppo piccolo. Ritenti una seconda volta e anche una terza, ma non c’è verso: è troppo complicato per te. Tuttavia non ti arrendi, e alla fine, dopo aver fatto quasi l’impossibile, hai successo: a questo punto usi le dita per infilarmi nel tuo naso [qui tuo è corretto ed efficace, perché in effetti il contesto è davvero insolito: complimenti per la vivida fantasia!]; dopodiché continui a tenerti sempre il naso tappato per intrappolarmici dentro. Ormai non perdi più altro tempo ed esci di soppiatto dal mio appartamento, e cammini a passo spedito verso casa tua: [qui sarebbe meglio una virgola al posto dei due punti] che è lontanissima dalla mia. Non appena arrivi, entri subito in camera tua e chiudi la porta della stanza. Adesso usi sempre le tue stesse dita per tirarmi fuori dal tuo [eliminare tuo: ormai è chiaro di chi sia il naso] naso, così come provi a soffiarti, di nuovo, il naso con la mano: una volta che mi hai espulso fuori da quello [da quello è inutile e pesante: eliminarlo!], non fai nient’altro che posarmi con estrema delicatezza sul cuscino del tuo [sta a casa sua, è ovvio che il letto sia il suo: eliminare suo] letto.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Mi capita spesso  di sentire espressioni tipo “Mi devo andare a preparare per l’esame” al posto di “Devo preparami/mi devo preparare per l’esame”. La prima forma è ugualmente accettabile?

 

RISPOSTA:

Colloquiale ma accettabile senza dubbio. Si tratta di verbi fraseologici, o aspettuali, che accompagnano il verbo principale per qualificare meglio il tipo di azione (tecnicamente, l’aspetto), e, come in questo caso, quasi per attenuarne un po’ il senso generale: sono in procinto di prepararmimi sto preparandomi metto a preparare e simili.
In certi contesti, l’uso di andare può essere anche richiesto per esprimere un significato diverso: “ora torno a casa perché devo andare a prepararmi per l’esame”, che aggiunge l’idea di andarsene da un posto verso un altro al fine di prepararsi all’esame.
Altre volte ancora, ma non è questo il caso, il verbo andare ha altri usi fraseologici sempre colloquiali e attenuativi, quasi a prendere tempo mentre si pensa a che cosa dire: “Andiamo ora a spiegare il teorema di Pitagora”: che non aggiunge nulla rispetto a “Ora spiegheremo/spieghiamo il teorema di Pitagora”.
Quanto alla posizione del clitico o particella pronominale atona (mi), essa è libera, in casi simili, e dunque vanno bene sia “mi devo/debbo andare a preparare”, sia “devo/debbo andare a prepararmi”, sia “devo/debbo andarmi a preparare”.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho scritto un paio di frasi della cui correttezza non sono certa:
“La strada era bagnata: la pioggia ne ricopriva il fondo”
(=la pioggia ricopriva il fondo della strada)
“La cucina era sporca: polvere e residui di cibo ne rivestivano la sommità del piano cottura”
(=polvere e residui di cibo rivestivano la sommità del piano cottura della cucina).
Il pronome “ne” nei due esempi – di cui, per chiarezza, ho riportato tra parentesi una sorta di parafrasi – è ben impiegato?
 

RISPOSTA:

Sì, è ben impiegato in entrambi i casi.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vi propongo questa costruzione:
“Il messaggio a cui hai allegato il documento di cui abbiamo già discusso è datato 4 giugno”.
Ho un dubbio su questa – passatemi l’espressione – “relativizzazione doppia”: si può inserire, all’interno del medesimo periodo, un rimando al soggetto (a cui) e uno al complemento (di cui)?
 

 

RISPOSTA:

Sì, si può, è un po’ pesante ma non c’è nessuna regola che lo vieti. Due pronomi relativi possono tranquillamente riferirsi a elementi diversi ed essere in casi diversi.
Per semplificare il testo si potrebbe scrivere così, trasformando una relativa in un complemento:
“Il messaggio con allegato il documento di cui abbiamo già discusso è datato 4 giugno”.
Oppure ancora (con un che al posto di a cui):
“Il messaggio che allegava il documento di cui abbiamo già discusso è datato 4 giugno”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome
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QUESITO:

Le sarei molto grato se mi chiarisse un dubbio relativo a questa frase: “Era sempre solo. Amici non ne aveva”. Quel “ne”, che sento usare regolarmente in frasi di questo tipo, mi suona bene, però  mi lascia
perplesso perché dovrebbe stare per “di amici”, ma allora la frase diventerebbe: “amici non di amici aveva”. Una affermazione insensata. Gradirei sapere se quel “ne” è da considerarsi corretto.
 

 

RISPOSTA:

Il costrutto, tipico dell’italiano informale e colloquiale e dunque non scorretto in assoluto  ma sicuramente inadatto all’italiano formale, si chiama “tema sospeso” e consiste nel riportare il tema, o topic, dell’enunciato all’inizio per poi riprenderlo mediante un clitico, ovvero particella pronominale atona. Naturalmente il clitico è pleonastico e il tema qui non ha valore di soggetto bensì di complemento oggetto (duplicato da ne). Molto prossimo a questo costrutto è un altro, sempre di anticipazione del tema, o topicalizzazione, denominato “dislocazione a sinistra”: “di amici non ne aveva”.
Il corrispettivo formale, o quantomeno non informale, delle due espressioni è “non aveva amici”.

Fabio Rossi
 

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho ricevuto un messaggio che continua a non convincermi:
“Mi sono messo a farmi la barba”. Io credo che sia errato, in quanto c’è un doppio pronome (mi e farMi).
Pensando alla stessa frase con un diverso complemento però la frase tornerebbe:
“mi sono messo a fargli la barba”.
Quindi nel primo caso cosa potrebbe essere a non convincermi?? Oltre che suonare male sono convinta che ci sia qualcosa che non torni grammaticalmente.
 

 

RISPOSTA:

Si è già data da sé la risposta giusta: visto che non altro pronome l’espressione funzionerebbe perfettamente, vuol dire che non c’è nulla di sbagliato. Il fatto che vi siano due pronomi personali (e tutti e due di prima persona) deriva dal fatto che si stanno usando due verbi pronominali, entrambi alla prima persona: il primo è il verbo aspettuale mettersi, il secondo il verbo riflessivo apparente (o meglio transitivo pronominale) farsi la barba. Nulla di strano, dunque. Non si lasci trasportare dall’idiosincrasia dell’orecchio che rifiuta la ripetizione del mi: le lingue non funzionano a orecchio e l’insofferenza per la ripetizione è un insano portato di una didattica distorta.
Del resto, per avere prove ulteriori, che cosa ci sarebbe di strano nella frase “mi è capitato di perdermi”?

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Quali delle seguenti varianti sono corrette?

“Grazie per averci supportato”.
“Grazie per averci supportati”.

“Il geometra Federica”.
“La geometra Federica”.

 

RISPOSTA:

Nella prima coppia entrambe le varianti sono corrette. L’accordo del participio passato di un verbo transitivo con il complemento oggetto è obbligatorio quando il complemento oggetto è rappresentato dai pronomi lolalile, che esprimono morfologicamente il genere (quindi grazie per averla supportata ma non *grazie per averla supportato); con miticivine, invece, si può scegliere se accordare il participio con il genere del referente del pronome o no (oltre al suo esempio, si veda un caso come questo: “Siamo le sorelle Rossi: ci ha accompagnato / accompagnate nostro padre”).
Nella seconda coppia la forma corretta è la geometra Federica; il nome geometra, infatti, è di genere comune, o epiceno (come atletaartistacolleganipote e tanti altri) e si accorda al genere del suo referente grazie alla modulazione dell’articolo o di un aggettivo che lo accompagna (atleta talentuosa).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nelle seguenti frasi ci sono proposizioni relative; in tutte e tre le frasi c’è la sfumatura di eventualità (e forse ipotetica nella prima):
“Si può dire che cosa rischiano i lavoratori che dovessero portare avanti la mobilitazione nonostante questo avviso?”.
“Chiedo alle persone che conoscessero (anche conoscano) già la risposta di restare in silenzio”.
“Non mi piacerebbe un cagnolino che non mi venisse incontro quando rientro a casa”.
Le mie domande:
1. il pronome relativo che in tutte e tre le frasi è improprio?
2. Quando troviamo una proposizione relativa che con un verbo al congiuntivo, il relativo è sempre considerato improprio?
3. Se la risposta è sì, penso che ci siano soltanto due possibilità: valore finale o valore consecutivo. Giusto?
Ho delle difficoltà a individuare una che improrio con valore consecutivo: è più facile per me individuare un valore finale. Quindi mi domando:
1. quando c’è un congiuntivo nella proposizione relativa, non è possibile considerare il che un relativo proprio? 
2. Quando una proposizione con un che relativo ha il verbo al congiuntivo e sicuramente non ha valore finale, posso concludere che è una consecutiva?
3. Se la risposta è sì, possiamo concludere che le relative in queste due frasi hanno valore consecutivo?
“Non c’è niente che tu possa fare”.
“Marco è il ragazzo più simpatico che io conosca”.

 

RISPOSTA:

Innanzitutto bisogna ricordare che il pronome che non è mai detto improprio. In tutte le frasi da lei proposte (tranne l’ultima, come vedremo alla fine) ha sempre la funzione di pronome relativo, e tale funzione non può che essere propria. Sono, piuttosto, le proposizioni relative nel loro complesso a essere definite da alcuni improprie quando assumono un significato non esattamente relativo, ma assimilabile a quello di altre proposizioni. L’etichetta improprio, si noti, non è precisa, perché fa pensare che ci sia qualcosa di sbagliato nella costruzione di queste proposizioni, che invece sono del tutto regolari. Le proposizioni relative con un significato vicino ad altre proposizioni possono essere:
consecutive (cerco un centro di gravità permanente che [= tale che] non mi faccia mai cambiare idea, cantava Franco Battiato nella canzone Centro di gravità permanente);
causali (ho prestato a Luca il libro che mi [= perché me loaveva richiesto con insistenza);
concessive (Luca, che [= anche se] non voleva venire, alla fine si è divertito.
Per quanto riguarda il significato finale, esso è di solito contemplato nelle grammatiche, ma, come dice lei, è quasi indistinguibile da quello consecutivo. Per semplicità, si può parlare di significato consecutivo-finale.
Come si può vedere, l’interpretazione speciale della proposizione relativa non è collegata al modo congiuntivo: le relative con significato causale e consecutivo, infatti, richiedono l’indicativo. Inoltre, l’uso del congiuntivo nella proposizione relativa non produce necessariamente un significato speciale, ma a volte serve soltanto a elevare il registro della frase. È il caso della prima delle sue ultime frasi, nella quale il significato non cambia se sostituiamo il congiuntivo con l’indicativo (“Non c’è niente che puoi fare”), anche se l’antecedente indefinito niente fa propendere senz’altro per il congiuntivo nella relativa. L’ultima frase, invece, contiene non una proposizione relativa, ma una comparativa, che serve a esprimere il secondo termine di un paragone ed è introdotta dalla congiunzione (non dal pronome) che. Per la precisione, anche nella proposizione comparativa il congiuntivo serve a elevare il registro; se lo sostituiamo con l’indicativo il significato non cambia: “Marco è il ragazzo più simpatico che conosco”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nelle seguenti costruzioni il termine altrettanto è ben impiegato? Nel primo esempio, in particolare, il verbo essere costituisce una variante valida?
– Sono stata onesta con te: tu vedi di essere / fare altrettanto con me.
– Io sono tranquilla, ma non so se potrei dire altrettanto di te.

 

RISPOSTA:

Le frasi, in cui altrettanto ha la funzione di pronome indefinito, sono ben costruite; per averne la prova si può sostituire altrettanto con la stessa cosatu vedi di fare la stessa cosa con menon so se potrei dire la stessa cosa di te. Se sostituiamo fare con essere nella prima frase otteniamo la frase tu vedi di essere altrettanto con me, che è in astratto ben costruita (equivale a tu vedi di essere la stessa cosa con me), ma un po’ forzata e difficilmente accettabile, perché assimila un modo di essere a una cosa. La frase diventa accettabile aggiungendo un pronome di ripresa: tu vedi di esserlo altrettanto con me; in questo modo il pronome lo riprende onesta e altrettanto diviene un avverbio, equivalente a ‘nella stessa misura’.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Si dice come tu o come te
Esempio: “le persone che hanno fatto bene le attività, come tu / te, avranno un premio”.

 

RISPOSTA:

Si dice come te. Il pronome tu si usa solo quando funge da soggetto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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QUESITO:

È corretto dire PENSAVI CHE ME LO RUBASSI ? O la forma corretta é solo TE LO RUBASSI?

 

RISPOSTA:

Entrambe le forme sono corrette, ma hanno un significato leggeremente diverso e sono adatte a contesti diversi. Nella prima il verbo usato è rubarsi, un verbo pronominale che ha quasi lo stesso significato di rubare, a cui aggiunge, però, una rappresentazione accentuata dell’interesse del soggetto, del vantaggio che gli deriva dall’azione. Si noti che in questa frase manca l’indicazione della persona potenzialmente derubata, che quindi potrebbe essere chiunque, non per forza la seconda persona della seconda frase. L’esplicitazione sintetica della persona potenzialmente derubata con questo verbo è, del resto, impossibile: non è possibile *rubarsi qualcosa a qualcuno.
Nella seconda frase il verbo usato è rubare e te indica, appunto, la persona potenzialmente derubata.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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QUESITO:

“Entro stasera bisogna che il capoufficio mi chiami/mi abbia chiamato.”
“Entro stasera bisognerebbe che il capoufficio mi chiamasse/mi avesse chiamato.”
Se le due varianti proposte per ognuna delle frasi sono corrette, domando:
le forme verbali in questi casi sono riconducibili alla consecutio (abbia chiamato e avesse chiamato sono rispettivamente anteriori a bisogna e bisognerebbe), oppure indicano il grado di probabilità dell’evento (abbia chiamato e avessi chiamato sono meno probabili rispetto a chiami e chiamasse)?

 

RISPOSTA:

Il verbo bisognare (e analoghi: è necessariorichiesto ecc.) regge una completiva che ha due marche di subordinazione: il connettivo che (talora omesso) e il congiuntivo, che nel registro meno formale può tranquillamente sempre essere sostituito dall’indicativo. Il congiuntivo, pertanto, retaggio di antiche reggenze latine, serve a indicare la subordinazione e non il grado di eventualità (come erroneamente detto dalle grammatiche), tranne in alcuni ovvi casi come il periodo ipotetico ecc. (ma su questo troverà ampia documentazione nel nostro archivio delle risposte DICO digitando la parola congiuntivo). La completiva retta da bisogna non ha bisogno (scusi il gioco di parole) di specificare finemente il tempo dell’azione rispetto alla reggente; in altre parole, da adesso (momento dell’enunciazione, ovvero di chi dice bisogna) a quando l’enunciatore/trice ritiene che “bisogni”, l’azione si esprime di norma al presente (o all’imperfetto in dipendenza da bisognava). Oltretutto, nel suo esempio, l’azione della chiamata non è anteriore, bensì posteriore alla reggente (bisogna adesso), ma è semmai anteriore rispetto alla circostanza posta dallo/a stesso/a enunciatore/trice (entro stasera). Motivo per cui, a maggior ragione, non c’è alcun bisogno di utilizzare il passato (mi abbia chiamato / mi avesse chiamato), né c’entra nulla l’eventualità; come ripeto, infatti, il congiuntivo è richiesto (nello stile formale) come marca di subordinazione, non come indicazione di eventualità (bisogna, oltretutto, esprime la necessità non certo l’eventualità, sebbene non sia certo se la persona chiami o no). Quindi, la consecutio temporum non richiede affatto il passato e l’azione espressa al presente (o all’imperfetto) rappresenta l’alternativa migliore. Possiamo dunque dire che l’alternativa mi abbia / avesse chiamato sia (o è) scorretta? Non direi: con la lingua si può fare quasi tutto quel che si vuole e pertanto se un/a parlante sente l’esigenza di esprimere l’azione come anteriore vuol dire che la lingua gli/le consente di farlo, però mi sento di affermare che la soluzione al passato / trapassato sia / è meno appropriata, soprattutto a un contesto formale.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Avendo io dimenticate le buone regole nonché avendone perso l’uso “ad orecchio”, mi trovo a non esser più capace di stabilire qual è l’ausiliare giusto in una frase di questo tipo:

[…] se si ha/è coltivato un campo e si ha/è attraversato un ponte [eccetera].

Inoltre: sarebbe corretto impiegare in quella stessa frase prima il verbo avere (ha coltivato) e subito dopo il verbo essere (è attraversato)?
 

 

RISPOSTA:

Con la particella pronominale si non è ammesso l’ausiliare avere, ma soltanto essere. Pertanto l’unica forma corretta della frase proposta è: “… se si è coltivato un campo e si è attraversato un ponte…”.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Credo sia corretto dire: “Sei tu che mi ispiri”, ma forse è preferibile il verbo in terza persona: “Sei tu che mi ispira”. Quale frase è consigliabile?

 

RISPOSTA:

La difficoltà nella scelta della persona della proposizione subordinata deriva dalla natura incerta di questa proposizione. Essa, infatti, non è propriamente una relativa, diversamente da quello che si può pensare. Se fosse una relativa, non avremmo dubbi nello scegliere la terza persona, perché il pronome relativo sarebbe senz’altro preceduto da un antecedente alla terza persona; per esempio: “Tu sei quello che mi ispira”. Nella sua frase, invece, la proposizione è di tipo pseudorelativo, simile a una relativa ma in realtà più prossima a una completiva. In questo tipo di proposizione che non è un pronome relativo, ma una congiunzione, come dimostra il fatto che è invariabile: “È a te *a cui ho dato la penna” (corretto: “È a te che ho dato la penna”). Come conseguenza, che non ha un vero e proprio antecedente nella reggente e anche quando sembra fungere da soggetto della proposizione subordinata, come nel suo caso, non può svolgere questa funzione. Il soggetto della subordinata, pertanto, sarà o espresso nella subordinata (per esempio “È lui che ho visto”) oppure sarà lo stesso della reggente, come nel suo caso: “Sei tu che mi ispiri”. A ulteriore dimostrazione della correttezza di questa scelta, si noti che la subordinata può anche essere costruita con l’infinito, proprio perché ha come soggetto lo stesso della reggente: “Sei tu a ispirarmi”. 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi sono imbattuto nella seguente frase: “Passione e dedizione di cui tutti dovremmo farne tesoro”. A me sembra che la formulazione corretta dovrebbe escludere la particella ne e si dovrebbe pertanto scrivere “passione e dedizione di cui tutti dovremmo fare tesoro”. Mi sbaglio?

 

RISPOSTA:

Non si sbaglia affatto. La duplicazione della particella pronominale, comune e tutto sommato accettabile in contesti parlati informali, nei quali assolve alla funzione di richiamare il tema rafforzando il poco trasparente pronome relativo di cui, non trova giustificazione nello scritto, specie formale o specialistico, e deve pertanto essere evitata.
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

È possibile accordare il pronome indefinito qualcosa a un aggettivo femminile?
“Cerco qualcosa bella” è completamente sbagliato?

 

RISPOSTA:

L’accordo al femminile è sbagliato, perché qualcosa è maschile sia come pronome, sia come nome (un qualcosa, non *una qualcosa). Bisogna dire che tale errore è molto comune, perché i parlanti riconoscono il nome femminile cosa all’interno di questa parola e sono tratti in inganno; rimane, però, sicuramente un errore. 
Fabio Ruggano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

orrei chiedere se queste frasi con il pronome NE ma senza la quantità e con la  concordanza del participio sono giuste o no:

Hai comprato del vino?              Sì, ne ho comprato.
Hai comprato della pasta?         Sì, ne ho comprata.
Hai comprato dei pomodori?     Sì, ne ho comprati.
Hai comprato delle mele?         Sì, ne ho comprate.

 

RISPOSTA:

Sì, sono corrette e sono migliori e più formali rispetto alle rispettive forme non accordate (cioè: ne ho comprato, per tutte e cinque i casi).

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quali verbi sono corretti tra le proposizioni seguenti? 
“Tutti gli abitanti avevano paura che se non lo avessero pagato subito si arrabbiava/sarebbe arrabbiato e distruggeva/avrebbe distrutto tutto”.

 

RISPOSTA:

Come al solito l’uso del congiuntivo/condizionale oppure dell’indicativo nel periodo ipotetico della possibilità e dell’irrealtà non attiene tanto alla correttezza, quanto alla formalità della frase. L’uso del congiuntivo/condizionale è più formale (e dunque sempre suggeribile), mentre quello dell’indicativo è limitato ai discorsi più informali. Nel suo caso, inoltre, si tratterebbe, con l’indicativo nella sola apodosi, di un periodo ipotetico misto, con la soluzione formale (congiuntivo) nella protasi e quella informale (indicativo) nell’apodosi. Tale mistura, ancorché attestata e possibile nei casi più informali, è decisamente da evitare. Pertanto, nel periodo ipotetico dell’irrealtà da lei proposto, è da preferire senza dubbio alcuno la soluzione seguente:
“Tutti gli abitanti avevano paura che se non lo avessero pagato subito si sarebbe arrabbiato e avrebbe distrutto tutto”.
Aggiungo che, essendo il soggetto riferito a qualcuno che nella proposizione è un complemento oggetto (lo), sarebbe meglio non lasciare sottinteso il soggetto, ma esprimerlo esplicitamente o con un pronome (lui) o con una forma piena (l’uomo ecc.).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Nella frase: “quel quartiere è pericoloso: restane lontano”, lontano è complemento
predicativo del soggetto o complemento di luogo?

 

RISPOSTA:

Lontano è predicativo del soggetto, mentre la particella pronominale atona (clitica) ne (= da quel luogo) è complemento di moto da luogo.
Che luogo abbia qui valore di aggettivo e non di avverbio è confermato dal fatto che deve accordarsi col soggetto: resta lontana, restate lontani/e ecc.
In una frase in cui lontano avesse valore di avverbio (es. andiamo lontano), esso sarebbe allora complemento di luogo (in questo caso moto a luogo).

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Se devo chiedere ad una persona quanto bene vuole a loro, quale delle seguenti due domande è corretta?
Quanto li vuoi bene?
Quanto gli vuoi bene ?
Se è riferito a lui sono quasi sicuro che che vada bene la seconda domanda, ma se è riferito a loro forse va bene la prima domanda
 

 

RISPOSTA:

Gli = a lui
le = a lei
loro o a loro = a più persone (plurale), nella lingua formale
gli = a più persone (plurale), nella lingua informale
li = solo per il complemento oggetto. Es.: “li vedo” (cioè vedo loro, quelle persone là), o, al femminile, “le vedo”.
Quindi, dato che volere bene (a qualcuno) regge il complemento di termine e non il complemento oggetto, si può usare soltanto “loro” o “a loro”, nello stile formale, oppure “gli” nello stile informale.
In conclusione, sia per il plurale sia per il singolare:
“li vuoi bene” è errato
“gli vuoi bene” è corretto.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri, Verbo
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QUESITO:

Oggi ho tradotto una frase dall’inglese all’italiano: “Compare It with what you are learning” > “Mettilo a confronto con quello che stai imparando”.
Mi è stata posta la domanda perché ho usato due parole per tradurne una: what, mi sono resa conto che non so dare una spiegazione grammaticale. Esattamente perché usiamo quello che?

 

RISPOSTA:

Ovviamente non c’è niente di insolito nel fatto che due lingue esprimano in modo diverso lo stesso concetto. In questo caso specifico, in italiano si preferisce esprimere analiticamente, cioè con più di una parola, una funzione sintattica che in inglese è preferenzialmente sintetica, cioè espressa con una sola parola. La funzione in questione, in effetti, è duplice, ovvero sono due funzioni: la prima è quella di completamento del sintagma preposizionale introdotto da con, la seconda è quella di introduttore della proposizione relativa. Ecco spiegato perché in italiano troviamo la sequenza di due pronomi (quello che, o ciò che), oppure di un sintagma nominale e un pronome (la cosa / le cose che).
Visto che le funzioni sono due, quindi, la sorpresa non è che in italiano ci siano due parole, ma che in inglese ce ne sia una sola. Per la verità, comunque, neanche questa è una sorpresa, perché la possibilità di raggruppare il pronome che fa da antecedente del relativo e il relativo stesso è comune, tanto che esiste anche in italiano (ma è meno frequente); la traduzione da lei proposta, infatti, avrebbe potuto essere “Mettilo a confronto con quanto (= quello che) stai imparando”. Il pronome quanto è uno dei relativi doppi, o misti, e funziona proprio come what; accanto a questo esiste chi, riferito a persone, equivalente a who: “I don’t know who you are” > “Non so chi (= la persona che) sei”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Si dice non le riguarda o non la riguarda?

 

RISPOSTA:

Il verbo riguardare è oggi quasi esclusivamente transitivo, quindi una cosa riguarda qualcuno non a qualcuno. Per questa ragione si dice non la riguarda (ovvero non riguarda lei), non *non le riguarda (ovvero *non riguarda a lei).
Quando, però, la persona è anticipata rispetto al verbo, la costruzione diretta appare molto strana (perché la persona sembra essere il soggetto del verbo), tanto che può essere considerata addirittura scorretta; per esempio “Mia madre non riguarda quello che faccio”. In questi casi è giustificato usare il cosiddetto complemento oggetto preposizionale: “A mia madre non riguarda quello che faccio”. Se la persona è rappresentata da un pronome personale, si può anche legittimamente ricorrere alla ripresa pronominale: “A te non ti riguarda quello che faccio”, o soltanto “Non ti riguarda quello che faccio” (ma “Quello che faccio non ti riguarda / riguarda te”). Con il pronome relativo entrambe le costruzioni sembrano forzate (“La persona a cui / che riguarda quello che faccio non sei tu”), sebbene in astratto quella da usare è a cui riguarda. In questi casi questo verbo viene sempre sostituito con un sinonimo come interessare o importare, che richiedono il complemento indiretto introdotto da ala persona a cui interessa / importa…
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Nel periodo “Tale materiale si trova anche in una cartellina che  prenderò io all’ingresso del
palazzo e che lascerò in ufficio”, nell’ultima frase è meglio scrivere “e che lascerò in ufficio” oppure “e lascerò
in ufficio”. Il secondo “che” ha funzione di pronome o congiunzione?

 

RISPOSTA:

Il secondo che è un pronome relativo esattamente come il precedente, e si riferisce a cartellina; può essere omesso. Ogni qual volta vi sono due pronomi relativi a breve distanza e riferiti al medesimo referente il secondo che può essere sottinteso. Le due alternative, con il secondo che espresso oppure sottinteso, sono identiche, senza alcuna differenza di registro.
Un trucchetto ingenuo ma utile per riconoscere la differenza tra che pronome e che congiunzione è provare a sostituire che con il quale: se la sostituzione funziona (cioè se dà luogo a una frase di senso compiuto), che è pronome; se non funziona, che è congiunzione.
“… Si trova in una cartellina la quale lascerò in ufficio”, ancorché faticosa (nessuno userebbe la quale con valore di oggetto, in questo caso), funziona e si comprende. Se fosse: “penso che la lascerò in ufficio”, la sostituzione “penso la quale lascerò in ufficio” non funziona, e infatti in quest’ultimo caso il che ha valore di congiunzione (o complementatore) completiva, cioè che introduce una subordinata oggettiva.

Fabio Rossi

 

Parole chiave: Congiunzione, Pronome
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QUESITO:

Nella frase: “sia i lacci che i nodi sono ENTRAMBI…”,
entrambi può essere ritenuto corretto, visto che si riferisce a due categorie e non “a tutti e due”? 
 

RISPOSTA:

Entrambi (= tutti e due) può essere riferito sia a due elementi omogenei, appartenenti alla medesima categoria (“azalee e ibiscus: amo entrambi i tipi di fiore”), sia a elementi eterogenei (“donne e motori: li amo entrambi”).
Forse, se fornisse un contesto più ampio (almeno una frase completa) si capirebbe meglio il senso del suo quesito. Forse lei intendeva dire che se entrambi qui si riferisce soltanto ai lacci (che sono due) e non al nodo tra i lacci (che è uno), allora non andrebbe bene. Giusto, in questo caso ha ragione lei, non andrebbe bene. Entrambi deve per forza riferirsi a due elementi insieme, non a uno soltanto o a tre. Pertanto una frase come “sia i lacci della scarpa sia il nodo (o i nodi) che hai fatto sono entrambi sfilacciati” sarebbe scorretta, sia se si riferisse soltanto ai due lacci (perché nella frase c’è anche uno o più nodi) sia se si riferisse ai lacci e al nodo o ai nodi, perché gli elementi sono più di due.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Pronome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nonostante nel vostro archivio delle domande siano molteplici le occasioni di chiarimento riguardo al “si passivante” e al “si impersonale”, la recente lettura delle frasi seguenti ha risvegliato in me una certa esitazione.

a) Quando ti si elenca tutti i difetti che hai, ti irrigidisci.
b) Quando si vanno a toccare questi argomenti delicati, è normale che chi ne è chiamato in causa reagisca male.

Esempio “a”: avrei coniugato il verbo “elencare” alla terza persona plurale (elencano)  in funzione del si passivante.
Avrei scelto la soluzione migliore, oppure anche la frase che mi è capitato di leggere è accettabile? Quale preferire tra le due?
Esempio “b”: a rigor di grammatica (se ho ben interpretato le vostre indicazioni), non si sarebbe dovuto coniugare il verbo alla terza persona singolare (quando si va a toccare questi argomenti delicati)? Il verbo “andare” mi pare che regga tutta la frase, a partire dal sintagma “a toccare”, e che non si leghi direttamente all’oggetto plurale (gli argomenti delicati); allora perché trasformare l’oggetto in soggetto?

 

RISPOSTA:

Sia in a) sia in b) vanno bene entrambi i costrutti, con verbo sia al singolare sia al plurale. Entrambi, cioè, son prodotti “a rigor di grammatica”.
In a), la forma plurale lascerebbe classificare senza dubbio il “si” come passivante, mentre con il verbo al plurale si tratta di un costrutto, tipico del fiorentino ma anche dell’italiano, pressoché identico al “si” impersonale, ma in Toscana possibile anche per la prima persona plurale: “noi si va al cinema stasera”.
Di fatto, entrambi i costrutti (“si elenca” e “si elencano”) producono il medesimo significato e il medesimo livello di media formalità.
Il secondo esempio è più interessante. Nel caso di verbo fraseologici come “si va a + infinito” è possibile il “sollevamento” dell’oggetto in soggetto. In questo caso è un po’ come se la frase fosse al passivo: “si vanno a toccare”  = “vanno (o vengono) a essere toccati”. Donde il plurale del verbo e il passaggio dall’oggetto al soggetto. Peraltro, questo passaggio dall’oggetto al soggetto si verifica anche in altri casi di verbi fraseologici, come quelli di percezione: “ti vedo mangiare” = vedo te (oggetto) che (soggetto) mangi.
Anche in questi casi, come nel caso a), siamo di fronte a significato pressoché identico e a stesso livello di formalità.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Mi trovo davanti a una frase di questo tipo: “Si continuarono a tenere le lezioni”. Dovrebbe essere piuttosto “Si continuò a tenere le lezioni”? E se sì, qual è la motivazione grammaticale?

 

RISPOSTA:

Il clitico, o particella pronominale atona, si può avere più usi:
1) passivante: in tal caso l’accordo col soggetto plurale è al plurale: “si tengono lezioni” = “le lezioni vengono tenute”; ovviamente con il verbo aspettuale o fraseologico continuare a vige comunque l’accordo: “si continuarono a tenere”.
2) Impersonale: verbo al singolare o al plurale a seconda del contesto. Nel suo caso, vanno bene entrambe le forme: si continuò a tenere / si continuarono a tenere. Il confine tra 1 e 2 è molto fluido ed è più una sfumatura semantica che altro: qualcuno continuò [impersonale] / le lezioni continuarono ad essere svolte da qualcuno (sia impersonale, sia passivo, ma con una maggiore attenzione all’agentività dell’azione, sia in presenza, sia in assenza di compl. d’agente o di causa efficiente).
3) Per esprimere la prima persona plurale: uso prettamente toscano e dell’italiano ricercato: “noi si andò tutti insieme al mare”; “noi si continuarono a tenere le lezioni”.
Insomma, “si continuarono a tenere” è frase perfettamente corretta e direi preferibile, se si vuole esprimere l’idea che le lezioni continuarono a essere svolte.

Fabio Rossi

Parole chiave: Pronome, Registri
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Se voglio esprimere il concetto di “Prendo a loro dei biscotti”, qual è la frase corretta?
Gli prendo dei biscotti o li prendo dei biscotti?
Se uso gli la frase potrebbe essere ambigua.
Inoltre, per esprimere “Se prendo loro li arresto”, si dice
Se li prendo gli arresto o li arresto?
Se mi riferisco a “loro”, la seguente frase è corretta?
Li ho detto che va bene. (A loro)

 

RISPOSTA:

Li = loro (complemento oggetto);
gli = a loro (complemento di termine).
Quindi:
– Gli prendo dei biscotti = prendo dei (cioè alcuni) biscotti a (o per) lui (o loro);
– li prendo dei biscotti = prendo dei biscotti; è una dislocazione a destra, cioè un costrutto pleonastico normale nel parlato, un po’ troppo informale nello scritto, che duplica l’oggetto biscotti con il pronome li.
– Se prendo loro li arresto  = se li prendo li arresto: la prima frase è molto forzata, la seconda è perfetta e preferibile;
– Se li prendo gli arresto o li arresto? Come mostrato subito sopra, soltanto la seconda frase è corretta: li (cioè loro, compl. oggetto) e non gli (= a loro).
“Li ho detto che va bene” non va bene, perché li può sostituire soltanto un compl. oggetto e non un compl. di termine.
Quindi ho detto loro = ho detto a loro = gli ho detto (e non li).
Tenga però presente che, ancorché assai comune, la forma gli per loro/a loro è adatta più al parlato e allo scritto di media formalità che a quello molto formale, in cui è preferibile la forma loro o a loro.
Può usare li soltanto nei casi in cui abbia valore di complemento oggetto, come per esempio: li ho incontratili ho aiutati ecc.

Fabio Rossi

Parole chiave: Pronome, Registri, Sintassi marcata
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se è possibile sostituire di cui con delle qualidei quali. Es. “Ha due bambine di cui / delle quali la madre non si interessa”.

 

RISPOSTA:

Il pronome relativo cui predeceduto da preposizione vale tanto per il singolare quanto per il plurale, quindi può essere sostituito da quale preceduto da preposizione articolata singolare e plurale. La sua frase è, di conseguenza, corretta in entrambe le forme. Si consideri che anche che è tanto singolare quanto plurale: l’amico che non vedo da tanto / gli amici che non vedo da tanto.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Desidererei sapere se l’espressione a quanto mi è stato detto,  per significare ‘stando a quello che mi hanno detto’, può essere considerata corretta. A orecchio direi senz’altro di sì ma, ragionandoci sopra, quel quanto mi pare poco sensato in questo contesto. 

 

RISPOSTA:

Le due frasi sono equivalenti. La prima frase da lei proposta è una proposizione limitativa esplicita introdotta dalla locuzione a quanto (qui quanto è un pronome relativo, corrispondente a quel che); la seconda è una proposizione limitativa implicita, introdotta da stando a quel che, a sua volta, introduce la relativa che mi è stato detto. In generale, le proposizioni limitative esplicite possono essere introdotte da aper da: “A / Per / Da quanto mi è stato detto [prop. limitativa], l’esame sarà giovedì [reggente]”; quelle implicite, invece, sono introdotte da costrutti come il gerundio del verbo stare + a quel che, equivalente alla locuzione per quel che
Raphael Merida

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Come hai lasciato il bambino?” “Piangendo”. L’uso del gerundio può essere qui grammaticalmente accettato (in riferimento al bambino) oppure crea ambiguità?

 

RISPOSTA:

L’uso è scorretto, perché il gerundio presuppone in questo caso che il soggetto della proposizione coincida con quello della reggente, quindi che la persona che ha pianto sia quella che ha lasciato il bambino, non il bambino. L’alternativa verbale grammaticalmente migliore sarebbe “Che piangeva”, che, però, ha il difetto di contenere un pronome (che) collegato a un nome inserito in una frase sintatticamente autonoma. Per aggirare anche questa forzatura si dove optare per una costruzione nominale, come “In lacrime”, che instaura un riferimento implicito con il referente più vicino (quindi il bambino), per quanto non si possa escludere (ma sarebbe una scelta forzata) che si riferisca alla persona che ha lasciato il bambino. Inoltre, in lacrime è un’espressione piuttosto formale, quasi letteraria, che potrebbe risultare inappropriata in un contesto familiare (ancora più straniante da questo punto di vista sarebbe un’altra alternativa, pure grammaticalmente corretta: piangente).
Insomma, piangendo, per quanto scorretta, è una soluzione economica, quindi difendibile in un contesto comunicativo poco sorvegliato. Essa, infatti, consente di veicolare il concetto evitando troppi giri di parole e senza troppi danni per la comprensione: un interlocutore al corrente della situazione, infatti, riuscirebbe facilmente a riferire piangendo al bambino invece che alla persona che ha lasciato il bambino, anche se la grammatica vuole il contrario.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Pronome, Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Ora chiedo la cancellazione delle seguenti convinzioni limitanti e delle memorie emozionali ad esse collegate, che recitano…” si capisce che il recitare riguarda le convinzioni limitanti e non le memorie emozionali?

 

RISPOSTA:

Al contrario: nella frase così composta il pronome che rimanda alle memorie emozionali, che, tra i possibili referenti, è il più vicino e nello stesso tempo il più esplicito. Se, invece, il pronome deve rimandare alle convinzioni limitanti la frase deve essere riformulata con un riferimento più esplicito, per esempio: “ora chiedo la cancellazione delle seguenti convinzioni limitanti e delle memorie emozionali ad esse collegate; convinzioni limitanti che recitano…”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei una delucidazione riguardo alla scelta tra costruzione implicita ed esplicita.
Nella frase “Ho bisogno che lei comunichi i dati per essere identificato” la logica porta chiaramente a ricollegare il sintagma per essere identificato al lei cui si rivolge il soggetto; ma questa valutazione è valida anche dal punto di vista sintattico, oppure sarebbe meglio una formula quale “Ho bisogno che lei
comunichi i suoi dati affinché possa essere identificato (in questo caso, però, mi pare che ci sarebbe ugualmente un’ambiguità, dato che il predicato possa potrebbe ricollegarsi anche a un’altra persona non menzionata nella frase)? 
Nella frase “Non avrei mai immaginato che sarei stata sola” o “Non avrei mai immaginato che avrei potuto essere sola” i soggetti di subordinata e sovraordinata coincidono, ergo si dovrebbe preferire la costruzione implicita. Ma con “Non avrei mai immaginato di essere sola”, “Non avrei mai immaginato di poter essere sola” non si sfuma un po’ troppo l’enunciato sotto il profilo temporale, non distinguendo il passato dal presente o questo dal futuro? 
E infine, la frase “Mi faccia sapere se le informazioni così inoltrate le consentono di essere elaborate e inserite nel sistema” è corretta sintatticamente per “Mi faccia sapere (lei) se le informazioni così inoltrate consentono a lei di (le informazioni) essere elaborate e inserite nel sistema”? D’impulso, assocerei
quel di che apre la costruzione implicita al complemento di termine (= ‘consentono a lei’); ma il soggetto della frase non sono proprio le informazioni? Se è così, la costruzione implicita, che mi lascia un po’ titubante, non dovrebbe essere corretta?

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda la prima frase, la soluzione iniziale è quella migliore. Il problema della concordanza tra il pronome personale di cortesia lei e il participio passato maschile (qui identificato) è insolubile, ma fortunatamente non troppo dannoso per la comprensione (rimando su questo punto alla FAQ  “… sentirla abbattuto” o “… sentirla abbattuta”? dell’archivio di DICO). La formulazione esplicita chiamerebbe in causa un terzo referente, come da lei immaginato, provocando confusione.
Anche per la seconda frase lei ha ragione: la versione implicita schiaccia tutto sul presente, perché i modi indefiniti non hanno il tempo futuro; per questo, proprio nel caso in cui la subordinata è al futuro la costruzione esplicita è legittima anche con identità di soggetti tra la stessa subordinata e la reggente.
Nella terza frase la sua ricostruzione non è corretta, perché il soggetto della proposizione oggettiva subordinata di secondo grado è lei, non le informazioni. Le completive dipendenti da verbi di comando, richiesta, consiglio, opportunità assumono come soggetto non il soggetto della reggente, ma il destinatario del comando, la richiesta, il consiglio, l’opportunità (è il caso di “Ti ordino di uscire” = ‘ordino a te che tu esca’). Nel suo caso, quindi, la costruzione della proposizione sarà (le consentono) di elaborarle e inserirle nel sistema, perché il destinatario dell’opportunità, lei, diviene il soggetto logico della proposizione oggettiva. Al contrario, le consentono di essere elaborate e inserite nel sistema non è ben costruita.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Leggo in articolo di Michele Serra pubblicato in “la Repubblica” il 2 giugno 2021: “O li si impiccano alle querce, quelli come loro, o li si lapidano, o li si fanno squartare dai cavalli; o li si tratta secondo il dettato dei codici, considerando ogni imputato, anche il più esecrabile, come se fosse una persona”.
Le forme li si + terza persona plurale mi paiono poco accettabili. Direi si lapidano quelli come loro, ma li si lapida. Tanto più che Serra stesso scrive in seguito li si tratta. Qual è la forma corretta? O sono accettabili entrambe le forme?
Ma perché, in forme come si impiccano i criminalii criminali, soggetto del si passivante, viene sostituito dal pronome diretto li e non da un pronome soggetto? 

 

RISPOSTA:

Lei ha perfettamente ragione a considerare errate le forme li si + terza persona plurale, che sono una sorta di sovrapposizione tra la versione passiva si lapidano (= vengono lapidati) e quella impersonale li si lapida. La forma impersonale richiede sempre la terza persona singolare del verbo ed è attiva, quindi l’elemento coinvolto nella costruzione ha la funzione di complemento oggetto: li si lapida = si lapida loro (loro è complemento oggetto di lapidare). Quando il complemento oggetto è plurale, come in questo caso, la costruzione impersonale è sfavorita rispetto a quella passiva, perché il parlante tende a confondere il complemento oggetto con il soggetto e giudica istintivamente “strano” associare un verbo singolare a un elemento (erroneamente ritenuto il soggetto) plurale. Per questo è più comune si lapidano rispetto a li si lapida. In ogni caso, li si lapidano è una forma non prevista dalla grammatica.
Questo risponde anche alla sua seconda domanda: in li si impicca il pronome rappresenta effettivamente il complemento oggetto, mentre in i criminali si impiccano il sintagma nominale i criminali è il soggetto del verbo passivato si impiccano (i criminali vengono impiccati). Nell’impossibile (i criminali) li si impiccano, quindi, il soggetto (i criminali) è contemporaneamente complemento oggetto (li).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei proporvi questa frase: “Dieci anni fa io ero più giovane di quanto lo sia tu adesso”. In caso la frase sia corretta, quel lo dovrebbe stare per giovane?

 

RISPOSTA:

Certamente: i pronomi atoni possono riprendere parti nominali di predicati nominali al pari di complementi oggetto di predicati verbali.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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QUESITO:

Vorrei sapere se, rivolgendosi ad un uomo, ci si può esprimere indifferentemente in uno dei due modi che andrò ad esporre oppure se uno solo dei due è corretto: “Mi dispiace molto di sentirla così abbattuto / abbattuta (nel senso di ‘giù di morale’)”. 

 

RISPOSTA:

Per la risposta a questa domanda rimando alle FAQ  “Lei”, “voi”, “loro”“La avrei chiamata” dell’archivio di DICO. L’accordo con il pronome di cortesia riferito a un uomo è chiaramente frutto di un compromesso tra la grammatica e la logica: la grammatica richiederebbe che gli aggettivi concordassero con il pronome, quindi fossero femminili, mentre la logica impedisce di riferire aggettivi femminili a referenti maschili. Su questo punto vince la logica (quindi sentirla abbattuto). Sull’accordo del participio passato di un verbo in una forma composta preceduto dal complemento oggetto pronominale, invece, vince la grammatica, quindi “Signor Bianchi, l‘ho vista al bar ieri”. La stessa cosa vale con la forma implicita: “Mi dispiace di averla disturbata“.
Questo compromesso può produrre frasi con un accordo altalenante, eppure da considerarsi corrette, come “Signor Bianchi, l’ho vista stanco ieri”.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome, Verbo
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QUESITO:

“Non mi preoccupano gli effetti avversi immediati, che dicono ESSERE improbabili, bensì quelli differiti”. Volendo scegliere questa linea espressiva è corretto l’ uso di quel essere?

 

RISPOSTA:

La costruzione delle proposizioni oggettive e soggettive con l’infinito e senza alcuna preposizione introduttiva ricalca quella delle proposizioni infinitive latine, che avevano proprio la funzione delle completive italiane. Tale costruzione è ancora contemplata in italiano, sebbene fosse più diffusa nei secoli passati e sia oggi rara e adatta allo scritto tecnico-scientifico e burocratico. Più comunemente si direbbe che dicono siano improbabili (si noti che anche con questa costruzione il che introduttivo della oggettiva è preferibilmente sottinteso per evitare la ripetizione).
Normalmente, la completiva con l’infinito richiede l’espressione del soggetto (corrispondente al soggetto in accusativo delle infinitive latine): “Gli antichi greci pensavano il fulmine essere un attributo di Zeus”. Nel suo caso, però, il soggetto è assorbito dal pronome relativo precedente, divenendo superfluo. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Vorrei sapere il significato o la funzione di la nell’espressione: “Me la passo bene”. E perchè è femminile? S’intende la vita? Lo stesso discorso con “Me la cavo”. E ancora: “Se la canta e se la suona”,  “Non
prendertela”. Questo la compare spesso in tante frasi idiomatiche della nostra lingua. Da dove deriva? Sostituisce che cosa?

 

RISPOSTA:

Nei verbi da lei citati (passarselacavarselacantarselasuonarselaprendersela) il pronome la non ha un valore anaforico preciso; non rimanda, cioè, sostituendolo, a un altro nome già introdotto o che gli interlocutori conoscono in anticipo. Lo stesso vale per il pronome si, anch’esso coinvolto nella formazione di tali verbi come la (passarsela). Questi pronomi servono a modificare il significato del verbo base in modi molto diversi, difficili da ricostruire. I verbi costruiti con -sela-sene (intendersenefregarseneuscirsene), ma anche con -si (portarsi gli anni), -ci (vedercivolercistarci) e altri ancora, in cui i pronomi non svolgono la loro funzione propria ma modificano il significato del verbo stesso, sono detti procomplementari. In questi verbi i pronomi conferiscono al verbo base una sfumatura “situazionale” e aggiungono l’idea che il soggetto abbia un interesse speciale nel processo inteso dal verbo. Passarsela, per esempio, potrebbe essere spiegato come ‘trascorrere una certa situazione nella quale si è molto coinvolti’. Come detto, però, non è possibile stabilire un significato preciso valido per ogni complesso pronominale aggiunto a un verbo procomplementare. Può approfondire questo argomento consultando l’archivio di DICO con la parola chiave procomplementar*.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Qual è la più corretta di queste opzioni? Propendo per gli (resto è maschile), ma anche le, riferito a umanità, puo’ essere foneticamente, ma non so quanto grammaticalmente, accettabile. Possibile siano corrette entrambe? Ecco la frase in oggetto: “Ampio mandato al resto dell’umanità di occuparsi di quello che gli / le pare”. 

 

RISPOSTA:

Entrambi i pronomi sono accettabili, in quanto il riferimento può essere tanto a resto quanto a umanità.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome
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QUESITO:

È vero che la frase “a me non me ne frega niente” suona male, ma l’ho trovata in molti libri e volevo sapere se fosse totalmente errata.

 

RISPOSTA:

La frase è molto comune e non si può dire totalmente scorretta, sebbene al suo interno riconosciamo alcune forzature grammaticali. Innanzitutto notiamo la ridondanza pronominale a me… me, dovuta alla dislocazione a sinistra del sintagma preposizionale a me con conseguente enfatizzazione dello stesso. Il sintagma, cioè, risalta, è più “forte”, perché è sistemato all’inizio della frase (a sinistra) e può essere pronunciato con una intonazione particolare e una pausa che lo separa ulteriormente dal resto. Una seconda forzatura riguarda il verbo fregarsene. Questo verbo è formato sulla base di fregare, a cui si aggiungono i pronomi si (nella forma se) e ne. L’unione di queste parti produce un cambiamento non solo della forma, ma anche del significato del verbo base: fregarsene, infatti, ha un significato completamente diverso da fregare. I verbi come fregarsene (andarsenecavarselaintenderseneintenderselavederselamettercivolerci…), detti procomplementari, sono un po’ ai margini della grammatica ufficiale, perché i pronomi che ne fanno parte hanno una funzione non chiara, e perché hanno significati “espressionistici”, nel senso che veicolano forti sfumature emotive (si pensi alla forza espressiva di me ne vado rispetto a vado via o a quella di me la sono cavata rispetto a ho superato quella difficoltà).
Le forzature abbassano il livello di accettabilità della frase, quindi la rendono particolarmente adatta a contesti comunicativi privati, in cui è più importante manifestare le emozioni che seguire passo passo le regole grammaticali standard. Al contrario, in contesti pubblici, specie scritti, si può usare una variante come non sono affatto interessato / interessata o simili.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Pronome, Registri, Verbo
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QUESITO:

Quale delle tre frasi è corretta?
1. “Gent.le dottore, Le comunico che ieri ho chiamato in Regione per informazioni in merito al vaccino anti COVID, ho anche sentito il sindaco che mi confermato che posso prenotarmi”.
2 “Gent.le dottore, Le comunico che ieri ho chiamato in Regione per informazioni in merito al vaccino anti COVID, ho anche sentito il sindaco, ENTRAMBI (Regione e sindaco) mi hanno confermato che posso prenotarmi”, però la regione non è una persona!?
3. “Gent.le dottore, ieri ho chiamato in Regione in merito al vaccino anti COVID, mi è stato detto (= persona con la quale ho parlato) che posso prenotarmi; ciò mi è stato confermato anche dal sindaco”.

 

RISPOSTA:

Le tre frasi differiscono in diversi punti e sono tutte migliorabili nella composizione, sebbene nessuna contenga errori grammaticali evidenti. 
Nella prima frase si attribuisce l’autorizzazione al solo sindaco (il verbo confermare non è sufficientemente esplicito circa il ruolo della Regione); se, però, la fonte dell’autorizzazione è anche la Regione è consigliabile chiarire questa informazione.
Nella seconda frase il pronome entrambi è effettivamente innaturale se riferito a un’istituzione.
L’espressione chiamare per informazioni, inoltre, è fortemente burocratica: più comune sarebbe chiamare per chiedere / avere / ricevere informazioni.
La terza frase risulta, in conclusione, la migliore; questa può essere, però, migliorata nella punteggiatura: “Gent.le dottore, ieri ho chiamato in Regione in merito al vaccino anti COVID: mi è stato detto che posso prenotarmi; ciò mi è stato confermato anche dal sindaco”.
Un’altra piccola limatura si potrebbe fare sul piano della coesione: “Gent.le dottore, ieri ho chiamato in Regione in merito al vaccino anti COVID e mi è stato detto che posso prenotarmi per la somministrazione. L’informazione mi è stata confermata anche dal sindaco”. In alternativa alla forma impersonale mi è stato detto (che comunque va bene), infine, si può esplicitare il riferimento: la persona con cui ho parlato / il responsabile del servizio mi ha detto o altro.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Il pronome ne può alludere a due sintagmi distinti all’interno della stessa frase? In questi casi ci si affida alla logica, che ci permetterebbe di risalire al giusto riferimento, oppure esiste una regola grammaticale che inibisce tutto ciò?
Un esempio: “Abbiamo intervistato una ragazza di diciotto anni, ma dovremmo intervistarne anche una che ne avesse venti”.

 

RISPOSTA:

La costruzione è possibile e corretta: come ha supposto lei, in casi come questi la logica permette di ricondurre i due pronomi ognuno al suo antecedente. Piuttosto, nella sua frase la sbavatura è il tempo del congiuntivo nella proposizione relativa; visto che la qualità dell’età è presente, il congiuntivo deve essere presente (che ne abbia venti).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione, Pronome
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QUESITO:

Vorrei presentarvi alcune costruzioni per chiedere lumi circa il pronome.
“Poteva anche essere un semplice amico, visto il calore con cui lui / egli / questo l’aveva salutata”. A prescindere dalla scelta tra lui egli questo – che suppongo libera senza tema di incorrere in un errore -, il pronome è consigliato o facoltativo?
“Domandami se io sono/sia d’accordo”. Come sopra. L’inserimento del pronome può avere una funzione enfatica se si opta per l’indicativo presente? Nel caso invece si opti per il congiuntivo, immagino che esso sia obbligatorio per disambiguare il riferimento alla persona.
“Camminando da solo per il parco che lui amava, pensai ai ricordi più vivi di mio padre”. L’anticipazione del pronome è corretta?
Infine, mi piacerebbe conoscere quali sono i contesti sintattici in cui l’inserimento del pronome è non già facoltativo o sconsigliato, ma addirittura errato.

 

RISPOSTA:

Nella prima frase il pronome è superfluo perché il soggetto della proposizione relativa coincide con quello della proposizione reggente. Si può, comunque, inserire per enfatizzare il soggetto (per esempio per esprimere un contrasto: lui diversamente da un altro) o disambiguarne l’identità nel caso in cui ci siano più referenti possibili. La differenza tra lui e egli è diafasica: egli è più formale; questo accentua la distinzione con un quello eventualmente presente nel cotesto più ampio. Per ottenere una sfumatura distintiva si può optare anche per questi costui, pronomi dimostrativi soggetto singolari di sapore letterario.
Nella seconda frase è vero che il pronome è superfluo (ma comunque possibile per le stesse ragioni viste per la prima frase) se si usa l’indicativo; se si usa il congiuntivo, invece, esso non è obbligatorio, ma consigliabile. Per convenzione è obbligatorio soltanto quando il soggetto del congiuntivo presente o imperfetto è di seconda persona (se tu siase tu fossi).
Nella terza frase l’anticipazione, o catafora, è possibile, quindi corretta.
Un pronome può essere superfluo, come nei casi commentati sopra, ma difficilmente il suo inserimento può essere giudicato errato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome
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QUESITO:

Come posso spiegare (in modo semplice e non solo teorico) alla mia nipotina di V elementare la differenza tra un verbo riflessivo proprio e intransitivo pronominale? Ha avuto difficoltà (poi superate consultando il dizionario) nello svolgimento di un esercizio in cui occorreva individuare il gruppo di appartenenza di verbi come si diressesi addormentòsi sentiva… 
Inoltre, come spiegare che un verbo come addormentarsi è intransitivo ma addormentare è transitivo?

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda la prima domanda, la rimando alla risposta Riflessivo, passivato o intransitivo pronominale  dell’archivio di DICO. Nell’archivio, inoltre, può trovare altre risposte che ruotano intorno allo stesso argomento inserendo nel motore di ricerca interno le parole pronominaliintransitiviriflessivo e riflessivi. Sintetizzo, comunque, la questione: i verbi riflessivi hanno un soggetto che è anche il complemento oggetto; gli altri verbi che si costruiscono con un pronome sono pronominali transitivi (anche detti riflessivi apparenti) o intransitivi. In altre parole, nella frase Luca si diresse a scuola possiamo dire che Luca diresse sé stesso, cioè diede a sé stesso le indicazioni per andare a scuola? Ovviamente no, quindi dirigersi non è un verbo riflessivo, ma è un verbo pronominale (perché contiene il pronome si). Questo verbo regge il complemento oggetto? No, quindi è un verbo pronominale intransitivo. Lo stesso vale per addormentarsi (il soggetto non addormenta sé stesso) e sentirsi (il soggetto non sente sé stesso). Come si può intuire, i verbi riflessivi non sono molti; molti di più sono i pronominali intransitivi. I pronominali transitivi, dal canto loro, non sono altro che verbi transitivi a cui aggiungiamo un pronome per enfatizzare la partecipazione del soggetto: mi lavo i capelli (= ‘lavo i miei capelli’), mi mangio un panino (= ‘mangio un panino con soddisfazione’) ecc. Alcuni verbi possono essere pronominali transitivi e intransitivi, a seconda della frase: mi sento male (sentirsi è intransitivo) / mi sento la febbre (sentirsi è transitivo).
Molti verbi da transitivi divengono intransitivi quando sono costruiti con un pronome. Possiamo individuare due tipi diversi di questi verbi: nel primo il pronome prende il posto del complemento oggetto, non perché l’azione descritta parta dal soggetto per tornare sul soggetto stesso, ma perché l’azione rimane sul soggetto e non coinvolge nessun altro partecipante. In questo tipo rientra addormentarsi, la cui azione rimane sul soggetto, non viene trasmessa ad altri, neanche al soggetto stesso. Nell’altro tipo il pronome prende sempre il posto del complemento oggetto, ma l’azione non rimane sul soggetto, bensì transita ad altri partecipanti indirettamente, come in rivolgersi a qualcunoscusarsi con qualcunoavvicinarsi a qualcuno ecc. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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QUESITO:

Quando si fa il comparativo con il verbo piacere si usa la preposizione di oppure il pronome che?

 

RISPOSTA:

La parola che introduce il secondo termine di paragone dipende dalla composizione del secondo termine stesso (non da quella del primo termine). Si usa che (che in questo caso è una congiunzione, non un pronome) quando il secondo termine è costituito da un nome o un pronome preceduti da una preposizione, oppure se è un verbo, un aggettivo o un avverbio. In tutti gli altri casi si usa di. Gli aggettivi inferiore e superiore richiedono a (inferiore alla media).
Quindi, per esempio, si dirà piace ad Andrea più che a Luca (il secondo termine di paragone è costituito da un nome preceduto da una preposizione), mi piace più sciare che nuotare (il secondo termine di paragone è costituito da un verbo), quel modello mi piace più rosso che bianco (il secondo termine di paragone è costituito da un aggettivo) ecc. 
Non è escluso che la congiunzione che si usi anche quando il secondo termine di paragone è costituito da un nome senza preposizione: mi piacciono più i leoni dei / che i giaguari
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Rivolgendosi ad una persona di sesso maschile con il pronome di cortesia lei è corretto dire l’avrei chiamato?

 

RISPOSTA:

La questione è stata affrontata nella risposta n. “Lei”, “voi”, “loro” , che si può leggere nell’archivio di DICO. La situazione è così esemplificata: “Signor Bianchi, la ho (l’ho) chiamata perché lei mi sta simpatico“. In altre parole, l’aggettivo concorda al maschile (simpatico), il participio passato del verbo composto con ausiliare avere e preceduto dal pronome (la) concorda al femminile (chiamata). Il participio passato del verbo composto con ausiliare essere, invece, concorda al maschile (si comporta, cioè, come un aggettivo): “Signor Bianchi, sono contento che lei sia arrivato“.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quali varianti sono corrette?
a) Ci siamo fatte / fatti / fatto un regalo.
b) Dal possibile vantaggio dei padroni di casa si è passati / passato al gol degli ospiti.
c) Hai recitato le preghiere ieri sera, o ne hai recitata / recitate / recitato più di una.

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti sono corrette. Per quanto riguarda la prima frase, ci si aspetta che il participio passato di un verbo con l’ausiliare essere concordi con il soggetto, che nella frase in questione è noi. In quanto al genere (fatti o fatte) il pronome ci non è trasparente, per cui si userà fatte se il soggetto è femminile, fatti se è maschile. A favore di fatto, però, depone la presenza nella frase del complemento oggetto (un regalo), che quando il verbo ha l’ausiliare avere può concordare con il participio passato (ho fatta una torta). Questa situazione rende anche la costruzione ci siamo fatto un regalo possibile, per quanto più rara.
Nella seconda frase non c’è un soggetto, perché il verbo è impersonale; per questo motivo il participio rimarrà invariato: si è passato. L’italiano, però, ammette anche la struttura (noi) si è passati, diffusa soprattutto in Toscana e nella tradizione letteraria (si confronti questa costruzione con “oppure, quando si è arrivati a fondare un partito” estratto da L’orologio di Carlo Levi, 1951).
Nella terza, infine, il participio può rimanere invariato (recitato), visto che ne non richiede necessariamente l’accordo del participio di un verbo con ausiliare avere (al contrario di lolalile), oppure può concordare con il complemento oggetto (come nell’esempio visto sopra di ho fatta una torta), che è una (quindi recitata). Discutibile, ma ammissibile, è l’accordo con il nome a cui rimanda ne, ovvero preghiere (quindi recitate).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

È corretto dire “Questi sono i bambini che li ha salvati” per esprimere appunto che una persona ha salvato dei bambini?
Si dice arriva subito o arriverà subitoÈ fallita o era fallita?

 

RISPOSTA:

Nella prima frase c’è un problema a monte della concordanza del participio passato. Il pronome che rimanda a i bambini e svolge, nella proposizione relativa che li ha salvati, la funzione di complemento oggetto (perché qualcun altro, il soggetto, ha salvato i bambini). La presenza di che con la funzione di complemento oggetto rende superflua la presenza di li, che svolge la stessa funzione. Se eliminiamo li, che è ridondante, cade il problema della concordanza del participio passato, perché il pronome che non richiede la concordanza (che, invece, è richiesta da li). La forma più corretta della frase, pertanto, è “Questi sono i bambini che ha salvato” (o, se vogliamo enfatizzare il soggetto, “Questi sono i bambini che lui ha salvato”). Non è esclusa “Questi sono i bambini che ha salvati”, che, però, suona artificiale e antiquata.
Entrambe le espressioni arriva subito e arriverà subito sono corrette; tra le due, quella con il futuro è più formale e quella con il presente, di conseguenza, di registro più colloquiale.
Tra è fallita e era fallita, infine, c’è una differenza semantica, legata ai due diversi tempi verbali usati: la scelta tra le due varianti può essere fatta non in astratto, ma soltanto all’interno di una frase.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Sto preparando un concorso e la banca dati è priva di risposte esatte. Ho qualche dubbio sulle seguenti 10 domande di grammatica.

1) Quale delle seguenti frasi contiene un pronome indefinito?
a) Colui che parla è un buffone qualunque
b) Vado matto per certi tuoi dolci!
c) Riceveremo dei bei regali
d) Qualsiasi mezzo sarà buono per venire al mare
e) Quel tuo amico non mi ha detto niente

2) In quale delle seguenti frasi è presente un pronome personale con funzione di complemento?
a) Io e Giulia frequentiamo un corso di lingua tedesca
b) Credi a me, lo hai punito abbastanza
c) Luca ha preso in prestito tre libri dalla biblioteca
d) Quelle calze colorate potrebbero piacere molto a mia nipote
e) Egli non mi dà alcuna garanzia di riuscita

3) In quale delle seguenti frasi è presente un pronome personale con funzione di complemento?
a) Beati i miei cugini , che vanno tutti gli inverni per due settimane sulla neve!
b) Sono rimasta scioccata all’idea che pure lei, la mia vicina di casa, si è sposata!
c) Persino lui capì che dovevamo cambiare il nostro modo di fare!
d) Voi siete  colleghe dilavoro di mia sorella?
e) Potete contare sempre su di noi, anche se non ci facciamo vivi spesso

4) In quale delle seguenti frasi la particella pronominale “si” svolge la funzione di riflessivo apparente?
a) Prima di uscire Linda si accertò che tutto fosse in ordine come voleva lei
b) Si narrano molte leggende sull’origine di quel lago
c) All’uscita da scuola Nina e Piero si aspettano a vicenda
d) Il raffreddore si attacca molto facilmente
e) Marta si macchiò le mani con il toner della fotocopiatrice

5) In quale delle seguenti frasi è presente un verbo intransitivo pronominale?
a) Mio figlio si agita sempre tanto e ciò succede ogni volta che incontra il tuo 
b) Giulia si impossessò della mia comoda poltrona e lì si addormentò
c) Non appena vi ha visti, lo zio vi ha salutati molto calorosamente
d) Per cucinare in casa mia si usano solo prodotti macrobiotici e di origine vegetale
e) Si inoltrerà la pratica inerente il tuo nuovo contratto di lavoro all’ufficio competente

6) In quale delle seguenti frasi è presente un verbo alla forma passiva?
a) Un abile chirurgo di fama internazionale operò con successo mia zia
b) Durante quell’alluvione andarono perse numerose opere d’arte
c) Quel museo chiuderà per molto tempo al pubblico a causa di ingenti lavori di restauro
d) Studenti di una scuola francese attendono ancora di ricevere una lettera dagli alunni della II E
e) Se continuerà a non studiare non andrà in vacanza durante l’estate

7) In quale delle seguenti frasi è presente una preposizione impropria?
a) A colazione siamo soliti mangiare dei biscotti al cioccolato e bere del latte caldo
b) Potrà presentare le sue rimostranze presso l’ufficio reclami
c) Purtroppo mi si è già rotta la montatura degli occhiali
d) Tutti sono venuti a sapere del coraggio che hai dimostrato in quell’impresa
e) I tuoi genitori desiderano sopra ogni cosa la tua felicità

8) In quale delle seguenti frasi “che” ha funzione di complemento oggetto?
a) Ho appena finito di leggere il libro che mi è stato regalato per Natale
b) Pirro capì che aveva perso molti uomini in battaglia
c) Mio padre non ha compreso una sola parola di ciò che è stato detto
d) Cesare pensò di rendere onore ai nemici che aveva sconfitto
e) Dobbiamo continuare a camminare ora che siamo quasi arrivati

9) Quale delle seguenti frasi contiene un pronome relativo?
a) Non so chi sia la persona alla tua destra
b) Da questo colle vedremo l’orso che esce dalla sua tana
c) Mi chiedo quale sia la data del prossimo colloquio
d) Mario crede che tu sia ancora all’estero
e) Penso che tu comprenda quale sensazione io stia provando

10) Che tipo di proposizione contiene la frase “Resta pure a casa fino all’ora di cena, perché non è importante che tu venga per la riunione”?
a) Consecutiva
b) Temporale
c) Concessiva
d) Finale
e) Soggettiva 

 

RISPOSTA:

Come spesso avviene con questo tipo di domande così puntuali, la risposta può essere non univoca. Alcune delle domande, infatti, ammettono una doppia risposta.
1) = e): il pronome indefinito è niente.
2) = b): il pronome personale complemento è lo, ma anche me si trova all’interno di un complemento.
3) = e): il pronome è noi.
4) = e).
5) = a) e b). Sono verbi intransitivi pronominali agitarsiimpossessarsiaddormentarsi.
6) = b): andarono perse (ovvero furono perse).
7) = b): presso, e e): sopra.
8) = d).
9) = b).
10) = e). La proposizione è che tu venga per la riunione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Riconosco di incontrare talvolta un qualche problema nel risalire alla cosa o alla persona cui si riferisce il ne. Un esempio è questo:
1a) “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché ne acquisisca il metodo”.
Ecco: chi deve acquisire il metodo di chi?
Supporrei che sia Giulia a dover imparare da Valentina. Nel caso la mia interpretazione sia giusta, se volessimo ribaltare i ruoli, dovremmo escogitare formule più precise (ma meno snelle) come
1b) “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché questa acquisisca il metodo di quella” oppure basterebbe
1c) “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché quest’ultima ne acquisisca il metodo”?
Mi chiedo inoltre se la grammatica ci dia regole ferree a tal proposito, oppure se ci si possa sempre affidare alla logica.
Porto un altro esempio che mi è capitato di formulare:
2a) “Bisogna associare l’autorimessa all’appartamento, affinché ne diventi pertinenza”.
Seguendo la sola logica, la frase è di immediata comprensione: l’unico immobile destinato a diventare pertinenza può essere l’autorimessa. Ma prescindendo dalla logica, la frase è corretta sotto il profilo sintattico?
Se essa fosse stata costruita diversamente, invertendo le posizioni dei complementi, per ottenere lo stesso messaggio, avremmo potuto scrivere
2b) “Bisogna associare l’appartamento all’autorimessa, affinché quest’ultima diventi la sua pertinenza”?

 

RISPOSTA:

Il collegamento tra i pronomi e i nomi (o gli altri pronomi) a cui questi si riferiscono è un punto in cui la grammatica incontra la testualità. Da una parte, infatti, abbiamo l’accordo morfologico, ovvero l’adattamento del pronome al nome a cui si riferisce (nel caso di ne questo adattamento non si vede, perché questo pronome è invariabile), dall’altra abbiamo la coreferenza, ovvero la capacità di più parole di rimandare allo stesso referente. Nella sua frase 1a, per esempio, Valentina ne rimandano allo stesso referente, che è la persona di Valentina. La coreferenza richiede sempre un minimo di sforzo interpretativo da parte del ricevente, perché non è di per sé evidente che, rimanendo al nostro esempio, Valentina ne rimandino alla stessa persona, visto che sono parole così diverse. Nella stessa proposizione finale in cui si trova ne c’è anche un’altra forma coreferenziale: l’ellissi del soggetto di acquisisca. L’ellissi è una forma coreferenziale perché rimanda a un referente presentato attraverso un nome da qualche parte nella stessa frase (come in questo caso), oppure in un’altra frase del testo. Risalire alla parola con cui l’ellissi è coreferente è in teoria molto difficile, proprio perché l’ellissi si realizza come la sottrazione di una parola o un gruppo di parole (o sintagma). 
Per favorire l’interpretazione coreferenziale da parte del ricevente, ovvero il corretto rimando da un pronome, o da un’ellissi, all’elemento coreferente, l’emittente deve rispettare alcune regole nella costruzione della frase. La coreferenza, quindi, coinvolge anche la sintassi. Nell’esempio, il dubbio sul collegamento tra ne Valentina potrebbe nascere a causa della presenza, nella proposizione reggente, di due nomi in astratto collegabili a neGiulia Valentina, e dall’ellissi del soggetto del verbo acquisire. In questa situazione, il ricevente potrebbe rimanere nel dubbio su chi sia che deve acquisire il metodo da chi. Tale dubbio è risolto immediatamente dalla regola secondo cui il soggetto ellittico di una subordinata deve coincidere con il soggetto della proposizione reggente. Ne consegue che il soggetto di acquisisca è lo stesso di studi, ovvero Giulia. Per esclusione, quindi, ne rimanda a Valentina. Lo stesso vale per la frase 2a: il soggetto di diventi deve essere l’autorimessa, quindi ne rimanda all’appartamento.
Il suo ragionamento sull’inversione dei ruoli sintattici nelle subordinate è corretto: per farlo bisogna esplicitare il soggetto delle subordinate, attraverso un pronome (come nelle frasi 1b e 2b) o anche attraverso un sintagma nominale, per esempio: “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché Valentina acquisisca…”. Una volta esplicitato il soggetto della subordinata, si può usare anche ne per rimandare all’altro possibile elemento coreferente, non più ambiguo, come nella frase 1c.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione, Nome, Pronome, Retorica
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QUESITO:

Desidererei avere alcune delucidazioni in merito al verbo entrarci: perché non si può scrivere “se l’avessi fatto, NON SAREBBE C’ENTRATO PER NULLA”? Cioè: come mai nella coniugazione del verbo entrarci in tutti i tempi che non comportano l’ausiliare (essere, in quanto il verbo è intransitivo) la particella ci può essere anteposta con elisione al verbo entrare (c’entrare), mentre in quelli che necessitano dell’ausiliare la particella deve essere messa per intero prima dello stesso?

 

RISPOSTA:

Entrarci si comporta esattamente come tutti gli altri verbi pronominali, cioè costruiti con un pronome (o particella pronominale): all’infinito, al gerundio, all’imperativo il pronome è enclitico, cioè si appoggia (e si scrive attaccato) all’infinito, al gerundio, all’imperativo (entrarcientrandocientraci), nelle forme semplici il pronome si sposta prima del verbo (ci entrai). Al participio passato il pronome si comporta in due modi: quando il participio è una forma autonoma, senza ausiliare, il pronome è enclitico: entratoci, scoprì chi vi si nascondeva); quando il participio fa parte di una forma composta, dal momento che l’unione con l’ausiliare è molto stretta il pronome non va a inserirsi in mezzo, ma “risale” fino a prima dell’ausiliare. Abbiamo così ci sarebbe entrato e simili. Venendosi a trovare prima di essere, il pronome si pronuncia e si scrive per forza per intero davanti alle forme del verbo che cominciano per consonante (ci sono entratoci sei entrato…), si può pronunciare attaccato e scrivere con o senza elisione davanti alle forme che cominciano per vocale (c’è / ci è entratoc’era / ci era entrato…).
Come dicevo, tutti i verbi pronominali si comportano allo stesso modo. Prendiamo andarseneandarsene (infinito); me ne andai (forma semplice), andatosene (participio passato senza ausiliare), me ne sono andato (forma composta con ausiliare e participio passato).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se è errata la frase “Anche questo è un uomo e la sua vita”.

 

RISPOSTA:

La frase è del tutto corretta se si considera questo come pronome “neutro”, con il significato di ‘questa cosa’. In questo caso la frase diviene equivalente a “Anche questa cosa è un uomo e la sua vita’. 
Se, invece, si attribuisce a questo la funzione di aggettivo dimostrativo la frase non è perfettamente corretta, perché il sintagma concordato con questo è un uomo e la sua vita, che contiene due nomi, uno maschile e uno femminile, quindi richiede un accordo plurale maschile. La frase corretta è, pertanto, “anche questi sono un uomo e la sua vita”. Una terza alternativa, che evita questo accordo, corretto ma poco trasparente, è modificare leggermente la sintassi della frase, per esempio così: “Anche questo è un uomo, e anche questa è la sua vita”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

“Perdonare una persona significa regarLe” oppure “regalarGLI”…?
E poi:
“Il puro potenziale è una energia con la quale è stato creato l’universo” oppure “con il quale è stato creato l’universo”?

 

RISPOSTA:

La persona è femminile, quindi il pronome che si riferisce a questo nome è le, non gli.
Nella seconda frase il pronome relativo deve riferirsi a una energia, quindi deve essere femminile (la quale): il pronome relativo, infatti, si riferisce sempre al nome più vicino. Se si volesse rimandare a il puro potenziale bisognerebbe cambiare la costruzione della frase, per esempio così: il puro potenziale è una energia; con esso è stato creato…
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Vorrei sapere gentilmente se la particella ci talvolta sia superflua e dunque trascurabile.
1) (Ci) tengo a precisare che…
2) La notizia (ci) ha commosso / commossi tutti.
3) Dentro la casa, (c’)è uno splendido affresco.
Infine, permettetemi una domanda collaterale: ci con valore pronominale, riferito a terza persona sia singolare che plurale, è corretto?
4) Sono diversi anni che non ci parlo (vale a dire che non parlo a lui / lei oppure a loro).

 

RISPOSTA:

Il pronome atono ci risulta a volte non chiaramente decifrabile, eppure necessario per completare il senso della frase. Sebbene tenere a possa significare ‘avere a cuore’, tenerci a veicola una maggiore partecipazione emotiva del soggetto (un po’ come mangiarsi un panino rispetto al neutrale mangiare un panino). Addirittura, nel verbo esserci ‘trovarsi, stare in un luogo’, la particella è del tutto desemantizzata, tanto che spesso ne ribadiamo il senso con un complemento di luogo. Succede nella sua terza frase, in cui troviamo sia dentro la casa sia ci. Sebbene la particella non abbia un significato specifico, però, non possiamo eliminarla, perché esserci è del tutto cristallizzato e i suoi componenti non possono essere più separati: la variante dentro la casa è un affresco è al limite dell’accettabilità (pochi parlanti nativi la considererebbero corretta). 
Il suo secondo esempio si distingue dagli altri, perché in esso ci è un pronome personale, la cui presenza modifica chiaramente la frase: 
ha commosso tutti = ‘ha commosso tutte le persone’;
ci ha commosso tutti = ‘ha commosso tutti noi’.
Ci in parlarci, infine, pronominalizza con lui / lei / loro, quindi “Non voglio parlarci” = ‘non voglio parlare con lui / lei / loro’. A lui / loro è pronominalizzato da parlarglia lei da parlarle.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quale tra le due espressioni è la più formale?
– Dottore mi dispiace disturbarla;
– Dottore mi dispiace disturbarlo.

 

RISPOSTA:

Quando si dà del lei a una persona, i pronomi vanno concordati con lei, mentre gli aggettivi si concordano con la persona a cui ci si rivolge; quindi “Dottore, mi dispiace disturbarla, perché so che lei è occupato“. La variante dottore, … disturbarlo è scorretta, a meno che non ci si riferisca a un’altra persona: “Dottore, mi dispiace disturbarlo ma potrebbe passarmi suo figlio?”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome
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QUESITO:

Si dice “Professore volevo dirLE una cosa” o “… volevo dirGLI”?
E poi è corretto “Mi scuso per il ritardo” oppure “Mi scusi per il ritardo”.

 

RISPOSTA:

Quando si dà del lei a qualcuno, si mantiene il lei anche nei complementi indiretti. Quindi è corretto professore, volevo dirle. La variante professore, volevo dirgli significa ‘volevo dire a lui’, quindi rimanda a una ulteriore persona di sesso maschile.
Mi scuso e mi scusi sono entrambe corrette: la prima è all’indicativo, quindi descrive un’azione del soggetto (il soggetto dichiara di scusarsi); la seconda è al congiuntivo, detto esortativo, quindi descrive una richiesta del soggetto all’interlocutore (il soggetto chiede all’interlocutore di scusarlo).
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Pronome, Registri
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QUESITO:

Qual è la differenza di significato tra queste due affermazioni?
Senza la necessità di pretendere nulla.
Con la necessità di pretendere nulla.

 

RISPOSTA:

Le due frasi sono corrette e identiche dal punto di vista del significato. 
La prima contiene una doppia negazione (senza e nulla) che rinforza il concetto; la seconda presenta come affermativa una circostanza negativa. Quest’ultima costruzione è normale in altre lingue (come l’inglese), mentre in italiano risulta sgradita ai parlanti, che, invece, preferiscono la doppia negazione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

E’ giusta questa frase? “Gli uomini si sposano 3-4 anni più tardi che/delle donne”.

 

RISPOSTA:

“Più tardi delle donne”.
Il secondo termine di paragone è introdotto, in casi come questi, da di + sostantivo o pronome.
Se il secondo termine di paragone è espresso da un verbo, cioè da una proposizione, allora si usano altri costrutti; per esempio: “più tardi di quanto (non) si sposino le donne”.
Certe volte, sempre nel caso in cui il secondo termine di paragone sia costituito da una proposizione, si può usare che, ma non con più tardi. Per esempio: “è meglio stare all’aria aperta che rimanere tre ore in una stanza chiusa”.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Congiunzione, Pronome
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QUESITO:

In questa frase si usano questi e quegli. Non si puo usare questo e quello?

Marco e Gabriele sono molto diversi, questi è più timido e quegli è più espansivo. Inoltre a quello piace lo sport e a questo la musica.

 

RISPOSTA:

Questi e quegli sono pronomi rari nell’uso, che possono sostiture i pronomi questo e quello quando hanno la funzione di soggetto (anche se non è escluso l’uso con funzione di complemento oggetto o altri complementi). L’uso di questi pronomi aumenta il grado di formalità del discorso, ma non è obbligatorio.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Coesione, Pronome, Registri
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QUESITO:

Si dice: “Ti chiamano quando li fa comodo” o “quando gli fa comodo”?
 

RISPOSTA:

Il pronome li, corrispondente alla terza persona plurale, può essere usato soltanto nella funzione di complemento oggetto (ad esempio: li chiamo = ‘chiamo loro’). Non può, invece, svolgere la funzione di complemento di termine. Per questa funzione si può usare loro (ti chiamano quando fa loro comodo), oppure a loro (ti chiamano quando fa comodo a loro) o anche gli (ti chiamano quando gli fa comodo), che vale anche per la terza persona singolare maschile. Rispetto a loro e a lorogli è più informale, ma è oggi pienamente accettato anche in contesti di media formalità. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Registri
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QUESITO:

Se mi rivolgo ad un uomo con la forma di cortesia, dirò: ” La terrò informato” oppure ” la terrò informata”?

 

RISPOSTA:

Lo stile più formale, e anche il rispetto più rigoroso della regola dell’accordo grammaticale, imporrebbero il femminile, dal momento che Lei, anche come allocutivo di cortesia, è femminile e non maschile.
Per taluni, tuttavia, l’affiancamento di un pronome rivolto a un uomo e parole (participi passati o aggettivi) con desinenze femminili pare assai stridente, per cui optano per (o inconsapevolmente adottano) l’accordo al maschile.
A questi ultimi “risentiti”, tuttavia, ricordiamo che una cosa è il genere in natura (o anche nella personale immagine di sé), un’altra cosa è il genere grammaticale. Il pronome Lei rimane femminile (nel genere grammaticale) indipendentemente dal genere (fisico o psicologico) della persona cui si riferisce, 

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

L’espressione La vedo stanco è corretta? La prima lettera dentro le virgolette va maiuscola? E quella dopo le virgolette? Comunque stanco può essere usato al maschile dando del lei? 

 

RISPOSTA:

Per l’iniziale della prima parola all’interno delle virgolette c’è una convenzione molto radicata che la vuole maiuscola sempre se le virgolette contengono un discorso diretto (disse: “Vieni”.). Se le virgolette non contengono un discorso diretto non richiedono la lettera maiuscola (il tuo “mal di testa” è molto sospetto). All’esterno delle virgolette (quindi anche dopo) vigono le regole comuni: la maiuscola è, quindi, regolata dalla punteggiatura (disse: “Vieni” e le fece un cenno / disse: “Vieni”. E le fece un segno).
Per la concordanza del pronome di cortesia rimando alla FAQ “Lei”, “voi”, “loro” dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

È corretta l’espressione “Non dimenticherò quello che mi hai detto: mi scrivo tutto”?

 

RISPOSTA:

Sì: scriversi (tutto)mangiarsi (una pizza)farsi (una passeggiata) sono verbi che non avrebbero bisogno del pronome di appoggio, ma lo aggiungono per esprimere una forte partecipazione emotiva all’azione. Rispetto a scrivere, insomma, scriversi significa qualcosa come ‘scrivere con attenzione’.
Chiaramente, in contesti formali scriversi e simili vanno sostituiti con espressioni più precise, come, appunto, scrivere con attenzionemangiare con soddisfazionefare volentieri ecc.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Registri, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vi scrivo per avere una delucidazione in merito all’analisi del seguente periodo:
“Non credevo che Marco e Francesco avrebbero preso seriamente in considerazione quanto era stato detto loro”.
Non credevo = principale.
che Marco e Francesco avrebbero preso in considerazione = subordinata oggettiva di 1° grado.
quanto era stato detto loro = subordinata dichiarativa di 2° grado.
È corretto considerare la proposizione quanto era stato detto loro come dichiarativa e non come oggettiva? Se in luogo dell’espressione prendere in considerazione vi fosse stato un verbo semplice (valutare o considerare), nell’analisi avrei classificato la subordinata come oggettiva.

 

RISPOSTA:

La proposizione quanto era stato detto loro è relativa. In questo caso, infatti, quanto equivale a ciò che. La proposizione rimane relativa anche cambiando il verbo reggente. Quanto può introdurre anche una interrogativa indiretta: non so quanto rimarrò; non può, invece, introdurre una oggettiva o una dichiarativa.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In un libro sulla tecnica di meditazione ho letto: “Non appena vi accorgete che state pensando, dovete dire tra voi pensiero“.
La domanda è questa: in questo contesto dire tra voi significa ‘nella vostra mente’ o ‘in silenzio’? Cioè per dire a sé stessi una parola, non è necessario dirlo esternamente quindi facendo sentire la parola ad altri?

 

RISPOSTA:

Il verbo dire può ben indicare l’atto del pensiero esplicito, nel quale la persona formula pensieri ben definiti, ma senza esternarli né vocalmente né per iscritto. Questo atto avviene sia nella propria mente, sia in silenzio.
Nell’espressione dite tra voi c’è un’altra possibile ambiguità. I pronomi personali sono tutti anche riflessivi, tranne lui / lei e loro, che diventano  nella forma riflessiva. Per questa ragione, i sintagmi tra noi e tra voi possono essere interpretati come reciproci o come riflessivi. Nel primo caso, una frase come dite tra voi “pensiero” significa ‘dite pensiero l’uno all’altro’ (evidentemente ad alta voce); nel secondo caso, la stessa frase significa ‘dite pensiero ognuno nella propria mente’ (evidentemente in silenzio).
In presenza di più di una persona, tra voi risulterebbe ambiguo tra queste due interpretazioni, ma nel caso specifico, relativo alla meditazione, l’interpretazione riflessiva è senz’altro quella corretta.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Pronome
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Se una donna fa un regalo ad un uomo, si dice “lei le ha regalato” oppure “lei gli ha regalato”?

 

RISPOSTA:

La forma oggi corrente e considerata corretta è lei (soggetto) gli (‘a lui’) ha regalato qualcosa. Il pronome atono (o particella pronominale) le, invece, sta per ‘a lei’. 
Fino a qualche decennio fa, inoltre, si sarebbe detto ella gli ha regalato qualcosa, ma il pronome soggetto di terza persona ella è ormai disusato e adatto soltanto a contesti estremamente formali.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Qual è la forma giusta di queste frasi?
1. Necessita / necessiti cambiare il parabrezza della tua auto (forma impersonale).
2. La si è fatta / si è fatto la composizione (forma passiva al passato).
3. Lo si sono fatti…
Bisogna, insomma, concordare il participio con il soggetto? 
4. Quando (non avere) ________________ la febbre alta e il mal di gola, è meglio non prendere antibiotici.
In questa frase bisogna usare non si ha o non si hanno?

 

RISPOSTA:

Nella prima frase si deve scegliere necessita, perché la forma impersonale è sempre la terza singolare. L’altra forma, necessiti, non sarebbe sbagliata, ma non è impersonale: assume come soggetto tu. Va detto che il verbo necessitare è raro e usato quasi esclusivamente con il complemento oggetto (“Quel palazzo necessita una ristrutturazione”, ma anche “Quel palazzo necessita di una ristrutturazione”); quando il complemento diretto è rappresentato da una proposizione (di tipo soggettivo) si preferisce c’è bisogno di o è necessario.
Nella seconda frase l’accordo del participio con il complemento oggetto, la composizione, è obbligatorio se interpretiamo il verbo come passivo. In questo caso, però, la composizione è il soggetto e non può essere ripreso con un pronome diretto. Il pronome si può usare se interpretiamo il verbo come impersonale, e quindi la composizione ne è il complemento oggetto. Si noti che, senza il pronome, il verbo impersonale diviene invariabile, quindi si è fatto la composizione.
In conclusione, la frase può prendere queste forme: 1. la si è fatta la composizione (il verbo non è passivo, bensì impersonale e la composizione è complemento oggetto); 2. si è fatto la composizione (il verbo è impersonale, senza pronome di anticipazione); 3. si è fatta la composizione (il verbo è passivo e la composizione ne è il soggetto).
Lo stesso vale per la terza frase. Lo si sono fatti è impossibile (come anche li si sono fatti); possibili forme sono li si è fatti e si è fatto (con il verbo impersonale) e si sono fatti (con il verbo passivo, equivalente a sono stati fatti).
Nella quarta frase, la forma verbale più comune è non si hanno, perché la febbre alta e il mal di gola sono il soggetto della frase equivalente (molto improbabile nell’uso): “Quando la febbre alta e il mal di gola non sono avuti”. Possibile, ma raro, anche non si ha, con il verbo impersonale, quindi invariabile.
​Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gradirei sapere come sia corretto scrivere la frase: “Eravate tutti paesani miei e non l’ho sapevate”.

 

RISPOSTA:

L’ortografia della frase è non lo sapevateL’ho è uguale a lo ho, ma il verbo avere in questa frase non può essere inserito, visto che c’è già il verbo sapevate.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

nelle frasi riportate di seguito la specificazione del soggetto, oltre che indispensabile per la determinazione della persona singolare, è corretta in italiano o è sconsigliabile se non in contesti informali?
Non ho avuto paura, ma non perché io sia un eroe.
Non è che io voglia criticarla.
Non so che cosa io possa aver fatto.

 

RISPOSTA:

Rilevo intanto che se la specificazione fosse indispensabile, come lei presuppone, non potrebbe essere anche sconsigliabile: sarebbe una contraddizione. In ogni caso, tale specificazione non è né indispensabile né sconsigliabile. Nel caso del congiuntivo presente, l’identità delle tre forme del singolare (io siatu sialui sia) rende necessario specificare il soggetto, ma per convenzione l’obbligo riguarda soltanto la seconda persona, mentre la prima e la terza si possono esplicitare se necessario per la chiarezza. Per l’imperfetto, nel quale la confusione può avvenire tra la prima e la seconda persona (io fossitu fossilui fosse), l’obbligo vale, ugualmente, soltanto per la seconda persona.
Pur non essendo indispensabile, comunque, la specificazione del soggetto pronominale di prima persona nelle sue frasi non è affatto sconsigliabile, né marcata come informale. Il soggetto può sempre essere espresso, anche quando non sia strettamente necessario, per esprimere un’opposizione rispetto ad altri possibili soggetti. Nella sua prima frase, per esempio: non perché io sia un eroe sottolinea che altri potrebbero essere eroi; non perché sia un eroe mancherebbe di questa sfumatura contrastiva. Lo stesso vale per le altre frasi: io voglia criticarla lascia intendere che l’emittente sappia che altri la criticano, o potrebbero criticarla (non esclude, cioè, che una critica le possa essere mossa); io possa aver fatto, ugualmente, suggerisce che altri possano aver fatto qualcosa.
L’unico caso in cui è sconsigliabile ribadire il soggetto pronominale, anche se si vuole dare una sfumatura contrastiva (che, quindi, deve essere espressa in altro modo), è quello in cui nel co-testo o nel contesto siano presenti due o più referenti potenzialmente forici del pronome (quindi per forza di terza persona). Ad esempio, nella frase “Luca accompagnò Andrea alla macchina quindi lui tornò a casa” lui non può essere Luca, ma può essere Andrea oppure un altro referente nominato prima (ma in quest’ultimo caso la costruzione sarebbe ambigua e dovrebbe essere riformulata). Se, invece, si intende dire che Luca sia tornato a casa bisogna lasciare il soggetto della coordinata implicito: “Luca accompagnò Andrea alla macchina quindi tornò a casa”. Se, infine, si vuole sottolineare l’opposizione tra l’azione di Luca e quella di Andrea si può scrivere: “Luca accompagnò Andrea alla macchina quindi tornò a casa, mentre Andrea no” (o simili).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È corretto dire “Ti avrei scritto solo una volta che avessi letto tutto”?

 

RISPOSTA:

Dal punto di vista sintattico non ci sono errori nella costruzione. Una volta che si comporta come se, quindi tutta la frase segue il modello del periodo ipotetico della irrealtà. 
L’unica debolezza della frase è nella coreferenza: il soggetto di avessi letto è ambiguo, perché potrebbe essere sia io sia tu. Per convenzione, nel caso del congiuntivo presente o imperfetto è obbligatorio esplicitare il soggetto pronominale di seconda persona: “Ti avrei scritto solo una volta che tu avessi letto tutto”, mentre si può lasciare implicito se si tratta della prima persona: “Ti avrei scritto solo una volta che (io) avessi letto tutto”. Se si vogliono evitare equivoci, però, è consigliabile esplicitare il soggetto anche se si tratta della prima persona.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Si dice la telefono o le telefono?

 

RISPOSTA:

Bisogna ricordare che il verbo telefonare è intransitivo: io telefono a qualcuno (non *io telefono qualcuno). Il pronome, pertanto, deve essere le ‘a lei’ (e, ugualmente, mitiglicivigli o loro o a loro).
La confusione è dovuta senz’altro alla sovrapposizione di chiamare, che, invece, è transitivo e infatti regge laio la chiamo, ma io le telefono.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella seguente affermazione quale pronome si usa? “Ho visto Lisa a pranzo e gli / le ho detto di venire stasera”.

 

RISPOSTA:

Dal momento che il complemento di termine è femminile (= a Lisa), si usa le. Il pronome gli si riferisce, invece, a nomi maschili.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È sbagliato dire una persona che vogliamo bene? Inoltre, si dice a cui vogliamo bene o cui vogliamo bene?

 

RISPOSTA:

Per essere sicuri di quale funzione sia svolta dal relativo basta fare la prova della reggenza sostituendolo con un pronome personale: nel nostro caso che vogliamo bene diventa le vogliamo bene (non la vogliamo bene), oppure vogliamo bene a lei (non vogliamo bene lei).
Nell’italiano contemporaneo si sta diffondendo il cosiddetto che relativo non flesso, che sostituisce tutte le altre forme del relativo (ovvero cui preceduto da preposizione). Si tratta di un uso trascurato, accettabile soltanto in contesti molto informali e parlati. Per un approfondimento sulla questione si può leggere anche la risposta n. 2800522 dell’archivio di DICO.
Intercambiabili, invece, sono cui e a cui; la variante senza preposizione risulta più ricercata e quindi più formale, quella con preposizione è più comune e comunque valida in tutti i contesti.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri
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Categorie: Morfologia

QUESITO:
Vorrei sapere se le frasi che elencherò qua sotto sono tutte corrette:
1. i miei amici devono venirmi a prendere.
2. I miei amici devono venire a prendermi.
3. I miei amici mi vengono a prendere.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono tutte corrette. La terza si discosta decisamente per la mancanza del verbo servile, mentre le prime due sono del tutto equivalenti.
Quando il verbo è accompagnato da un verbo servile e richiede un proonome clitico (in questo caso mi), quest’ultimo può essere inserito tanto in coda al verbo quanto in testa al gruppo formato da verbo servile più verbo. Quindi possiamo avere devono prendermi e mi devono prendere. Lo stesso avviene quando il verbo fa parte di una perifrasi aspettuale o un’espressione molto comune che si comporta come una perifrasi aspettuale (come venire a + infinito): vengono a prendermi / mi vengono a prendere. Nei suoi esempi, troviamo sia il servile dovere sia l’espressione venire a + infinito, per cui il pronome può trovarsi in tre posizioni diverse, formando le due versioni della frase da lei proposte e la seguente: mi devono venire a prendere
Tra le tre, la variante più formale è quella con il pronome unito al verbo. Suggerisco di leggere, in proposito, anche questa risposta  dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Ho dei dubbi su alcuni esercizi sui pronomi proposti da un sussidiario di scuola primaria, secondo me un po’ confusi…
Nella frase “Molte volte veniamo disturbati per nulla”, nulla ha valore di pronome indefinito o di avverbio?
Nella frase “Mia sorella ha quattordici anni, ma vorrebbe averne diciannove per andare all’università”, diciannove è pronome numerale pur essendoci la particella ne che già sostituisce il nome?
Nella frase “Siamo due fratelli: Gianni ha quattro anni, io ne ho il doppio”, doppio ha funzione di pronome numerale?

RISPOSTA:

Il problema della prima frase è dovuto forse all’ambiguità dell’espressione per nulla. Questa, infatti, può significare tanto ‘per motivi futili, senza una vera ragione’, quanto ‘affatto, assolutamente no’. Il significato inteso nella frase è certaemente il primo (visto che il secondo si usa quasi esclusivamente in frasi negative): in questo caso nulla è pronome indefinito, sostituibile con nessuna cosa. Nel secondo caso nulla sarebbe, per la verità, sempre un pronome indefinito, che, però, insieme alla preposizione per forma una perifrasi o locuzione avverbiale. In una frase come “Dimmi pure, non mi disturbi per nulla”, per esempio, per nulla significa letteralmente ‘per nessuna cosa, per nessuna ragione, in nessun modo’; partendo da questo significato, la perifrasi si è cristallizzata dinenendo a tutti gli effetti un avverbio. 
Nulla si può usare come avverbio anche senza per: “Non me ne importa nulla”; anche qui è chiara la funzione di partenza di pronome (= ‘non me ne importa nessun aspetto’), che si è cristallizzata trasformando la parola in un avverbio.
Per quanto riguarda i numerali, nella prima frase diciannove è un pronome, e la presenza di ne non cambia la sua natura. Si noti che lo stesso avviene con nulla (“Non me ne importa nulla“) e avverrebbe con qualsiasi altro aggettivo/pronome indefinito: ne vorrebbe avere alcuni
Nell’ultima frase, il doppio è ancora pronome numerale. In questo caso, il dubbio potrebbe essere se doppio non sia da considerarsi nome (non può essere, invece, aggettivo, visto che è preceduto dall’articolo e ha chiaramente la funzione di rimandare a un altro referente). La natura quasi nominale degli aggettivi che non accompagnano nomi è già stata discussa nella risposta n. 2800253 dell’archivio di DICO (ma si può vedere anche la 2800269).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella frase “Ognuno ha le sue idee, ma bisogna rispettare quelle altrui”, ognuno è un pronome; invece altrui che funzione ha? 

RISPOSTA:

Ha la funzione che gli è propria sempre nell’italiano moderno, ovvero quella di aggettivo possessivo. Anticamente era possibile usarlo anche come pronome, con il singificato di ‘qualcun altro’ o ‘a qualcun altro’.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

vorrei chiedervi se, in determinati casi, le soluzioni con ci (e non solo) e si, a seconda del messaggio implicito che veicolano, possano coesistere.  
Ecco gli esempi elaborati:  
1. Ho chiamato il consulente per sapere come muoverci.
2. Ho chiamato il consulente per sapere come muoversi.
3. Dico una cosa, tanto per capirci.
4. Dico una cosa, tanto per capirsi.
5. So quand’è il momento di fermarci.
6. So quand’è il momento di fermarsi.
7. Il nostro obiettivo è rialzarci.
8. Il nostro obiettivo è rialzarsi.
9. Il concetto, per intenderci, è “parlare meno e pensare di più”.
10. Il concetto, per intendersi, è “parlare meno e pensare di più”.
11. Quando guardo le partite di calcio sono agitato: è tutto un alzarmi e rimettermi a sedere.
12. Quando guardo le partite di calcio sono agitato: è tutto un alzarsi e rimettersi a sedere.
Le costruzioni con ci e mi sopra elencate possono essere validate sottintendendo la componente, per così dire, particolare dell’azione, con ricadute specifiche sul soggetto? Per sapere come muoverci = ‘come ci dobbiamo muovere’; per capirci = ‘affinché noi ci capiamo’; di fermarci = ‘in cui noi ci dobbiamo fermare’; alzarmi e rimettermi a sedere = ‘io mi alzo e mi rimetto a sedere’, non qualcun altro.
Al contrario, le costruzioni con si possono essere validate per la funzione generica che potrebbero rivestire, come se fossero espressioni cristallizzate? Per sapere come muoversi = ‘come è opportuno muoversi in questi casi’; per capirsi = ‘affinché si possa capire’; di fermarsi = ‘in cui, in generale, ci si debba fermare’; alzarsi e rimettersi a sedere = ‘ci si può alzare e rimettersi a sedere, e quando ci sono le partite sono io a farlo’.

 

RISPOSTA:

La sua riflessione è in generale corretta: la possibilità di costruire le frasi nei due modi rispecchia le funzioni standard dei pronomi: ci riferisce le azioni a noi (l’emittente e un’altra persona o altre persone), si le riferisce a una generalità impersonale di cui, in modo molto sfumato, fa parte anche l’emittente. La sua analisi delle singole frasi, però, non è sempre corretta: dalla stessa riflessione, infatti, deriva che alcune delle frasi da lei proposte non ammettano entrambi i pronomi, perché sono in partenza riferite senz’altro a un gruppo che contiene l’emittente. In particolare non sono ben formate la 4 e la 8, mentre la 10 è al limite dell’accettabilità (grazie al fatto che manca il verbo alla prima persona, che, invece, è nella 4). La 12 è accettabile, ma ha un significato del tutto diverso dalla 11: in quest’ultima alzarmi e rimettermi a sedere descrivono il comportamento dell’emittente e spiegano, quindi, in che senso egli sia agitato; nella 12, alzarsi e rimettersi a sedere descrivono il comportamento di tutte le persone presenti nella situazione, compreso (ma non per forza) l’emittente, e quindi non sembrano avere la stessa funzione logica di alzarmi e rimettermi a sedere. L’interpretazione più probabile per questa frase è, piuttosto, che il comportamento delle persone rappresenti il motivo per cui l’emittente si agita.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei approfondire il capitolo della particella si, già analizzata di recente da voi linguisti in uno degli esempi contenuti nell’articolo numero 2800208. L’utente ha espresso dubbi molto simili ai miei, che non mi sono mai stancato di consultare le varie grammatiche disponibili sul mercato per provare a comporre un quadro organico di regole.
Ho letto che “con un verbo intransitivo o transitivo senza oggetto espresso, il si non ha valore passivante ma impersonale”; su un’altra grammatica, a proposito del passivante, si legge “la regola vale anche quando il verbo, all’infinito, è preceduto da verbi servili o fraseologici. Se però la frase si complica, è naturale considerare quel si come un soggetto impersonale, equivalente a noi”; infine “con il si passivo il
soggetto logico è sempre umano e plurale, mentre nella costruzione passiva non ci sono restrizioni sul tipo di soggetto logico”.
Sono un appassionato di lingua italiana ma non un professore di lettere; ho quindi raccolto le idee e sono arrivato a formulare questi costrutti, su cui vi sarei grato se interveniste:
“Non si mangiano le mele” (corretto, passivante)
“Non si mangia le mele” (corretto, impersonale)
“Sono soldi che non si riescono a spendere” (corretto, passivante)
“Sono soldi che non si riesce a spendere” (corretto, impersonale)
“Si devono a controllare i bambini” (corretto?)
“Non si potevano più guardare i film” (corretto?)
“Si riuscirebbe a vedere distintamente tutti i singoli effetti delle vostre scelte” (stando alle regole, il si impersonale è doveroso, perché gli effetti sono formalmente distanti dal verbo; ma adottare il passivante sarebbe comunque possibile?).
Mi aggancio in parte all’utente che mi ha preceduto nella presentazione del quesito e vi chiedo se l’uso impersonale è sempre attuabile oppure ci sono determinati casi che lo inibiscono. Non per scegliere la strada comoda, ma con l’uso impersonale saremmo certi di non sbagliare mai? Potrei ad esempio scegliere di scrivere o dire “Non si spende più soldi” anziché “Non si spendono più soldi”, “Sono libri che non si legge più” anziché “Sono libri che non si leggono più”?
Cosa significa, all’atto pratico, che il “soggetto logico è sempre umano e plurale”? Se fosse inanimato e singolare, la costruzione con il si passivante non potrebbe essere ottenuta?

 

RISPOSTA:

Come sintetizzato da una delle grammatiche da lei citata, il si ha funzione impersonale solamente con i verbi intransitivi e con i transitivi senza oggetto espresso (che, quindi, si comportano come gli intransitivi): “Di solito il giorno di Natale si va a pranzo dai parenti”; “Non si parcheggia in seconda fila” (si noti, a margine, che il costrutto impersonale assume quasi sempre una sfumatura di obbligo, o deontica). Negli altri casi, cioè con i verbi transitivi con l’oggetto espresso, il si assume funzione passivante, trasformando l’oggetto grammaticale in soggetto logico: “Si mangia la mela” = “La mela è mangiata”; “Si mangiano le mele” = “Le mele sono mangiate”.
Le frasi “Si mangia le mele” e “Sono libri che non si legge più” sono ammissibili soltanto se si sottintende il soggetto noi: “Noi si mangia le mele” e “Sono libri che noi non si legge più”. Questa costruzione è ben nota alla tradizione letteraria italiana e oggi è ancora vitale nel parlato toscano; fuori dalla Toscana, però, è poco comune. Inoltre, se non esplicitiamo il soggetto noi, frasi come “Si mangia le mele” e “Non si legge più libri” possono ingenerare confusione, perché coincidono con le forme colloquiali del verbo transitivo con il pronome che indica un particolare coinvolgimento del soggetto nell’azione, come in “Mi sono bevuto una bella birra” (= ‘Mi sono bevuto una bella birra con piena soddisfazione’).
Quando il verbo costruito con si è seguito da una intera proposizione, detta soggettiva, il si è considerato impersonale (come se il verbo fosse transitivo senza oggetto). In realtà, si noterà che il costrutto equivale a quello passivante: “Si mangia la mela” (ovvero “La mela è mangiata”) equivale a “Si dice che tu sia un ritardatario” (ovvero “Che tu sia un ritardatario è detto”). Classificazioni a parte, però, il dettaglio a cui prestare attenzione è che, in questo caso, il verbo reggente la soggettiva è sempre singolare, anche quando il soggetto della proposizione soggettiva è plurale: “Si spera che cadranno molte stelle a Ferragosto”, non *”Si sperano che cadranno molte stelle a Ferragosto”; “Si dice che ieri siano arrivati molti ospiti”, non *”Si dicono che ieri siano arrivati molti ospiti”. Questa regola equivale a quella correttamente intuita da lei a proposito della frase “Si riuscirebbe a vedere distintamente tutti i singoli effetti delle vostre scelte”; dal momento che gli effetti è il soggetto della proposizione soggettiva, non dovrebbe influire sulla concordanza del verbo reggente l’intera proposizione, si riuscirebbe, che rimane singolare: la costruzione *”Si riuscirebbero a vedere… gli effetti…” è, pertanto, scorretta.
Tale scorrettezza, però, è riscontrabile nel discorso poco sorvegliato e, in alcuni casi, passa decisamente inosservata. Tra le due frasi seguenti, ad esempio, si fa fatica a considerare scorretta la prima: “Sono soldi che non si riescono a spendere” / “Sono soldi che non si riesce a spendere”. Pur trovandoci nella medesima situazione della frase precedente (“Si riuscirebbe a vedere…gli effetti”), qui riuscire e spendere i soldi sono talmente solidali da poter quasi essere considerati un unico verbo e indurre a trascurare la regola grammaticale. Come se ciò non bastasse, la costruzione con la proposizione relativa complica ulteriormente la situazione. In questi casi, in astratto la scelta più formale rimane quella di considerare a spendere una proposizione soggettiva retta da si riesce, ma in pratica si può considerare valida anche l’eventuale infrazione (non si riescono a spendere). Allo stesso modo si comportano tutti i verbi detti modali, che aggiungono una sfumatura al verbo semanticamente più rilevante e sintatticamente lo reggono; in un caso come il seguente, qualunque parlante propenderebbe per la seconda soluzione, in astratto scorretta, e scarterebbe, al contrario, la prima, in astratto corretta: “I punti dell’ordine del giorno si comincia a trattare dopo le comunicazioni preliminari”; “I punti dell’ordine del giorno si cominciano a trattare dopo le comunicazioni preliminari”.
Ci sono casi, poi, in cui il verbo che tecnicamente regge il complemento oggetto ha un legame ancora più stretto con il verbo che lo regge: i costrutti con i verbi servili (doverepoterevolere). Uno di questi esempi è “Si devono controllare i bambini” (non “a controllare”, come ha scritto lei, forse per distrazione). Come si nota, il verbo che regge il complemento oggetto è controllare, mentre è dovere che concorda con esso; un altro esempio è “Non si potevano più guardare i film”. È il caso limite di solidarietà tra verbo reggente e proposizione soggettiva, che impedisce di considerare corrette le costruzioni “Si deve controllare i bambini”, “Non si poteva più guardare i film”.
Queste ultime ridiventano accettabili se consideriamo sottinteso (ma è molto meglio esplicitarlo) il soggetto noi, secondo la costruzione tradizionalmente letteraria e oggi toscana: “Noi si deve controllare i bambini”, “Noi non si poteva più guardare i film”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Se Marco volesse inviarci una lettera, lo farebbe senza esitare”, inviarci è un verbo riflessivo?

 

RISPOSTA:

No: inviarci è composto da inviare + ci, quindi inviare a noi. Il soggetto del verbo e il complemento oggetto, quindi, corrispondono a due persone diverse; nei verbi riflessivi, invece, coincidono: io mi lavo ‘= ‘io lavo me stesso’.
Per un approfondimento sui verbi riflessivi potete consultare la risposta n. 2800558 dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“Ogni giorno i corpi celesti si scontrano formando delle nuvole pronte a schiantarsi sulla terra. I meteoriti si incendiano”.
Le forme riflessive si scontrano, schiantarsi e si incendiano sono proprie, reciproche o pronominali? Perché? 

 

RISPOSTA:

I verbi pronominali, cioè quelli che hanno un pronome integrato nella loro forma, comprendono i verbi riflessivi, i reciproci, i transitivi pronominali, gli intransitivi pronominali e i procomplementari. Non è possibile fare qui una disamina dei verbi procomplementari, ma le suggerisco di consultare l’archivio di DICO con le parole chiave procomplementare e procomplementari
Per il resto, si noti che i verbi davvero riflessivi sono pochissimi: vestirsilavarsipettinarsischiaffeggiarsi e qualche altro. Per essere riflessivo, infatti, il verbo deve descrivere un’azione che parte del soggetto e arriva al soggetto stesso. I reciproci, o riflessivi reciproci, sono di più: salutarsiabbracciarsibaciarsiaffrontarsiguardarsi… In pratica, qualsiasi verbo transitivo può diventare reciproco tramite l’aggiunta di un pronome atono, se descrive un’azione che parte da un soggetto A e arriva a un soggetto B e nello stesso tempo parte dal soggetto B e arriva al soggetto A. 
Il grosso dei verbi comunemente costruiti con un pronome, però, rientra nelle categorie dei pronominali intransitivi. In questi verbi, il pronome non indica una particolare destinazione dell’azione, ma fa soltanto parte della forma della parola. Prendiamo il verbo scontrarsi: in una frase come “La macchina si è scontrata con l’autobus” l’azione non parte dal soggetto per arrivare allo stesso soggetto, né ha le caratteristiche della reciprocità. Schiantarsi è, pertanto, un verbo pronominale, né riflessivo, né reciproco (né procomplementare). Esso è, inoltre, intransitivo, come si vede dalla frase (con l’autobus). Si distingue, quindi, anche dai pronominali transitivi, come lavarsi seguito da un complemento oggetto (“Mi lavo le mani”). I pronominali transitivi sono chiamati da alcuni riflessivi apparenti o riflessivi indiretti, perché alcuni coincidono con i verbi riflessivi con in più il complemento oggetto. Altri, invece, non diventano riflessivi se sono privati del complemento oggetto, ma rimangono semplicemente incompleti; per esempio strapparsi i capelli non potrebbe mai essere riflessivo.
Si noti che neanche tagliarsi i capelli senza il complemento oggetto diviene riflessivo: mi sono tagliato, infatti, può essere riflessivo soltanto nel caso in cui io abbia inflitto il taglio a me stesso. Quasi sempre, invece, mi sono tagliato significa ‘qualcosa mi ha tagliato’ (“Mi sono tagliato con il coltello” = ‘il coltello mi ha tagliato’). Non a caso, in inglese mi sono tagliato non si dice I cut myself ma I got cut, cioè ‘ho ricevuto un taglio’.
Nella sua frase, il verbo schiantarsi potrebbe sembrare reciproco, ma a ben vedere descrive un evento che coinvolge due (o più) soggetti, non un’azione reciproca. Per capire meglio questa differenza sfumata si confronti “I corpi celesti si scontrano” con “Le squadre si affrontano”. Nel primo caso si scontrano descrive quello che succede quando si verificano certe condizioni; nel secondo caso si affrontano descrive il processo che parte da entrambi i soggetti coinvolti e arriva specularmente agli stessi soggetti. A conferma di questa differenza, nel primo esempio sarebbe necessario aggiungere la locuzione pronominale l’uno con l’altro, oppure l’avverbio reciprocamente, o simili (perché la reciprocità non è contenuta nel verbo): “I corpi celesti si scontrano l’uno con l’altro”; nel secondo esempio, al contrario, il pronome sarebbe superfluo e persino scorretto (perché il verbo è reciproco): *”Le squadre si affrontano l’una con l’altra”. 
A maggior ragione, schiantarsi e incendiarsi non possono dirsi né riflessivi né reciproci (né procomplementari): l’azione dello schiantarsi, infatti, arriva a una persona o un oggetto diversi dal soggetto, mentre incendiarsi non parte dal soggetto. 
Incendiarsi potrebbe essere riflessivo soltanto in una frase come “Lo sconosciuto si è cosparso di benzina e si è incendiato” (come si è visto per tagliarsi), ma in italiano quest’uso sarebbe molto strano, perché per un’azione come questa si usa il costrutto darsi fuoco.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Potete verificare se l’analisi dei seguenti periodi è corretta?
1. Il problema dell’inquinamento atmosferico è concentrato soprattutto nelle aree metropolitane (principale) / dove il riscaldamento degli edifici, il traffico e gli impianti industriali hanno effetti dannosi sulla qualità dell’aria (subordinata) / e causano danni alla salute dei cittadini, (coordinata) / ragione per cui spesso si ricorre a misure di emergenza come il blocco del traffico dei veicoli più inquinanti (subordinata alla coordinata).
2. Il presidente della Repubblica ha accolto con gioia la delegazione degli sportivi (principale) / che hanno partecipato alle olimpiadi (subordinata) / e che hanno dato prestigio al nome dell’Italia (coordinata).
3. Tutti coloro che parteciperanno al viaggio di istruzione (principale) sono invitati ad alzare la mano, (subordinata 1° grado) / perché il numero esatto dei ragazzi venga comunicato in segreteria (subordinata 2° grado).
4. Una volta saliti sul treno ci accorgemmo (principale) che il biglietto non era stato obliterato (subordinata).
5. Ho pensato (principale) che la soluzione migliore sia (subordinata 1° grado) quella indicatami da Luigi (subordinata 2° grado).
6. Senza che lui lo sapesse, (subordinata 1° grado) / gli amici di Marco hanno organizzato una festa, (principale) / perché è tornato da un soggiorno all’estero che è durato più di un anno (subordinata 1° grado).

 

RISPOSTA:

 1. L’analisi è sostanzialmente corretta, ma incompleta: la subordinata introdotta da dove è un relativa; la coordinata è coordinata alla subordinata relativa; la subordinata alla coordinata è anch’essa relativa. Quest’ultima è introdotta da un nesso relativo (ragione per cui), nel quale il nome tecnicamente fa parte della proposizione reggente, visto che è l’antecedente del pronome per cui. Può, però, essere considerato un tutt’uno con il relativo (si evita, così, di tagliare la proposizione reggente dopo ragione, lasciandola un po’ sospesa: e causano danni alla salute dei cittadini, ragione).
Esulando dall’analisi, rilevo che la virgola prima di ragione non va bene; l’uso di un incapsulatore (ovvero una parola che racchiude un intero enunciato) come ragione è uno dei tipici casi in cui è richiesto il punto e virgola (o, al limite, il punto fermo). La necessità di inserire un segno di interpunzione più forte della virgola rafforza l’idea che ragione faccia parte più della relativa subordinata che della reggente.
2. Analisi corretta. Manca, però, l’indicazione del tipo di subordinata, ovvero relativa, e dell’informazione riguardo alla coordinata, che è coordinata alla subordinata.
3. Scorretta. Ecco la versione corretta: “Tutti coloro sono invitati (principale) che parteciperanno al viaggio di istruzione (subordinata di 1° grado relativa) ad alzare la mano (subordinata di 1° grado oggettiva o finale), / perché il numero esatto dei ragazzi venga comunicato in segreteria (subordinata di 2° grado finale).
4. Scorretta. Ecco la versione corretta: “Una volta saliti sul treno (subordinata di 1° grado temporale implicita) ci accorgemmo (principale) che il biglietto non era stato obliterato (subordinata di 1° grado oggettiva).
5. Sostanzialmente corretta. La subordinata di 1° grado è oggettiva; la subordinata di 2° grado è relativa implicita. In questo caso non c’è dubbio che quella faccia parte della reggenre, quindi: che la soluzione migliore sia quella / indicatami da Luigi.
6. Scorretta. Ecco la versione corretta: “Senza che lui lo sapesse (subordinata di 1° grado esclusiva), / gli amici di Marco hanno organizzato una festa (principale), / perché è tornato da un soggiorno all’estero (subordinata di 1° grado causale) che è durato più di un anno (subordinata di 2° grado relativa).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

È vero che posso dire un pane da un chilo e un pane di un chilo?
E poi: Finora l’italiano non mi sembrava come lo spagnolo che ha l’uso pleonastico dei pronomi personali. Vorrei chiedere il significato o il motivo per cui in queste frasi dove c’è già un oggetto (nome o subordinata) si usa il pronome:
“Certo che lo tratti bene il tuo Sergio, eh?”
“Lo so che costa di meno”.

 

RISPOSTA:

Sì, sono corrette entrambe le espressioni: un pane (o forse meglio una pagnotta di pane, cioè un tipo specifico di pane, non il pane in astratto: visto che si specifica il peso, si tratta di un tipo concreto di pane) di un chilo o da un chilo.
Per quanto riguarda la seconda domanda, ha ragione, l’italiano non ha grammaticalizzato i pleonasmi pronominali come lo spagnolo: a mi me gusta. Tuttavia, in alcuni casi, nello stile informale, sono ammessi pleonasmi pronominali, in costrutti detti dislocazioni a destra (“lo mangio il panino”) o dislocazioni a destra (“il panino lo mangio”), per dare maggior valore o al soggetto, o all’oggetto, o al rapporto tra gli interlocutori ecc. Talora i costrutti dislocati (tra i quali rientrano anche a me mi e simili) sono talmente frequenti, in alcune espressioni italiane, da lasciar supporre una forma di grammaticalizzazione simile a quella dello spagnolo e di altre lingue. Per es.: “La sai l’ultima”, “Lo sai che ore sono”, “Me ne infischio di quello che dici” ecc., in cui le forme con pleonasmo sono molto più naturali di quelle senza pleonasmo.
Quindi, andando nello specifico ai suoi esempi:
– “Certo che lo tratti bene il tuo Sergio, eh?” rende molto più l’idea del trattare bene (cioè enfatizza il significato del verbo), quasi dando per scontato l’oggetto, che poi alla fine viene ripreso. Infatti, nell’equivalente senza ripresa pronominale, il concetto di trattare MOLTO bene qualcuno è molto indebolito: “Certo che tratti bene il tuo Sergio, eh?”
– “Lo so che costa di meno” rende molto meglio l’idea che io lo so già, rispetto al semplice “so che costa di meno”. Con sapere, poi, come detto poco sopra, questi usi pleonastici sono talmente comuni da lasciar supporre una prossima definitiva grammaticalizzazione alla spagnola, con saperlo, piuttosto che sapere, come unica forma possibile. 
Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Hanno archiviato la pratica per coloro il cui adempimento era stato regolarmente soddisfatto.
La frase è corretta (coloro il cui adempimento…)?

Cerca di pensare a quanti spasimanti molesti dai quali tuo padre ti ha riservato.
La frase è corretta (quanti spasimanti… dai quali)?

 

RISPOSTA:

Le frasi non sono ben formate.
Nella prima, il cui adempimento (equivalente a l’adempimento dei quali) può significare sia l’adempimento fatto dai quali, sia l’adempimento fatto nei confronti dei quali. Già questa ambiguità è dannosa per la comprensione e dovrebbe essere evitata. A questa, inoltre, si aggiunge l’inconciliabilità tra il soggetto ademplimento e il predicato essere soddisfatto. Non sono molti i verbi che ammettono adempimento come argomento (che sia il soggetto o il complemento oggetto): mi viene in mente soltanto ottemperare. In alternativa, si può modificare la frase in modo da trasformare adempimento nel verbo adempiere a, inserendo un complemento oggetto generico. In conclusione propongo due versioni riformulate della frase:
1. hanno archiviato la pratica per coloro che avevano regolarmente ottemperato all’adempimento;
2. hanno archiviato la pratica per coloro che avevano regolarmente adempiuto all’indicazione / all’ordine / all’obbligo.
Nella seconda frase c’è un pleonasmo: la stessa funzione relativa, infatti, è svolta tanto dall’aggettivo quanti quanto dal pronome dai quali. Per evitare il pleonasmo, bisogna eliminare una delle due parole. Anche in questa frase, inoltre, il verbo della relativa non è ben scelto: riservare da spasimanti non è un’espressione felice. Propongo questa riformulazione:
1. cerca di pensare alla quantità di spasimanti molesti dai quali tuo padre ti ha protetto.
Altre variazioni sono possibili, per esempio:
2. cerca di pensare a quanti spasimanti molesti tuo padre abbia allontanato da te per proteggerti.
Possibile, ma problematica (quindi da riservare a contesti informali), anche la seguente:
3. cerca di pensare da quanti spasimanti molesti tuo padre ti abbia protetto.
Il problema di questa variante è la sostituzione sintetica della preposizione retta dal verbo pensare (a) con quella richiesta da quanti per svolgere la sua funzione di complemento di allontanamento (da) in relazione al verbo proteggere.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Leggo su un giornale a diffusione nazionale, nell’articolo di fondo: “… non prendeteci in giro, che non siamo ragazzini …”. Quel che non dovrebbe essere accentato ed avere quindi valore di perché poiché? Altrimenti, come definire quel che?

 

RISPOSTA:

Uno dei tratti più caratteristici dell’italiano contemporaneo è la diffusione nello scritto del che polivalente, ovvero di usi del connettivo che non facilmente inquadrabili nella classificazione grammaticale tradizionale. Si tratta di usi ben noti alla tradizione dell’italiano, ma fino a qualche decennio fa tipici del parlato. Tipici, ma non esclusivi, come dimostrano, per fare un esempio tanto antico quanto illustre, i tanti passi danteschi nei quali la funzione di che è indecidibile (per una disamina di questi passi si può leggere la voce dell’Enciclopedia dantesca dedicata proprio a che). Il più famoso è probabilmente il verso 3 dell’Inferno: “ché la diritta via era smarrita”, che nell’edizione Petrocchi (qui riprodotta) appare come ché, ma sul quale ci sono parecchi pareri discordi che vorrebbero la restituzione di che (secondo la lezione di molti codici). Il valore del connettivo nel passo, infatti, può sì essere causale, ma non si possono escludere il valore consecutivo (= tanto che la diritta via era smarrita), quello semplicemente aggiuntivo (= e la diritta via era smarrita), quello che alcuni definiscono modale (= in modo tale che / sicché la diritta via era smarrita) e addirittura, ma si tratta dell’interpretazione meno accreditata, quello relativo (= nella quale la diritta via era smarrita). Tra gli usi del che polivalente, infatti, rientra anche quello di relativo generico, che può sostituire cui e tutti gli altri casi (in cuiper cui ecc.). 
Questi usi sono rimasti ai margini della tradizione scritta fino a qualche decennio fa; anche le occorrenze dantesche sono da interpretare come tentativi di imitare il parlato o occasionali abbassamenti di tono. L’avvicinamento relativamente recente tra lo scritto e il parlato ha portato a una sempre maggiore accoglienza di tratti come questo nello scritto, a partire ovviamente da testi di bassa formalità (famoso il verso della canzone di Jovanotti perché non c’è niente che ho bisogno) o brillanti, come certi articoli giornalistici di commento. Lo scritto mediamente formale ancora rifiuta questi usi, ma è possibile che essi si diffondano sempre di più in futuro. Già oggi, per esempio, il che pseudorelativo all’interno della frase scissa (“È lui che ho visto”) è pienamente accettato. Sulla frase scissa, in particolare, si possono leggere diverse risposte nell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“Facciamo la spesa agli anziani” equivale a facciamogli la spesa o a facciamoli la spesa?

 

RISPOSTA:

La variante corretta tra le due è facciamogli la spesa.
A differenza delle particelle pronominali (tecnicamente chiamate pronomi cliticimitici vi, che possono fungere da oggetto diretto e indiretto (prendimi = ‘prendi me’ e ‘prendi a / per me’), i pronomi clitici di terza persona si distinguono per la varietà delle forme. In funzione di oggetto diretto avremo lo la al singolare e li e le al plurale (prendili = ‘prendi loro’); in funzione di oggetto indiretto, invece, avremo gli le al singolare (prendigli = ‘prendi a / per lui’), e il solo gli al plurale (prendigli = ‘prendi a / per loro). *”Facciamoli la spesa” è, pertanto, impossibile; “Facciamogli la spesa”, invece, significa ‘facciamo la spesa a / per lui’ e ‘facciamo la spesa a / per loro’ (la disambiguazione è affidata al co-testo). L’uso di gli per ‘a loro’ è ormai accettato a tutti i livelli di formalità; è possibile, però, ancora propendere per “Facciamo loro la spesa” in un contesto molto formale.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri
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QUESITO:

Nelle frasi seguenti è stato usato il pronome relativo. C’è qualche differenza logica o di significato? Qual è, tra le due, la soluzione da preferire?
1. Il preside del Liceo è Giovanni, COLUI CHE ha insegnato per molti anni Filosofia.
2. Giovanni è il preside del Liceo, CHE ha insegnato per molti anni Filosofia.

 

RISPOSTA:

Tra le due frasi ci sono due differenze, entrambe nella proposizione principale, la disposizione dei sintagmi e la presenza del pronome colui. La prima differenza rispecchia un diverso scopo informativo: nella prima frase si vuole informare su chi sia il preside del Liceo, nella seconda su chi sia Giovanni. Per quanto riguarda colui, esso funge da antecedente di che, quindi è il referente dell’informazione della proposizione relativa; a sua volta, colui rimanda a Giovanni, che è subito adiacente. Questa formulazione con la relativa indirettamente riferita alla persona di cui si sta parlando separa l’informazione della relativa da quella della reggente, suggerendo che la prima sia rilevante per descrivere Giovanni, ma in modo indipendente dal suo ruolo di preside. Senza colui, al contrario, l’informazione della relativa è collegata a quella della reggente, tanto da suggerire che ci sia una relazione di quasi motivazione tra le due (quasi Giovanni è il preside del Liceo perché ha insegnato Filosofia).
Nella seconda frase, l’informazione della relativa si aggancia direttamente alla persona di cui si sta parlando; stranamente, però, questa non è Giovanni, ma il preside del Liceo.
La seconda formulazione, insomma, non è felice, perché, a prescindere dalla presenza di colui, allontana il pronome che dal suo antecedente naturale, che è Giovanni. È preferibile, pertanto, usare la prima versione, con o senza colui, oppure, nella seconda, anticipare la relativa come incidentale: “Giovanni, che ha insegnato per molti anni Filosofia, è Il preside del Liceo”. Con l’incidentale, colui diviene superfluo in ogni caso, perché l’anticipazione dell’informazione della relativa rispetto a quella della principale fa risaltare la prima come dotata di una rilevanza autonoma e rende molto improbabile l’interpretazione quasi motivazionale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome
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QUESITO:

Quanti errori ho commesso?

1) La sua spavalderia non gli permetteva di riflettere, di capire che dare libero sfogo agli istinti giovanili fosse una cosa; che [si può eliminare?] agire con sfrontatezza e leggerezza, invece, sarebbe diventato pericoloso.  
2) Riguardo all’inferno, disse che l’aveva considerato una punizione solo per gli adulti; e se tutte le ragazze che si comportavano come lei fossero finite all’inferno, per stare calde, non ci sarebbe stato bisogno del fuoco eterno. 
3) Sapevano che essere genitori comportasse anche subire grandi delusioni e provare forti dispiaceri. 
4) Quando i ragazzi cominciarono a guardarla con interesse, capì che stava andando nella giusta direzione; o meglio, che lei immaginava fosse quella giusta. 
5) Suor Teresa iniziò dicendo che il giorno dopo sarebbe partita per i ritiri spirituali e che [questo che si può togliere?] sarebbe stata assente per due giorni.   
6) Si consolò pensando che l’esame saltato, in definitiva, era / fosse stato una fortuna, anche se dal retrogusto amarissimo: gli aveva permesso di scoprire le bugie raccontategli.
7) In quel momento entrò la sua segretaria che, vedendolo in quello stato, gli chiese preoccupata… [le virgole si possono togliere?] 
8) Lo pestarono senza pietà, peggio di come lui aveva / avesse fatto con l’altro. 
 

RISPOSTA:

1) Il che si può togliere. Facendolo, però, la struttura della frase, e il suo significato, cambiano leggermente, perché sarebbe diventato pericoloso si configura non più come subordinata di di capire ma come coordinata alla principale.
2) Corretta. Qui l’assenza del che introduttivo di non ci sarebbe stato bisogno del fuoco eterno non cambia quasi niente, perché la proposizione non può che essere subordinata a disse
3) Corretta. Il congiuntivo imperfetto è usato secondo i modi della consecutio temporum per esprimere contemporaneità nel passato.
4) La seconda parte è poco coesa, perché che rimane a metà strada tra il pronome relativo e la congiunzione correlativa del primo che. Una possibile correzione è la seguente: o meglio, nella direzione che lei immaginava fosse quella giusta
5) Come la 2.
6) Corrette entrambe le varianti. Il congiuntivo è la soluzione più formale. Dopo i due punti si potrebbe aggiungere un segnale discorsivo per maggiore chiarezza: gli aveva, infatti, permesso di scoprire le bugie raccontategli.
7) Le proposizioni incidentali, come la gerundiva vedendolo in quello stato, richiedono le virgole di apertura e chiusura.
8) Corrette entrambe le varianti. Il congiuntivo è la soluzione più formale.
Raphael Merida 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Le mie perplessità riguardano l’uso del si combinato con un’altra particella pronominale (mi siti sici sivi sigli silo sile sile si). Cioè, forme particolari (e forse un po’ anomale) di pronomi combinati in cui l’abbinamento col si presupporrebbe un significato (e un uso) di tipo riflessivo, impersonale o passivante.
Dunque, se diciamo: “da noi ci si diverte”, il pronome combinato ci si penso abbia valore impersonale (mi sembra che manchino sia il soggetto sia l’oggetto). Nel caso di: “mi si è rotta la bici”, il pron. comb. mi si pare abbia valore passivante (penso che il soggetto sia a me e l’oggetto la bici). Invece, per quanto riguarda l’uso riflessivo non riesco a trovare alcun esempio.
Per concludere, vi chiedo un quadro esplicativo il più completo possibile. Inoltre, vi chiedo anche alcuni riferimenti bibliografici. 
Per cortesia, potreste fare una valutazione delle seguenti frasi e indicare a quale categoria appartengono (riflessiva, impersonale o passivante) i pronomi combinati?
1. Al lavoro ci si stanca;   
2. Dopo cena, con gli amici ci si incontra al bar; 
3. Qui ci si occupa di tasse;   
4. ti si vede una ruga;   
5. (a lui) gli si è intenerito il cuore;   
6. (a loro) gli si sono spalancate le porte;   
7. (a Gino) lo si è appreso solo ora;   
8. la si contatta e sentiamo che dice;   
9. li si raduna e facciamo il punto;   
10. vi si invita un sabato sera.

 

RISPOSTA:

Non c’è niente di anomalo nelle combinazioni di pronomi: è una pratica soluzione che la lingua italiana offre per unire un verbo pronominale (ovvero un verbo che incorpora nella sua forma anche un pronome) a un ulteriore pronome, che può avere la funzione di riferirsi a un nome (ti si vede = ‘si vede te’) o a un luogo (ci si va= ‘si va lì’).
Le regole di combinazione dei pronomi (in termini di combinazioni possibili e impossibili, ordine reciproco dei pronomi, cambiamento della loro forma) sono complicate dall’intrecciarsi, in queste parole, di funzioni diverse, a volte coesistenti. I casi più semplici sono quelli legati a mi e ti (che diventano me e te), gli e le (che diventano glie unito graficamente al secondo pronome), ci (ce), vi (ve) con funzione di complemento di termine in combinazione con lolalile, che hanno la funzione di complementi oggetto: me lo dai = ‘dai questa cosa a me’; glieli dai = ‘dai queste cose a lui / a lei / a loro’; ve le do = ‘do queste cose a voi’.
Con i verbi riflessivi, le combinazioni non si possono avere, perché l’azione rimane nell’orbita della stessa persona, che è soggetto e oggetto, e non è previsto un complemento indiretto pronominalizzabile. Con questi verbi, infatti, mitici, vi servono da complementi oggetti: mi lavo = ‘lavo me’ e gli e le, che possono essere soltanto complementi indiretti, non si possono usare, ma vengono sostituiti da si
L’unica combinazione possibile con i verbi riflessivi è ci si (“Nel Medioevo ci si lavava di rado”), in cui si ha la funzione di rendere il verbo riflessivo e ci funge da soggetto generico, che rende il verbo impersonale: ci si lavava = ‘la gente si lavava’. Con i verbi non riflessivi, il soggetto generico è rappresentato proprio da si: “Gli si è aperta una nuova opportunità”; con i verbi riflessivi, questo comporterebbe una sequenza si (impersonale) + si (riflessivo), non ammessa: da qui la soluzione ci + si
Come mai usiamo proprio ci per sostituire il si impersonale? Perché la prima persona plurale è quella che si avvicina di più all’idea dell’impersonalità. La usiamo anche in altri casi con questa funzione: “Dobbiamo smettere di inquinare” = ‘Si deve smettere di inquinare’.
Non basta: come spieghiamo casi come me li lavo? Semplice: in questo caso lavarsi non è riflessivo, ma transitivo: me li lavo = ‘mi lavo questi (i capelli, per esempio)’. Nei verbi transitivi pronominali, il pronome integrato non ha una funzione logica codificata, ma sottolinea la partecipazione del soggetto all’azione. 
Un po’ diverso è un caso come me la sono mangiata tutta, in cui mi (me) non serve ad altro che a enfatizzare la soddisfazione derivante al soggetto dal completamento dell’azione. Si noti che con i verbi transitivi pronominali si usano non gli e le ma si (se): se li lava = ‘si lava questi’. Lo stesso vale per i verbi che aggiungono il pronome enfatico: se l’è mangiata tutta = ‘si è mangiata tutta questa’. Questo dimostra che, sebbene non siano riflessivi, questi verbi veicolano una sfumatura di riflessività, sotto forma di beneficio che deriva dall’azione stessa al soggetto che la compie. Ovviamente, se la persona del pronome indiretto non coincide con quella del soggetto torniamo al primo caso illustrato sopra: glieli lavo = ‘li lavo a lui / lei / loro’. 
Esistono anche verbi intransitivi pronominali che hanno un si integrato nella loro forma. Se reggono un complemento di termine o simili ci sono le condizioni per avere una combinazione di tipo mi si: “I fedeli le si sono votati” = ‘i fedeli si sono votati a lei (alla Madonna, per esempio)’. Anche con questo tipo di verbi si crea la sequenza si + si quando vengono resi impersonali: *si si vota alla Madonna = ‘la gente si vota alla Madonna’. Come per i verbi passivi, anche in questo caso il primo si viene sostituito da cici si vota alla Madonna. Si noterà che abbiamo evitato la sequenza le ci si (“Le ci si vota”); essa è, però, del tutto corretta, per quanto insolita.
Più raro il caso di verbi intransitivi pronominali che hanno integrato un ci e richiedono un complemento di termine: “ti ci vuole molto?” = ‘a te ci vuole molto?’. Con questi verbi si crea la sequenza ci + ci alla prima persona plurale: *”Ci ci vuole mezz’ora per arrivare” = ‘a noi ci vuole mezz’ora per arrivare’. In questo caso la sequenza viene evitata, non modificata; possiamo avere “A noi ci vuole mezz’ora per arrivare”, oppure una variante semplificata (pratica, ma poco corretta): “Ci vuole mezz’ora per arrivare”, in cui l’unico ci sta per entrambe le funzioni, o, come soluzione estrema, la riformulazione, per esempio “Abbiamo bisogno di mezz’ora per arrivare” o “Ci mettiamo mezz’ora per arrivare”. Si noti che anche metterci è un verbo pronominale con ci, ma è transitivo e soprattutto non richiede un complemento di termine; può, quindi, essere accompagnato da una combinazione di pronomi soltanto se lo facciamo impersonale: ci si mette. C’è una differenza, però, tra ci si metteci si lava e ci si vota: nel primo si è impersonale e ci è intergrato nel verbo, nel secondo si è riflessivo e ci è impersonale, nel terzo si è integrato nel verbo e ci è impersonale.
La sequenza ci + ci si crea a volte anche quando ci ha valore locativo, ad esempio in “- Come vi trovate nella nuova scuola? – *Ci ci troviamo bene”. Anche in questo caso non ci sono sostituzioni possibili; le soluzioni sono quelle viste per *ci ci vuole.
I verbi pronominali che reggono un complemento costruito con di possono essere accompagnati da ne; per esempio preoccuparsinon me ne preoccupo = ‘non mi preoccupo di questa cosa / queste cose’. Si noti che nella forma impersonale preoccuparsi è analogo a votarsici si preoccupa.
Anche ne può avere funzione locativa (= ‘da quel luogo’), ma è improbabile che si creino sequenze ne + ne (che sarebbero, comunque, evitate come quelle ci ci). Possibile, invece, la sequenza di vi con funzione locativa e vi personale: *”Vi vi porto se fate i bravi” = ‘vi porto lì se fate i bravi’. La possibilità di sostituire sempre vi locativo con ci, però, rende questa evenienza facilmente risolvibile: “Vi ci porto se fate i bravi”. Si noti, per completezza, che la sequenza ci vi è impossibile, nonostante che il pronome personale sia più solidale con il verbo rispetto al pronome locativo. Esiste un ordine fissato per la collocazione dei pronomi, che è difficile da spiegare, ma che è applicato infallibilmente dai parlanti nativi; eccolo: 1. mi; 2. glile complementi indiretti; 3. vi; 4. ti; 5. ci; 6. si riflessivo; 7. lolalile complementi diretti; 8. si impersonale; 9. ne. L’elenco va letto nel senso della priorità: mi precede sempre tutti quelli che vengono dopo; gli segue mi ma precede tutti quelli che vengono dopo e così via.
Veniamo, infine, alle sue frasi: 1-3 sono casi di verbi pronominali impersonali, sul modello di ci si preoccupa (sostitutivo di *si si preoccupa); 4-6 sono casi di verbi pronominali che reggono complementi indiretti; 7-10 sono casi di verbi impersonali con complementi oggetto pronominalizzati.
Come sempre in casi così intricati, il riferimento migliore è la Grande grammatica italiana di consultazione (Bologna, Il Mulino), in particolare il volume I alle pagine 588-592.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella forma di cortesia qual e il pronome indiretto plurale: “Signori, Gli / Vi darò il libro più tardi”?

 

RISPOSTA:

Il pronome di cortesia singolare lei (terza persona) coincide, al plurale, con il pronome voi, e quindi con la particella pronominale vi: “Signori, vi darò il libro più tardi”. Ricordiamo che i pronomi di cortesia possono essere scritti con l’iniziale minuscola o maiuscola; quest’ultima scelta è, ovviamente, più formale.
Fino a qualche decennio fa, voi era molto diffuso anche al singolare, al posto di lei (“Signore, vi darò il libro più tardi”). Oggi quest’uso suona un po’ antiquato, anche se in alcune regioni del Sud è, al contrario, la forma più comune ancora oggi. Fino a qualche tempo fa era anche possibile usare il pronome loro per rivolgersi direttamente a una pluralità di persone (“Signori, loro cosa desiderano?”). Ormai estremamente formale e burocratico, l’uso di loro rimane oggi in uso in alcune formule di cortesia cristallizzate come desiderano? In ogni caso loro, quando è usato come pronome di cortesia, non può essere sostituito da gli nel complemento di termine; quindi: “Signori, ho dato loro un buon consiglio o no?” (non *”Signori, gli ho dato un buon consiglio o no?”).
Per un approfondimento sui pronomi di cortesia (leivoiloro), la invito a leggere la risposta 2800291 dell’archivio di DICO.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Pronome, Registri
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho letto la frase “Matthew sentì crescere dentro di lui”, che mi lascia dubbiosa circa la sua validità. Dato che il pronome lui rimanda al soggetto, non sarebbe stato il caso di procedere con la scelta di ?
“Matthew sentì crescere dentro di sé”.
Qual è la regola che stabilisce quando usare  e quando, invece, lui / lei?

 

RISPOSTA:

La regola è proprio quella da lei individuata:  si riferisce al soggetto, di terza persona singolare o plurale, della stessa proposizione, che può anche coincidere con quello della proposizione reggente (“Luca è una persona che vuole tutto per sé” = ‘Luca vuole tutto per Luca’; “Luca e Mario sono persone che vogliono tutto per sé” = ‘Luca e Mario vogliono tutto per Luca e Mario’); lui / lei, o, al plurale, loro, si riferiscono a una terza persona o a terze persone (“Luca è una persona che vuole tutto per lui” = ‘Luca vuole tutto per un’altra persona di sesso maschile’; “Luca e Mario sono persone che vogliono tutto per loro” = Luca e Mario voglio tutto per altre persone’). La frase “Matthew sentì crescere dentro di lui”, quindi, deve essere corretta come fatto da lei (oltre che, ovviamente, completata con il soggetto del verbo crescere). 
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In questa frase è meglio usare il passato prossimo?
“Hai visto il giallo di ieri sera? È stato / era fantastico!”

Inoltre vorrei chiedere se a questa domanda tutt’e due le risposte sono giuste: “C’è un supermercato qui vicino?”
“Sì, c’è uno (vicino alla posta)”.
“Sì, ce n’è uno (vicino alla posta)”.

E in ultimo: alla domanda “Quanto vino hai bevuto?” posso rispondere “Non ne ho bevuto niente / nessuno”?

 

RISPOSTA:

La soluzione migliore per la prima frase è il passato prossimo. Il film, infatti, viene considerato come un evento che ha avuto un inizio e una fine, quindi compiuto. Con l’imperfetto, invece, lo si rappresenta come continuato.
La variante corretta per la seconda domanda è “Sì, ce n’è uno (vicino alla posta)”. È necessario, infatti, specificare nella risposta di che cosa ci sia uno, ovvero “Ce ne è (ce n’è) uno” = ‘di supermercati c’è uno’.
La risposta alla terza domanda non è corretta perché l’uso di ne contrasta con i pronomi niente nessuno. Così costruita, la frase corrisponde a “Non ho bevuto niente di vino”, o “Non ho bevuto nessuno di vino”, che non vanno comunque bene, perché “Non ho bevuto niente” non ha bisogno di ulteriori specificazioni, e “Non ho bevuto nessuno” vuol dire ‘non ho bevuto nessuna persona’. Quindi, o si dice “Non ho bevuto niente”, oppure si usa un avverbio: “Non ho bevuto affatto / per niente / assolutamente vino”. Possibile, nel parlato (da evitare nello scritto), anche la dislocazione a destra: “non ne ho bevuto vino”. 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi pongo alcuni dubbi e spero che possiate chiarirmeli.
1. Dire a loro oppure dire loro?

2. “Cara Lucia, come stai? E il piccolo Luca?”
Riguardo a questa frase chiedo se è corretta così com’è scritta.

3. “Scrivere a te che non conosco / ti conosco è bello”.

4. “Mi chiedo perché a ogni saggio qualcuno si rompe / rompa un braccio”.

5. “Una volta che i miei genitori si arrabbiano, solo dopo due giorni gli passa…”.
In questa frase è corretto l’uso di gli è corretto?

6. “A volte di domenica vado agli scout”.
Si può dire agli scout?

7 . “Oh cara / Oh, cara quando mi hai concesso quel ballo ero emozionato”.

 

RISPOSTA:

1. Vanno bene entrambe le soluzioni (la stessa possibilità si ha con cui / a cui).
2. La frase va benissimo in un contesto anche scritto di media formalità. Più formale, perché più precisa, è l’esplicitazione del secondo verbo, visto che cambia la persona.
3. La variante corretta è “Scrivere a te che non conosco è bello”. Il che, infatti, può riferirsi a tutte le persone, anche se è più comune che rimandi a un antecedente alla terza persona singolare o plurale. Da evitare la ripetizione del pronome, che non avrebbe alcuna funzione informativa, ma servirebbe solamente a esplicitare un riferimento già sufficientemente esplicito.
4. Vanno bene entrambe le varianti; quella con il congiuntivo è più formale.
5. Gli per (a) loro è ormai accettato in tutti i registri.
6. L’espressione sintetica è efficace e trasparente, ma adatta a un contesto colloquiale, perché non perfettamente formata secondo le regole standard. In italiano, la preposizione di moto a luogo quando il luogo è rappresentato da una persona è da, non a (per esempio: “Ogni domenica vado dai miei nonni”, non *”ai miei nonni”). Vado dagli scout, però, sarebbe inteso come ‘vado a trovare gli scout’, mentre qui si intende che si va a fare le attività degli scout. Da qui la soluzione abborracciata vado agli scout. Per risolvere la questione in linea con la lingua standard si dovrebbe sostituire scout con un luogo, per esempio: vado alla sede degli scout, oppure con un’azione: vado a partecipare alle attività degli scout, o simili. In questo modo, l’espressione si allunga e diviene faticosa, per cui è ovvio, e legittimo, che parlando tra amici si preferisca la variante sintetica.
7. Vanno bene entrambe le varianti. Obbligatoria, invece, la virgola dopo l’allocuzione (ovvero il complemento vocativo): “Oh cara, quando mi hai…”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Si può dire “a me mi piace”?

 

RISPOSTA:

​In contesti formali, soprattutto scritti, è da evitare, perché pleonastico (lo stesso pronome è ripetuto, sebbene in forma diversa, due volte). Nella lingua d’uso comune, però, specie nel parlato, il costrutto è molto diffuso e ampiamente accettato, tanto che sarebbe eccessivo sostenere che non si possa dire. 
La ragione del successo di questa costruzione, nota come dislocazione a sinistra, è che chiarisce bene quale sia l’argomento di cui si parla (tecnicamente il tema) e quale sia l’informazione fornita su quell’argomento (tecnicamente il rema). In questo caso il tema è a me, il rema mi piace. Per fare un altro esempio analogo, in una frase come “A te non ti credo più” (nella quale si nota la ripetizione del pronome, prima nella forma a te, poi nella forma atona ti), il tema è a te, il rema tutto il resto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Sarò molto grato se Loro potranno aiutarmi e spiegare quando si usano agg. poss. SuaVostraLoro in formule di cortesia e di cerimoniale.
Nel Vocabolario online (http://www.treccani.it/vocabolario/maesta) ho trovato la seguente spiegazione:
 

Maestà… 2. a. Titolo e appellativo spettante in origine all’imperatore, in seguito esteso anche ai re: Sua M. reale e imperiale, o più comunem. Sua M. il Re Imperatore, o meglio la M. del Re Imperatore, espressioni con le quali si indica un re che è anche imperatore; in usi assol.: Sua M., il re o la regina; le Loro Maestà, il re e la regina; nel discorso diretto: Vostra M.le Vostre Maestà

Cioè, se ho capito bene, quando si rivolge direttamente a un Re o Imperatore, si dice: Vostra Maestà (con valore di 2a persona sing.), le Vostre Maestà (con valore di 2a persona pl.). Per es.: “Il sottoscritto chiede alla Vostra Maestà / alle Vostre Maestà”. Quando parliamo di un Re o Imperatore, invece, si dice: Sua Maestà (con valore di 3a persona sing.), le Loro Maestà (con valore di 3a persona pl.). Per es.: “Vorrei parlare con Sua Maestà”; “le Loro Maestà sono occupate e non possono riceverLa”.
Lo stesso principio nell’articolo (http://www.treccani.it/vocabolario/signoria):
 

Signoria… 3. Titolo di grande onore e rispetto attribuito nell’ultimo medioevo ad alti dignitarî, funzionarî e magistrati e a signori di stati assolutistici, esteso poi dal primo Cinquecento, anche per influsso spagnolo, a persone di media condizione: Vostra SignoriaSua S., e, al plur., le Vostrele Loro Signorie

Però nello Zingarelli 2004, p. 1017 trovo:
 

Loro B agg. poss. di 3a pers. pl. … preposto o postposto a un sostantivo si usa in formule di cortesia e di cerimoniale (con valore di seconda persona pl.): le signorie lorole Loro maestàle Loro altezze!

Questo significa che le Loro maestà si può usare come forma equivalente a le Vostre Maestà quando si rivolge direttamente al Re e alla Regina? 
Vorrei anche sapere:
– se il principio spiegato nel Vocabolario Treccani è valido anche per: AltezzaEccellenzaGraziaSantitàSignoriaEminenza?
– Se questi titoli / appellativi si possono usare quando ci si rivolge a una donna (per es. una principessa, una ambasciatrice, una donna autorevole.

 

RISPOSTA:

I pronomi di cortesia e gli aggettivi possessivi che li accompagnano, Lei / Loro (Suo e Loro) e Voi (Vostro), si distinguono soprattutto per il grado di formalità che veicolano: il Voi (quindi l’aggettivo Vostro) è sentito come massimamente rispettoso, mentre il Lei / Loro (con gli aggettivi Suo e Loro) è leggermente meno formale. L’unica distinzione funzionale tra le due persone riguarda le allocuzioni: Vostra Maestà / Signoria / Grazia difficilmente può essere sostituito da Sua Maestà o simili, che suona al limite dell’accettabilità. Fuori da questo contesto, Voi e Lei (e i rispettivi aggettivi possessivi) sono intercambiabili; si può dire, per esempio: “Vostra Signoria, la prego di concedermi il suo perdono”, oppure “Vostra Signoria, vi prego di concedermi il vostro perdono”. Nel caso ci si rivolga a un re, sarebbe più indicata questa seconda soluzione, più ossequiosa.
Si noti che, se è comune scrivere con lettera maiuscola i pronomi di cortesia, meno comune è scrivere con maiuscola anche gli aggettivi possessivi. È, inoltre, possibile sostituire Lei con Ella (quando è soggetto), ma la rarità di questo pronome nell’italiano contemporaneo rischia di caratterizzare il discorso come troppo cerimonioso. 
La possibilità di passare al Lei dopo una allocuzione con il Voi è ben attestata anche nella tradizione; si legga questa lettera di Giacomo Leopardi del 1823:
 

Signoria Illustrissima Padrona Colendissima. Trovandomi sul punto di partire per Recanati mia patria, e non avendo avuto la sorte di poter inchinare Vostra S. Ill. [ovvero Vostra Signoria Illustrissima] nelle due volte che mi sono recato presso di Lei a questo effetto, mi fo coraggio di servirmi della presente per chiedere i di Lei comandi nel mio imminente ritorno alla mia patria, dove sarò disposto e pronto agli ordini di S. Em. [ovvero Sua Eminenza] il Signor Cardinale Segretario di Stato, e attenderò con fiducia gli effetti della sua alta beneficenza. Avrei desiderato e voluto personalmente fare omaggio all’Eminenza Sua, offrirmi umilmente ai cenni della Medesima, e profondamente ringraziarla delle benigne disposizioni che si è degnata di mostrare in favor mio, ma straniero come io sono alla Corte, timido per natura e per abitudine, e persuaso che ciascuno istante rapito alle vaste occupazioni di sua Eminenza sia rapito allo Stato, e al bene de’ sudditi Pontificii, ho sperato che V.S. Ill. si sarebbe compiaciuta di supplire alla mia insufficienza, rappresentando questi miei umili sentimenti all’Eminenza Sua, ed invocando la benignità della Medesima sulla mia rispettosa ritenutezza. 

Come si vede, Leopardi passa dal Vostra al Lei rivolgendosi alla stessa persona, e in ogni caso usa il verbo alla terza persona singolare quando il soggetto è questa persona (ho sperato che V.S. Ill. si sarebbe compiaciuta). Quando si riferisce a un terzo personaggio illustre, usa ovviamente il Lei e l’aggettivo sua (sua Eminenza), perché non si tratta di una allocuzione, ma di un riferimento.
Per quanto riguarda il genere, i pronomi e gli aggettivi possessivi di cortesia sono ambigenere: potremmo dire che quando li usiamo ci rivolgiamo e ci riferiamo non alle persone ma ai ruoli politici che ricoprono, quindi non facciamo distinzione tra uomini e donne.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho una domanda sulla possibilità di poter eseguire l’analisi logica nelle frasi interrogative.
Cioè se scrivo: “La politica a chi piace?” , “a chi” è un complemento di termine, oppure non è possibile l’analisi?

 

RISPOSTA:

Sì, l’analisi è possibile ed è complemento di termine. Nelle frasi interrogative dirette il complementatore, cioè l’elemento su cui verte la domanda, in questo caso, cioè il pronome interrogativo chi, va trattato alla stregua di un normale sintagma pieno, come se fosse, per esempio: “la politica piace ai giovani?” o, senza domanda, “la politica piace ai giovani”. Solo che, al posto di “ai giovani”, o simili, c’è chi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

L’avverbio di luogo ci sostituisce il luogo. Ad esempio: “- ti trovi bene a Firenze? – Sì, mi ci trovo bene”.
Coniughiamo le prime tre persone: Io mi ci trovo beneTu ti ci trovi beneLui / lei ci si trova bene.
Come vede, alla terza persona il ci precede il si, mentre nella prima e seconda persona l’avverbio di luogo è posto dopo i pronomi.
Possiamo affermare che questo “capovolgimento” è dovuto ad una questione di natura fonetica?
E ancora: per la prima persona plurale, credo nessuno dica e tanto meno scriva Noi ci ci troviamo bene. Come ovviare? Usare la variante vi al posto di ci, renderebbe la frase ancora più bislacca: Noi vi ci troviamo bene.
E allora? Come sostituire il ci ci?

 

RISPOSTA:

L’inversione dell’ordine dei pronomi (ci è un pronome, non un avverbio, per quanto abbia la funzione di indicare un luogo) alla terza persona è dovuta probabilmente alla concorrenza di una struttura simile, che ha avuto il sopravvento. Su lui si ci trova ha influito la forma impersonale del verbo pronominale corrispondente a trovarsi, ovvero trovarci ‘riconoscere’, in cui ci fa parte del verbo stesso e si è il pronome che rende il verbo impersonale. Il fenomeno non riguarda questo verbo in particolare, ma si è prodotto su tutti i verbi analoghi allo stesso modo: metterci ha influito su mettersifarci su farsivederci su vedersi ecc.
Anche all’infinito è evitata la forma che dovrebbe essere regolare, trovarsici, in favore di quella analoga ai verbi con ci, quindi trovarcisi
Tale adattamento è antico: non ho trovato esempi di si ci in testi letterari più recenti di questo: “Ad alcuni reggenti, in questo primo anno, dispiacque la novità per gl’incomodi che s’immaginavano dover soffrire, ma dapoi ben si ci accomodarono” (Pietro Giannone, Vita scritta da lui medesimo, 1740 ca.). Per la verità, ho trovato attestazioni anche contemporanee di si ci, in discorsi parlati o scritti trascurati di provenienza siciliana, come questo, tratto da un’intercettazione di due malavitosi della provincia di Palermo: “Allora Vicè, fagli sapere se lui si ci può mettere” (livesicilia.it, 2019), quest’altro, tratto da una dichiarazione del mafioso Giovanni Brusca: “Dopodiché gli dico: ‘Fagli sapere a Totò Riina che ho commesso l’omicidio di Vincenzo Milazzo’, perché lui si ci vedeva tutti i giorni” (repubblica.it, 2019), o questo, da un blog sportivo catanese: “Lui si ci mette sempre l’impegno necessario per se e per la squadra” (ilblogdialessandromagno.it, 2014). Quest’ultimo esempio è davvero notevole, perché il verbo qui usato è metterci ‘impiegare’, non mettersi ‘sistemarsi’ (come nell’esempio precedente), quindi si non è richiesto dalla costruzione, ma è inserito perché lo scrivente si adegua a un modello per lui forte.
Non escludo, quindi, che si ci rimanga ancora oggi come regionalismo popolare siciliano o al massimo meridionale.
Per quanto riguarda la seconda domanda, comunemente si ovvia al problema della ripetizione di ci alla prima plurale con l’eliminazione del ci di luogo (noi ci troviamo bene). Se è necessario sottolineare il luogo, è possibile trasformare il secondo ci in lì / là, che va anteposto o posposto: noi lì / là ci troviamo bene, o noi ci troviamo bene lì .
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedere il Suo aiuto a propositi dei pronomi riflessivi.
1. Quali sono le forme toniche: metenoivoi?
2. È obbligatorio mettere la parola stesso? “Lavo me” o “Lavo me stessa”?
3. È riflessiva la forma “mi compro il vestito”? “Compro a me il vestito”?

 

RISPOSTA:

​1. Le forme toniche del pronome personale complemento di prima e seconda persona singolare e plurale (metenoivoi) coincidono con quelle dei pronomi riflessivi. In altre parole, i pronomi personali hanno funzione riflessiva quando il soggetto coincide con il complemento diretto: io lavo me (stesso) = io mi lavo. La sostituzione di io mi lavo con io lavo me (stesso) è, comunque, marcata: funziona solamente se il parlante vuole contrapporre me a qualcun altro (ad esempio: “Adesso lavo me, più tardi laverò te”). 
Solamente la terza persona singolare e plurale hanno un pronome riflessivo proprio, che è, per entrambe le persone,  nella forma tonica, si nella forma atona. 

2. L’aggettivo stesso accompagna spesso il pronome riflessivo nella lingua comune, ma non è quasi mai obbligatorio. Il caso più comune in cui è fortemente richiesto (quasi obbligatorio) è quando il pronome ha la funzione di complemento predicativo: “Non sono più me stesso” (*”Non sono più me”).

3. “Mi compro un vestito” non è propriamente una frase riflessiva, perché l’azione del verbo non ricade sul soggetto, ma su un complemento oggetto diverso (il vestito). Il pronome, in questo caso, esprime il beneficiario dell’azione, ed è costui che coincide con il soggetto. 
Sebbene questa sia la nostra posizione, va detto che secondo alcuni anche questa funzione rientra nell’ambito della riflessività (si veda, per esempio, http://www.treccani.it/enciclopedia/pronomi-riflessivi_%28Enciclopedia-dell%27Italiano%29/).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedere che in queste frasi la particella ci ha valore avverbiale o idiomatico:

1. Per cuocere la pasta al dente CI vogliono 8-10 minuti. 
2. Per arrivare in centro con l’autobus CI metto venti minuti. 
3. Ieri abbiamo provato a connetterci con i nostri amici all’estero, ma non CI siamo riusciti.
4. Non parlare così forte. CI sento benissimo! 

 

RISPOSTA:

​La distinzione tra valore avverbiale e valore idiomatico non è chiara. Immagino che lei intenda accertare quando ci abbia la funzione propria di pronome e quando, invece, si unisca al verbo per fargli prendere un nuovo significato. In ogni caso, ci non ha mai la funzione di avverbio, anche se a volte è semanticamente equivalente a un avverbio di luogo: “Ci sono andato ieri” = “Sono andato  / in quel posto ieri”.
Nelle frasi da lei proposte, ci è un pronome solamente nella 3, nella quale riuscirci significa ‘riuscire a fare questa cosa’. Nelle altre frasi, ci si fonde con i verbi e non è più semanticamente separabile da essi, producendo 1. volerci ‘richiedere’, 2. metterci ‘impiegare’, 4. sentirci ‘avere il senso dell’udito in una certa condizione’. Questi verbi formati con l’aggiunta di un pronome atono sono detti procomplementari: troverà ulteriori informazioni al riguardo nelle FAQ  Ci penso e ci ripenso: le costruzioni del verbo “pensare”, “Ci si dimentica” come funziona la costruzione impersonale e Non è possibile “starsene” tranquilli con i verbi pronominali dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica, Avverbio, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Vorrei chiedere qualcosa sull’uso del verbo guadagnare con il pronome ci. Perché si dice: “Cosa ci guadagni a comportarti così male?”; perché si usa il pronome ci? È obbligatorio? E cosa significa la frase cosi?

 

RISPOSTA:

​Il pronome atono ci in guadagnarci può avere due funzioni diverse, corrispondenti a due diversi significati del verbo. Può servire a riprendere o anticipare il tema dell’enunciato nel quale è inserito: in “Dalla vendita della casa ci ho guadagnato poco” il tema (dalla vendita della casa) è ripreso da ci; in “Ci ho guadagnato poco dalla vendita della casa” il tema è anticipato. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a sinistra, ripreso da un pronome, o a destra, anticipato da un pronome, è nota come dislocazione e serve a mettere in evidenza proprio il tema; quella a sinistra, in particolare, è utile per collegarlo meglio al co-testo precedente, quella a destra, invece, funziona meglio per creare effetti retorici di ironia o polemica.

Più spesso, però, guadagnarci è un verbo procomplementare; rientra, cioè, in quel gruppo di verbi formati con una o più particelle pronominali che assumono, proprio in forza di queste particelle, dei significati diversi dal verbo base. Tra questi verbi troviamo, per esempio, farcelamettersivedersela e moltissimi altri. Come si può vedere dagli esempi, in questi verbi le particelle sono fuse con il verbo e non hanno una funzione sintattica identificabile; allo stesso tempo, dagli esempi si ricava che questi verbi sono particolarmente appropriati a contesti informali, nei quali rappresentano alternative brillanti a verbi più formali dal significato analogo (per esempio farcelariuscire, mettersi a / iniziare avedersela con / affrontare). Lo stesso vale per guadagnarci, che non è la variante informale di guadagnare, ma corrisponde piuttosto a ottenere; se, infatti, guadagnare riguarda un profitto materiale, guadagnarci si riferisce a un vantaggio astratto. Da questo significato di base, inoltre, guadagnarci ha sviluppato quello relativo all’aumento di valore, che emerge in una frase come “Con la costruzione della fermata della metropolitana la zona ci ha guadagnato”.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Facendo un piccolo ritorno all’uso di NE vorrei chiedere se queste forme sono giuste con l’accordo e se esso *è obbligatorio*:
Come sono i libri di Moravia? Buonissimi!          Ne ho letto uno.
Ne ho letti due/molti/tanti/parecchi/alcuni.  // *Ne ho letto due/molti/parecchi… ???*
Non mi piacciono.         Non ne ho letto nessuno.
Non ne ho letto nessuna (delle poesie)
Come sono le banane? Buonissime!       Ne ho presa una. // *Ne ho preso una. ???*
Ne ho prese due/molte/tante/parecchie/alcune. // *Ne ho preso molte/tante…
???*
Non mi piacciono.       Non ne ho mangiata nessuna. // *Non ne ho mangiato nessuna.  ???*
*E in questo caso e obblagatorio la concordanza o possiamo prescinderne?*
Hai comprato del vino?               Sì, ne ho comprato. /ne ho comprato
Hai comprato della pasta?          Sì, ne ho comprata. /ne ho comprato
Hai comprato dei pomodori?     Sì, ne ho comprati. /ne ho
Hai comprato le mele?                   Sì, ne ho comprato / i due chili.
Alla domanda: Hai mangiato del pane? Hai preparato degni gnocchi?
qual e la risposta giusta?
Si, l’ho mangiato. o : Si, ne ho mangiato.
Si, li ho preparati. o Si, ne ho preparato. / ne ho preparati alcuni.

 

RISPOSTA:

Rispondo caso per caso:
“Come sono i libri di Moravia? Buonissimi! Ne ho letto uno”: va bene la forma al maschile singolare: uno si riferisce a libroBuonissimi però non è adatto ai libri, ma a qualcosa che si mangia, o altro, ma non ai libri. Meglio Bellissimiinteressantissimiottimi o altro.
“Ne ho letti due/molti/tanti/parecchi/alcuni”: l’accordo al plurale è fortemente richiesto, anche se nell’uso informale esiste la variante senza accordo: “Ne ho letto due”.
“Non mi piacciono. Non ne ho letto nessuno”: va bene.
“Non ne ho letto nessuna (delle poesie)”: vale lo stesso che per “Ne ho letto / letti due”, l’accordo al femminile è corretto; la variante senza accordo è ammessa ma meno formale.
“Come sono le banane? Buonissime! Ne ho presa una”: va bene con accordo.
“Ne ho prese due/molte/tante/parecchie/alcune”: va bene accordato.
“Non mi piacciono. Non ne ho mangiata nessuna”: va bene con accordo.
“Hai comprato del vino? Sì, ne ho comprato”. “Ne ho comprato” va bene, ma andrebbe bene anche: “sì, l’ho comprato”, visto che il partitivo di qualcosa di cui non ci specifica la quantità si presta sempre ad essere interpretato come un intero, a meno che non si specifichi un peso preciso, o una misura ecc., per es.: “Sì, ne ho comprati due litri”, meglio di “ne ho comprato due litri”. Sarebbe scorretto, invece, in questo caso: “L’ho comprato due litri”, appunto perché in presenza di quantità va specificato il partitivo ne.
“Hai comprato della pasta? Sì, ne ho comprata”: identico al discorso fatto sopra per il vino: se non si specifica la quantità il partitivo è inutile, e dunque si può rispondere anche: “Sì, l’ho comprata”, ma: “Ne ho comprati due chili”, meglio di “ne ho comprato due chili”. Possibile in astratto, ma rarissima, anche la variante “Ne ho comprata due chili”, con il participio accordato con pasta.
“Hai comprato dei pomodori? Sì, ne ho comprati”: come sopra.
“Hai comprato le mele? Sì, ne ho comprato / i due chili”. La forma più corretta è “Ne ho comprati due chili”, ma andrebbe bene, in astratto, anche “Ne ho comprate due chili”, con l’accordo con mele. Più informale, ma possibile, “Ne ho comprato due chili”, senza accordo.
Quanto infine alle ultime due domande, entrambe le risposte alla prima sono giuste, per il discorso fatto sopra sulla quantità non specificata. Alla seconda domanda, sono corrette, per lo stesso motivo, tutte le varianti; tra “Ne ho preparati alcuni” e “Ne ho preparato alcuni” la prima è più formale.
Fabio Rossi
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Provo a riassumere le cose:
Con l’avverbio NE e obbligatorio la concordanza se c’e solo un pronome indefinito o un numerale:
Delle banane ho comprata una/ho comprate due/ ho comprate molte, parecchie.
Ma se c’e una quantità: pagina, chilo, pezzi, fette: come va l’accordo? Cioè non posso concordare con il soggetto se c’e la quantità come oggetto.
Delle arance ne ho presi due chili. va bene con la concordanza con la quantità.
Ne ho preso due chili. va bene-non è obbligatorio la concordanza, il participio rimane invariato
Ne ho prese due chili. non va bene, non posso concordare con le arance, o rimane invariato il participio o va concordato con la quantità.
Mi scusino per insistere su questo punto, insegno l’italiano e ho spiegato secondo le vecchie regole questo uso e adesso quando mi correggo non voglio sbagliare di nuovo.
Adesso sono nel giusto?

 

RISPOSTA:

I suoi dubbi sono più che legittimi, anche per un madrelingua, dal momento che l’accordo con il ne è uno dei punti d’ombra della nostra grammatica, ovvero uno di quelli poco normati e in cui gli usi valgono più delle regole. Le risposte presenti nell’archivio di DICO sull’argomento (si vedano almeno le domande “Ancora sull’accordo con “ne” e Ancora sull’uso del ne: con o senza accordo del participio passato con l’oggetto? ) riflettono le scelte più comuni e quelle che non destano alcuna reazione negativa nella gran parte dei parlanti. Tutti gli altri usi che cita Lei sono in realtà pure attestati, ma non da tutti condivisi. Pertanto, riassumendo a partire dalle sue parole: tutto vero quello che scrive nella prima parte del suo messaggio. Per quanto riguarda la seconda parte, ovvero in presenza di un quantificatore, la scelta più comune (e dunque da me suggerita) è quella dell’accordo con l’oggetto. Quindi:
“Delle arance ne ho presi due chili” va bene sempre. Le altre due possibilità suscitano qualche perplessità nei parlanti e nei grammatici: “Ne ho preso due chili” (più frequente, ma meno formale) e “Ne ho prese due chili” (più rara).
Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedere qualcosa sull’uso del pronome ne. Come si sa, si può concordarlo sia con il sostantivo sia con la quantità: “Delle caramelle ne ho comprate tre / ne ho comprati due chili”. Mi pare che anche le seguenti frasi abbiano due risposte giuste.
1. Ho tutti i libri di Harry Potter in fila in libreria e ne ho regalato / regalata qualche copia agli amici.
2. Mi sono addormentato guardando la tv e del film ne ho visto / vista solo una parte.
3. Ne ho bevuto / bevuti due bicchieri (di vino).
4. Ne ho bevuta / bevuto un bicchiere (della birra).
5. Ne ho mangiata / mangiate due fette (della torta).

 

RISPOSTA:

Come spiegato in questa risposta dell’archivio, il participio passato dei verbi transitivi preceduto dal pronome ne può concordare con il complemento oggetto oppure rimanere invariato (quest’ultima possibilità è meno formale) . Tutte le sue frasi, quindi, ammettono entrambe le soluzioni: “Delle caramelle ne ho comprate tre” (con comprate concordato con caramelle, sottinteso accanto a tre ) e “Delle caramelle ne ho comprato tre” (con comprato invariabile) . “Delle caramelle ne ho comprati due chili” e “Delle caramelle ne ho comprato due chili”. L’accordo con il referente di ne, pur attestato, è la soluzione più rara (e in alcuni casi risulta artificiosa) : “Ne ho bevuta un bicchiere (della birra) “; più comune: “Ne ho bevuto un bicchiere (della birra) “, perché la forma bevuto è sia quella invariabile, sia quella concordata con il complemento oggetto, un bicchiere. Lo stesso vale per la frase 5: le due forme ineccepibili sono mangiate (concordato con il complemento oggetto, due fette ) e mangiato (invariabile) ; mangiata suscita perplessità.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Credo che in tutta Italia si dica: ” Anche te” invece di “Anche tu”. Esempi: ” Vai a Parigi? Anche te?” Verrai anche te stasera? ” Ora ti ci metti anche te”.  Credo che sia sbagliato l’uso del pronome “te”. Ma a questo punto, in considerazione del fatto che viene utilizzato da tutti, anche in letteratura, che si fa? Cambiamo la grammatica?

 

RISPOSTA:

Ha ragione: esempi come quelli da lei citati, ancorché più comuni al Nord e a Roma che al Sud, sono comunque, almeno al livello informale, comuni in quasi tutta Italia. I motivi potrebbero essere vari e il più importante è forse il seguente: le forme pronominali di complemento oggetto (luileite) meglio si prestano a usi topicalizzati o focalizzati, in cui cioè l’attenzione si concentra sulla persona che prova una certa emozione, ha una certa idea ecc.: “te, ti piace di più carne o pesce?”, “Ti ci metti anche te!” ecc. Con lui e lei la tendenza, da secoli, si è talmente rafforzata da aver scalzato ormai quasi del tutto (già a partire da Manzoni) le relative forme di pronome soggetto: egli ed ella ormai sono, soprattutto il secondo, quasi solo retaggi letterari. Invece con tu (e ancor di più con io) il discorso è diverso, perché un buon numero di parlanti colti ha le sue stesse, giustificatissime, riserve, e magari utilizzano normalmente la formula ormai quasi cristallizzata “io e te”, ma sentono certo stridore da unghie sulla lavagna di fronte a “vieni pure te?”. Che fare, in questi casi? Cambiamo la grammatica? Ma se l’usano tutti? Si chiede assai saggiamente Lei. Come ben comprende, il rapporto tra norma e uso non può che essere fluido, in movimento e in rinegoziazione continua tra gli utenti della lingua, soprattutto negli ultimi decenni. E allora, al momento abbiamo cambiato la grammatica accogliendo lui e lei soggetto, ma forse non è ancora il momento di farlo per te soggetto, dato che un numero molto elevato di parlanti e scriventi, come Lei e come chi le scrive, ancora non sente naturale il te al posto di tu e gran parte degli italiani colti a Sud di Roma la pensa come noi due, credo. Pertanto, in barba allo strapotere romano-milanese, teniamoci ancora un po’ il nostro tu, senza crociate e pronti a cedere quando nessun altro, forse, ci farà più una domanda (bella) come la sua.
 
Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

“Tutt’e due” si può ritenere un pronome personale, dato che contiene un indefinito ma anche un aggettivo numerate?

 

RISPOSTA:

Tutti e due = entrambi non è pronome personale, bensì pronome (o aggettivo, se seguito da un nome) numerativo.
 
Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi grammaticale, Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Marco pensò a cose che solo lui poteva sapere”, vuoi per l’assenza di altre persone, vuoi per il contesto testuale, è chiaro che il pronome lui si riferisca al soggetto, cioè Marco.
Ma in un esempio come “Marco aveva salutato Luigi e si apprestava a rimuginare su fatti che solo lui avrebbe potuto conoscere” mi pare che il referente del pronome sia meno diretto.
Mi piacerebbe ricevere la vostra opinione; nonché, se possibile, qualche indicazione per destreggiarsi in situazioni semantiche simili.
Per inciso, mi torna in mente la differenza d’impiego tra proprio e suo, per distinguere l’attribuzione dell’aggettivo al soggetto o al complemento).

 

RISPOSTA:

​Il pronome personale si riferisce al tema più vicino tra quelli possibili. Per esempio, se nella sua frase ci fosse Maria, oppure i coniugi Rossi, al posto di Luigi, il riferimento sarebbe ancora chiaro: “Marco aveva salutato Maria / i coniugi Rossi e si apprestava a rimuginare su fatti che solo lui avrebbe potuto conoscere”. Nella sua frase, invece, il tema Luigi è il più vicino tra quelli possibili e, pertanto, si sostituisce a Marco come bersaglio di lui
Il lettore rimane comunque dubbioso sulla correttezza del riferimento, perché la proposizione coordinata mantiene Marco come soggetto e, in generale, per il senso della frase, che sembra ruotare tutto intorno a Marco. Per ovviare a questa ambiguità si possono usare forme referenziali (che possiamo chiamare proforme) più esplicite, per esempio quest’ultimo, oppure lo stesso Luigi, se vogliamo puntare a Luigi. Se vogliamo puntare a Marco, possiamo rafforzare lui con stesso, che rimanda al soggetto della frase. Altre proforme che rimandano inequivocabilmente al soggetto (ma che in questa frase non possono essere usate, a meno che non la si riformuli diversamente) sono il pronome riflessivo sé (stesso) e, come da lei ricordato, l’aggettivo possessivo proprio.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

I pronomi della forma di cortesia si scrivono con la maiuscola. Ma l’uso attuale della lingua non segue questa regola: è così?

 

RISPOSTA:

I pronomi personali maiuscoli sono molto formali. In passato erano molto comuni; oggi si usano quando si vuole essere deferenti verso qualcuno. In tutti gli altri casi, possono essere scritti minuscoli.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome
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QUESITO:

Nella frase “Se ti vengono in mente altre mete avvisami, così mi attivo per la ricerca”, vorrei sapere se prima di avvisami bisogna inserire la virgola. 
Inoltre, nello scritto è meglio usare la forma Mi sono ricordato, oppure ricordo?

 

RISPOSTA:

Cominciamo dalla virgola dopo avvisarmi, fortemente richiesta per via della necessità di segnalare la separazione tra due unità informative all’interno di questo enunciato. La prima contiene il periodo ipotetico, la seconda la coordinata alla principale, con valore consecutivo. 
Oltre alla virgola, che è la soluzione più semplice, è possibile anche il punto e virgola, se si vuole enfatizzare l’autonomia dell’atto dell’attivarsi rispetto a quello dell’avvisare. Possibile anche il punto fermo, che renderebbe ancora più autonomo e rilevante l’atto dell’attivarsi. Con il punto fermo, inoltre, il secondo enunciato può assumere due forme: “Se ti vengono in mente altre mete avvisami. Così mi attivo per la ricerca” e “Se ti vengono in mente altre mete avvisami. Così, mi attivo per la ricerca”. La seconda variante isola così, sottolineando il collegamento logico tra la premessa dell’avvisare e la conseguenza dell’attivarsi
Per quanto riguarda la virgola prima di avvisami, è buona norma separare con la virgola la subordinata preposta alla sua reggente dalla reggente stessa. Tale norma ha a che fare con la sintassi del periodo più che con la sintassi dell’informazione; se la subordinata, al contrario, è posposta, l’inserimento della virgola risponde a ragioni più informative che sintattiche. 
Calando il discorso teorico sui suoi esempi, abbiamo le seguenti soluzioni: “Se ti vengono in mente altre mete, avvisami”, ma “Mi scusi se la disturbo”. Possibile, per la verità, anche “Se ti vengono in mente altre mete avvisami”, perché la subordinata ipotetica (ovvero la protasi del periodo ipotetico) si trova regolarmente prima della reggente (l’apodosi), visto che rappresenta la condizione dell’evento descritto nell’apodosi. La variante senza virgola è particolarmente efficace se la frase continua dopo la reggente con altre proposizioni coordinate o subordinate, perché permette di evitare una proliferazione di virgole (ma è una considerazione da fare caso per caso). È proprio questo il caso di “Se ti vengono in mente altre mete avvisami, così…”.
Per quanto riguarda l’opposizione tra mi sono ricordato ricordo, la variante pronominale del verbo contiene, proprio in forza del pronome, una sfumatura di coinvolgimento emotivo del soggetto nel processo. Per questo motivo è più tipica in discorsi informali, solitamente incentrati su esperienze personali. Sempre per questo motivo, inoltre, ricordo è tipicamente usato con valore fattitivo (su questo concetto si può vedere la risposta n. 280013 nell’archivio di DICO), cioè nel senso di ‘far ricordare a qualcuno’.
Faccio notare che mi sono ricordato può essere confrontato con ho ricordato: “Ieri mi sono ricordato dell’appuntamento / ho ricordato l’appuntamento quando era troppo tardi”, ma anche con ricordo​, in un contesto presente: “Mi sono ricordato / ricordo che Luca ci ha / aveva invitato a pranzo per oggi”. Molto strano sarebbe *”Ho ricordato che Luca ci aveva invitato a pranzo per oggi”, a meno che il verbo non sia usato con valore fattitivo: “Ho ricordato a Mario che Luca ci aveva invitato a pranzo per oggi”.
Fabio Ruggiano

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​QUESITO:

In analisi logica e grammaticale, come si analizza ci nelle espressioni: “CI incontreremo alle 16?”, “CI vedremo alle 16”?
I verbi incontrarsi e vedersi vanno considerati transitivi o intransitivi?

 

RISPOSTA:

​Si tratta di un pronome personale atono, anche detto particella pronominale. In analisi logica va considerato parte integrante dei verbi incontrarsi e vedersi. Volendolo analizzare, esso sembra avere la funzione di complemento oggetto, ma questa è in contraddizione con il genere intransitivo di questi verbi.
Ricordo che in questi verbi, detti riflessivi reciproci o solamente reciproci, il pronome ci non ha il valore propriamente riflessivo di noi stessi, ma uno leggermente diverso, difficile da esprimere in altro modo: “Io e Luca dobbiamo incontrarci” significa non *’Io devo incontrare me stesso e Luca deve incontrare sé stesso”, ma ‘io devo incontrare Luca e Luca deve incontrare me’ (mentre “Io e Luca dobbiamo vestirci” significa esattamente ‘Io devo vestire me stesso e Luca deve vestire sé stesso’). 
Aggiungo che entrambi i verbi in questione possono essere costruiti anche come intransitivi pronominali, in casi come “Stasera mi incontrerò / mi vedrò con Luca”, nei quali il pronome non ha alcun valore proprio (la frase non significa *’incontrerò / vedrò me stesso con Luca’) e serve solamente a sottolineare il coinvolgimento del soggetto nell’azione espressa dal verbo. In questi casi, in analisi logica non si può che considerare il pronome come parte integrante del verbo.
Sia che siano costruiti come reciproci, sia che siano costruiti come intransitivi pronominali, i due verbi sono intransitivi (e richiedono l’ausiliare essere).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

A proposito dell’eterno dualismo si passivante / si impersonale, ampiamente discusso in precedenti occasioni, vi domando se, in presenza di una doppia particella pronominale all’interno di un periodo, si sceglie, di preferenza, l’una o l’altra costruzione: “Da anziani, ci si dimentica / dimenticano le cose”.

 

RISPOSTA:

Dimenticare è un verbo transitivo, che, nella sua frase, regge un complemento oggetto. In questo contesto, il si ha la funzione di rendere il costrutto passivo: “Da anziani si dimenticano le cose” (ovvero “Da anziani le cose sono dimenticate”). Non bisogna confondere questa costruzione con quella del verbo dimenticarsi, che vediamo in un esempio come: “Il mio vecchio zio si dimentica le cose”. In questo caso il si funge da pronome personale atono intensificatore (che, cioè, enfatizza la partecipazione del soggetto al processo designato dal verbo), quindi il verbo concorda con il soggetto (infatti, cambiando soggetto avremo, per esempio, “Io mi dimentico sempre le chiavi nelle tasche delle giacche”).
Se al si aggiungiamo il pronome ci il costrutto diviene impersonale (il soggetto è un noi generico), quindi il verbo rimane sempre alla terza persona singolare, a prescindere dalla presenza o assenza del complemento oggetto, e a prescindere dal numero del complemento oggetto. Nella sua frase, pertanto, l’unica costruzione corretta è “ci si dimentica le cose”. La costruzione, scorretta, *”ci si dimenticano le cose” è attratta dal già visto “si dimenticano le cose”, ma anche da espressioni del tutto diverse, ma apparentemente identiche, come “e poi ci si mettono anche gli imbecilli del caffè a ridere” (Alberto Arbasino, Anonimo lombardo, 1960), in cui gli imbecilli non è il complemento oggetto, ma il soggetto del verbo pronominale mettersi e ci è un pronome che possiamo parafrasare come ‘in questa situazione’ (sulla funzione avverbiale del pronome ci rimando a questo articolo di DICO, e soprattutto alla risposta del prof. Rossi al commento di un utente, che si trova in coda all’articolo). Per completezza, va detto che mettercisi può anche essere considerato un verbo procomplementare, ovvero un verbo nel quale l’appendice pronominale (qui -cisi) non ha un significato autonomo, ma conferisce al verbo un nuovo significato: mettere ‘introdurre un oggetto dentro un altro’ / mettercisi ‘darsi a una attività’. Maggiori informazioni sui verbi procomplementari sono fornite in altre risposte presenti nell’archivio di DICO (si trovano inserendo nella maschera di ricerca la parola chiave procomplementare).
La ricerca nel web attraverso Google rivela che le occorrenze di *”ci si dimenticano le cose” sono più numerose di quelle di *”ci si dimentica le cose”: questo fatto indica che i parlanti sono inclini ad accettare la forma scorretta e addirittura a preferirla. Aggiungo che, in letteratura, è attestato l’accordo del verbo impersonale con il complemento oggetto per la costruzione impersonale del tipo noi si va; Luca Serianni, nella sua grammatica (Italiano, Garzanti, 2000), riporta questo esempio dalla Ragazza di Bube di Carlo Cassola: “Ora queste ragazze andavano alla messa e noi si volevano accompagnare”. L’attrazione esercitata dai costrutti passivanti su quelli impersonali è, quindi, forte, tanto da far passare inosservata la scorrettezza di *”ci si dimenticano le cose”. Ritengo, comunque, che si possa ancora considerarla scorretta, e che si debba scoraggiarne l’uso.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quale forme sono corrette?

1. Nonostante i nostri atteggiamenti da onnipotenti non potremmo / potremo mai fare a meno degli altri organismi del mondo vegetale e animale.

2. Dedichiamoli pure le attenzioni che meritano; magari come quelle che eventualmente destineremmo / destineremo a nobili personaggi come il Marchesino Eufemio.

3. Se ne sono andati minacciando che dopo questo attacco ne sarebbero seguiti / seguiranno altri.

4. È facile capire che non avremo / avremmo mai la fortuna di vivere realmente questa utopia.

5. Una situazione che farebbe sorgere una domanda legittima: “Chi difenderebbe / difenderà i diritti di coloro che, giustamente, non accetterebbero mai un pregiudicato alla guida di un governo?”

 

RISPOSTA:

​La scelta tra indicativo futuro e condizionale presente nei suoi esempi è una questione non di correttezza, ma di scelta espressiva. Dipende, cioè, da come si vuole rappresentare l’evento, come un fatto che avverrà in futuro, o come la conseguenza di una condizione implicita (tranne che nella frase 3, che discuterò alla fine). 
Nella frase 1, per l’appunto, se usiamo il futuro abbiamo una affermazione al futuro (non potremo mai fare a meno…); se, invece, usiamo potremmo esprimiamo una conseguenza, quindi lasciamo intendere che ci sia una condizione implicita: “Non potremmo mai fare a meno degli altri organismi (se anche ci provassimo)”. 
Nella frase 2, l’avverbio eventualmente suggerisce che l’atto del destinare sia condizionato, quindi favorisce il condizionale (eventualmente equivale a una protasi come “se volessimo” o “se dovessimo scegliere” o simili). Il futuro, però, non è escluso: rispetto al condizionale, pone il destinare come fattuale, certo (nella mente del parlante); eventualmente, del resto, può anche essere interpretato come ‘se vorremo’, o ‘se dovremo scegliere’ o simili. Attenzione, dedichiamoli non è corretto, perché il pronome enclitico li ha la funzione di complemento oggetto: dedichiamoli significa ‘dedichiamo queste persone’. Il senso ricercato, qui, è ‘dedichiamo a queste persone’, che si ottiene con il pronome enclitico gli, quindi dedichiamogli, come soluzione più informale (oggi largamente accettata anche nello scritto di media formalità), oppure con dedichiamo loro o dedichiamo a loro, come soluzione più formale. Si noti che dedichiamo loro è ambiguo, perché significa sia ‘dedichiamo queste persone’, sia ‘dedichiamo a queste persone’: è una piccola stranezza della lingua italiana, che, comunque, si risolve quasi sempre grazie al senso generale della frase.
La frase 4 risponde alla stessa logica della 1 e della 2: la scelta tra indicativo futuro e condizionale presente è legata al senso ricercato, un fatto futuro (non avremo mai la fortuna) o una conseguenza condizionata da un altro evento, implicito, che potrebbe accadere (non avremmo mai la fortuna). Va detto che, volendo usare il condizionale, la costruzione con non avremmo mai la fortuna sarebbe un po’ insolita (ma non scorretta): comunemente le si preferirebbe non potremmo mai avere la fortuna, proprio come nella frase 1.
La frase 6 è analoga alle altre.
La frase 3 presenta una situazione diversa, perché contiene il condizionale (che non a caso qui è passato, non presente) nella funzione di indicatore di futuro nel passato, non di conseguenza di una condizione. In questo caso, la scelta deve dipendere dalla consecutio temporum: il verbo reggente la proposizione in questione è minacciando, a sua volta dipendente da se ne sono andati, che è passato. Per esprimere un evento futuro rispetto a un altro evento passato si usa proprio il condizionale passato: la scelta più regolare è, pertanto, sarebbero seguiti. Il futuro seguiranno non può dirsi scorretto: può essere considerato legittimo se lo mettiamo in relazione non con se ne sono andati, ma con dopo questo attacco, equivalente a in futuro. Una soluzione come questa potrebbe essere giudicata più trascurata, meno precisa, rispetto a quella del condizionale passato, ma potrebbe anche dipendere da una scelta espressiva consapevole, diretta a rappresentare la realtà in modo più vivido.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gli esempi sotto riportati sono intercambiabili, nonostante qualche sfumatura di significato tra l’uno e l’altro? E soprattutto sono validi?
Alle volte mi trovo alle prese con tali opzioni e sono indecisa su quale preferire per scrivere costruzioni sintatticamente inappuntabili.

Paolo era sostenuto dai punti di forza del suo lavoro, che…
1) esaltavano la sua indole
2) ne esaltavano l’indole
3) gli esaltavano l’indole.

Marco osservò attentamente Anna:
4) le vide i capelli arruffati
5) ne vide i capelli arruffati
6) vide i suoi capelli arruffati.

 

RISPOSTA:

Nella prima frase, la soluzione migliore è la 1, che evita qualunque ambiguità, perché l’aggettivo possessivo rimanda con sicurezza a Paolo.
La 2 non è scorretta grammaticalmente, né è da scartare, ma è meno chiara, perché, sebbene il nome indole si adatti soprattutto a un referente umano, quindi a Paolo, il suo lavoro non può essere escluso comereferente (la frase, cioè, potrebbe significare che i punti di forza del suo lavoro esaltavano l’indole del suo lavoro) . Il pronome gli della terza soluzione è da scartare:equivale, infatti, ad a lui, quinditrasforma la frase in “esaltavano l’indole a lui”, inaccettabile. C’è da dire cheesempi del genere sono rinvenibili (ma non per questo devono essere riprodotti) in produzioni poco sorvegliate; derivano probabilmente dall’analogia con espressioni completabili tanto con il complemento di termine quanto con quello di specificazione, come”Gli strinse la mano” / “Ne strinse la mano” (e quindi anche “Strinse la sua mano”) , “Gli toccò la spalla” / “Ne toccò la spalla” (quindi anche “Toccò la sua spalla”) , “Gli allaccia le scarpe” / “Ne allaccia le scarpe” (quindi anche “Allaccia le sue scarpe”) e simili.
Nella seconda frase le soluzioni 5 e 6 sono corrette e non ambigue, quindi la scelta tra l’una e l’altra è una questione di stile. Volendo essere molto precisi, in realtà, le due varianti hanno una sfumatura di differenza sul piano informativo: la prima mette in evidenza il sintagma i capelli arruffati, come se Marco si concentrasse sui capelli di Anna, che erano arruffati; la seconda, invece, pone l’attenzione solo su arruffati, come se Marco notasse non i capelli in generale, ma il particolare dell’aspetto dei capelli.
La soluzione 4 è simile alla 3, con la differenza che vedere, come tutti i verbi di percezione,tollerala doppia costruzione con il complemento di termine o quello di specificazione (succede lo stesso per sentire, come nella tipica frase”Il dottore sente il polso al / del paziente”, o per odorare: “Amo odorare i capelli alla / della mia fidanzata”) . Come si vede dagli esempi, comunque, il complemento di termine retto daiverbi di percezione è una soluzione di registro basso. L’unico verbo semanticamente affine a questo gruppo che ammette entrambe le costruzioni e per il quale il complemento di termine si può considerare d’uso medio è toccare (e sinonimi, sfiorare, colpire, premere…) .Non a caso,esempi di “Le vede i capelli” on line sono quasi assenti (nessuna attestazione, invece, risulta per “le vide i capelli”) , mentre “Le tocca i capelli” conta migliaia di attestazioni.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La proposizione “Un fenomeno delle cui cause non si ha conoscenza” (inteso pressappoco come “non si ha conoscenza delle cause del fenomeno”) è ben formata? 

 

RISPOSTA:

Sì. Il pronome cui inserito tra l’articolo determinativo e il nome ad esso collegato equivale a di cui ; quindi le cui cause= le cause di cui, e delle cui cause= delle cause di cui. “Un fenomeno delle cui cause non si ha conoscenza”, in definitiva, equivale a “Un fenomeno delle cause di cui non si ha conoscenza”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei approfondire le applicazioni d’uso del pronome ne. Esso può riferirsi a soggetti o complementi collocati in un periodo precedente già concluso o, in generale, a soggetti e complementi, per così dire, distanti? Oppure, per evitare inconvenienti di interpretazione, sarebbe consigliato che tra soggetto / complemento e ne non ci fossero altri nomi compatibili con la funzione di tale pronome?
Ad esempio: “Tizio ricevette una lettera e strappò la busta mentre versava dita di cognac nel bicchiere che stringeva tra le mani. Ne lesse (riferimento a lettera) due righe…”.
Vi chiedo infine se, al livello di accordo del participio, vi sia libera scelta, seguendo le regole base in proposito, oppure con il ne partitivo si debbano seguire indicazioni diverse?
Ad esempio: “Ho comprato il libro e ne ho letto / lette tre pagine”.

 

RISPOSTA:

Il pronome ne può essere usato con funzione coreferenziale (cioè per riprendere un referente introdotto precedentemente, o per anticiparlo) al pari degli altri pronomi atoni e con gli stessi accorgimenti. Nel caso di referente molto lontano o confondibile, cioè, bisogna preferire coesivi più espliciti. Nella seguente frase, ad esempio, il pronome atono lo è ambiguo, perché può rimandare tanto a Mario quanto a il suo cane: “Ho incontrato Mario a spasso con il suo cane. L’ho trovato, come sempre, molto simpatico”.
Rispetto ai pronomi atoni diretti, inoltre, ne, non essendo marcato nel genere e nel numero, deve essere usato con particolare cautela, per evitare fraintendimenti. Nella sua frase, ad esempio, il rimando di ne a lettera è ricavabile solamente grazie al verbo lesse; se sostituissimo tale verbo con uno dal significato più generico, il rimando sarebbe ambiguo: “Tizio ricevette una lettera e strappò la busta mentre versava dita di cognac nel bicchiere che stringeva tra le mani. Non se ne sarebbe separato per ore” (dalla lettera, dal bicchiere o dal cognac?).
Per quanto riguarda l’accordo di ne con il participio passato dei verbi transitivi, bisogna ricordare che l’obbligo riguarda i pronomi lolalile, che rappresentano i complementi oggetti di verbi: “Hai visto Maria? No, non l’ho (= la ho) vista”. Il pronome ne, invece, presuppone un complemento oggetto esterno, ed è con questo che il participio passato può concordare o no. Nella sua frase, per esempio, il participio passato può rimanere invariabile (letto) oppure concordare con pagine (lette), non certo con ne. Lo stesso vale nel caso in cui il complemento oggetto sia rappresentato da un pronome indefinito o un numerale: “Ho comprato una scorta di riviste e ne ho già letto / lette molte“, “Ho comprato tre libri e ne ho letto / letti due“.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Egregio professore, un mio conoscente tedesco mi ha chiesto perché si dice “Penso a Maria”, ma, sempre in riferimento a Maria, si dice “La penso”. Dativo o accusativo? Grazie.

 

DOMANDA:

Il verbo pensare è ricco di sfumature e di costruzioni: può essere usato assolutamente (“Le tue parole mi hanno fatto pensare”), può reggere la proposizione oggettiva (“Penso che tu sia una brava persona”), il complemento di vantaggio (“Al mondo ognuno pensa per sé”). 
Le reggenze che qui interessano, però, sono quella del complemento oggetto e quella, molto più comune, del complemento introdotto dalla preposizione a. Il verbo pensare regge il complemento oggetto preferibilmente con il pronome atono preposto e specie quando segue un complemento predicativo: “Non lo pensavo capace di tanto”; con il complemento oggetto posposto, pronominale o nominale, si preferisce la proposizione oggettiva: “Non pensavo che lui / Carlo fosse capace di tanto” (rispetto a “Non pensavo lui / Carlo capace di tanto”). 
Più comune è la reggenza del complemento indiretto, che, bisogna chiarire, non è un complemento di termine, bensì un complemento di difficile classificazione, di natura locativa, quasi un complemento di moto a luogo. Una prova di questa natura del complemento è che la trasformazione di penso a lei con lo spostamento preverbale del complemento è ci penso, non *le penso: il sintagma a lei, quindi, viene sostituito dal pronome atono ciLa penso è, piuttosto, equivalente a penso lei, e infatti è leggermente innaturale, perché non equivale esattamente a penso a lei e perché, come detto prima, questa costruzione è quasi sempre seguita da un complemento predicativo. In alcuni casi, però, i parlanti preferiscono la penso a ci penso (abbondano on line esempi di “la penso ancora”) perché ci non lascia trasparire il genere e il numero dell’oggetto del pensiero: può, infatti, stare per a luia leia questa / quella cosaa loroa queste / quelle cose. Un esempio di questa ambiguità del pronome ci è nel famoso verso verso della canzone del 1991 di Gianni Bella “Più ci penso e più mi viene voglia di lei”, nel quale rimaniamo incerti se ci penso significhi ‘penso a lei’ o ‘penso a questa/quella cosa’. 
A margine, va detto che la penso può anche essere una voce del verbo (detto procomplementarepensarla ‘avere una determinata opinione’ (usato nelle espressioni pensarla cosìpensarla in un certo modopensarla come qualcun altro ecc.): in questo caso la è parte integrante del verbo e non ha un referente preciso (come in farcelacavarselapiantarla ecc.).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Come spiegare il valore della particella pronominale (o avverbio di luogo?) ne nella seguente frase: “Starsene tranquilli su una poltrona”? Se dico “Me ne vado” è tutto chiaro: il ne significa ‘da qui’, ma nella succitata frase non ne colgo il senso.

 

RISPOSTA:

Starsene è un verbo procomplementare, ovvero un verbo dal significato non precisamente letterale formato con l’aggiunta di uno o più pronomi atoni a un comune verbo. La classe di questi verbi, rientrante nella più ampia categoria dei verbi pronominali, è popolosa: al suo interno troviamo farcela ‘riuscire’, piantarla ‘smettere di comportarsi in modo fastidioso’, volerci ‘richiedere, abbisognare’, spassarsela ‘divertirsi’, intendersela ‘avere un rapporto speciale con qualcuno, specialmente segreto’, intendersene ‘essere esperto’ e tanti altri.
Come si può vedere in questi esempi, il gruppo pronominale aggiunto al verbo base non prende un significato preciso né una funzione contemplata nella tradizionale analisi logica; bisogna considerarlo, piuttosto, come parte integrante della parola, alla stregua di un suffisso (per esempio come -zione in costruzione). Il significato complessivo del verbo procomplementare può essere vicino a quello del verbo base, a cui aggiunge una sfumatura di partecipazione emotiva (come starsene rispetto a stare), oppure molto distante (come piantarla rispetto a piantare). Va anche detto che spesso (ma non sempre) i verbi procomplementari si contruiscono diversamente dal verbo base: intendere è transitivo, intendersene richiede un complemento indiretto (riconoscibile come complemento di specificazione nell’ottica dell’analisi logica, o come oggetto indiretto nell’ottica della grammatica valenziale); stare e starsene, invece, hanno la stessa costruzione.
Anche andarsene rientra nella categoria dei verbi procomplementari: più che avere un significato autonomo, infatti, il gruppo pronominale finale sene arricchisce il verbo base della stessa sfumatura di partecipazione emotiva del soggetto all’azione riconoscibile in starsene.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Non so perché ma questa frase mi suona strana: “Quando si è diventati vegetariani non ci si crede di aver mangiato cadaveri per tutta la vita”.

 

RISPOSTA:

La frase è ben formata. La sensazione di stranezza è forse dovuta alla sequenza di due costrutti impersonali con il pronome atono si, si è diventati e ci si crede, che, però, sono del tutto legittimi in questo contesto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La frase “Ho cambiato qualche foto, anche se avrei voluto mettere altre” è corretta?

 

RISPOSTA:

​Nella sua frase c’è un unico problema, che riguarda il riferimento del pronome indefinito altre. Il significato generico di questo pronome richiede che si specifichi da quale insieme si estraggono gli elementi scelti. Ci vuole, insomma, un complemento partitivo. La soluzione più immediata è realizzarlo con il pronome ne, che rimanda, ovviamente, a foto: quindi “avrei voluto metterne altre”. Se altre non rimandasse a fotoaltre sarebbe aggettivo, non pronome, e dovrebbe appoggiarsi a un nome, che diventerebbe il complemento oggetto di mettere: “avrei voluto mettere altre cose / immagini / pose” o simili.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Analisi logica, Pronome
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QUESITO:

In molte opere narrative ho rilevato l’impiego di aggettivi e avverbi (richiamando alla memoria ricordi scolastici, azzarderei a definirli deittici) che i vari scriventi hanno inserito in contesti passati anziché contemporanei. Gradirei ricevere la vostra autorevole posizione al riguardo, nonché eventuali suggerimenti per affinare le seguenti costruzioni:

1) Leo era già stato rimproverato a più riprese, ma in questa occasione non proferì parola (si sarebbe potuto sostituire questa con quella?).
2) Marisa lo aveva cercato dappertutto e adesso lo vide.
3) Non riuscì a trovare la via di fuga ma ora notò una luce in fondo alla galleria.
4) Il suono del vento gli procurò stavolta un forte malessere (sostituire l’avverbio con in quella occasione o quella volta non sarebbe stato preferibile?).
5) In Michele scintillò la rabbia che, oggi, lo colpì come non mai.
6) La guardò come non era mai accaduto finora (avrei scritto fino ad allora o fino a quel momento).

 

RISPOSTA:

​Le espressioni che lei ha correttamente definito deittiche servono a indicare una persona, un luogo o un momento presente nella realtà extralinguistica. Tra le più comuni riconosciamo i pronomi personali e i dimostrativi, gli avverbi di tempo e di luogo; anche i tempi verbali, però, possono svolgere questa funzione: se dico, ad esempio, “Sto lavorando”, è chiaro che l’azione sta avvenendo adesso. I deittici hanno la caratteristica di mutare di senso al mutare della situazione extralinguistica. L’enunciato “Sto lavorando” pronunciato da Luca il 19 maggio 2019 alle 20:30 a casa ha un significato diverso da “Sto lavorando” pronunciato da Maria il 20 maggio alle 9:00 in ufficio. I due enunciati, cioè, indicano (deissi significa proprio ‘indicazione’) due situazioni completamente diverse.
Vista la loro relazione con la situazione extralinguistica, i deittici sbagliati provocherebbero un senso di straniamento nell’interlocutore e potrebbero inficiare la comprensione. Ad esempio, se un amico chiedesse a Luca: “Che stai facendo?” e lui rispondesse “Ieri ha lavorato”, l’amico rimarrebbe molto perplesso (a meno che non conoscesse dettagli della vita di Luca che spiegassero una simile risposta).
In realtà, è rarissimo che un parlante nativo abbia dubbi su quale deittico usare per descrivere la situazione a cui sta pensando: è una competenza che si acquisisce fin da piccolissimi.
I problemi possono insorgere quando il parlante deve proiettarsi in un centro deittico diverso da io-qui-ora. Quando, cioè, deve parlare non di sé adesso, ma di sé nel passato, o di altri nel presente, nel passato o nel futuro, il centro deittico, il centro da cui si dipartono le coordinate personali e spazio-temporali, lo può indurre in errore. L’errore consiste quasi sempre (è così in tutti i suoi esempi) nella confusione tra quel centro deittico altro con quello relativo a io-qui-ora; ne deriva la sovrapposizione della situazione contingente, quella in cui l’emittente sta interloquendo con il ricevente, con quella riportata: quest’ultima viene riportata a qui-ora e a volte anche a io (si pensi a casi tipici della lingua poco sorvegliata come “Io sono una persona che sono sempre generoso”, ovviamente detto da un uomo), e viene, pertanto, descritta con i deittici propri della contingenza. Alcuni casi sono talmente comuni che possono essere considerati normali, almeno nel parlato poco sorvegliato e nello scritto dialogico; penso a stavolta della sua frase 4, a ora in una frase come questa: “Aveva provato di tutto e ora era rimasto senza alternative” (ora nella sua frase 3, invece, mi sembra più difficile da accettare, probabilmente perché accompagna un passato remoto, non un imperfetto), e casi simili.
Bisogna anche considerare che lo slittamento di piani indessicali può essere dovuto non alla confusione dei centri deittici ma al preciso intento, di natura letteraria, di sovrapporli. Si consideri un esempio come questo (dagli Indifferenti ​di Alberto Moravia): “il disgusto che provava di se stesso aumentava; ecco: egli era dovunque così: sfaccendato, indifferente; questa strada piovosa era la sua vita stessa”. L’aggettivo dimostrativo questa è ovviamente fuori luogo in un racconto al passato, e andrebbe sostituito con quella. L’autore, però, non si è confuso: ha volutamente giocato con le possibilità della lingua per catapultare per un attimo il personaggio nell’io-qui-ora del lettore, che se lo vede quasi davanti, per poi riportarlo al suo centro deittico naturale.
Visto che i deittici fuori luogo dei suoi esempi potrebbero essere voluti dagli autori, suggerire correzioni potrebbe essere un eccesso di zelo. In ogni caso, volendo rispettare le regole standard della grammatica, ecco come si potrebbero emendare le frasi (in alcuni casi non faccio che applicare i suoi suggerimenti, che sono corretti):

1) Leo era già stato rimproverato a più riprese, ma in quella occasione non proferì parola.
2) Marisa lo aveva cercato dappertutto e allora lo vide.
3) Non riuscì a trovare la via di fuga ma allora / in quel momento notò una luce in fondo alla galleria.
4) Il suono del vento gli procurò stavolta / quella volta un forte malessere.
5) In Michele scintillò la rabbia che, quella volta / in quella occasione, lo colpì come non mai.
6) La guardò come non era mai accaduto fino ad allora / fino a quel momento.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Pronome, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Riflettevo nei giorni scorsi circa l’esistenza in italiano del verbo riflessivo masterizzarsi per indicare il conseguimento del titolo di master universitario. Una frase esemplificativa a riguardo potrebbe essere la seguente: “Mi sono masterizzata l’anno scorso all’Università di Trento”.

 

RISPOSTA:

Il pronome di cortesia si distingue solamente al singolare, ed è sempre lei (terza persona). Ad esso corrispondono le particelle pronominali la per il complemento oggetto e le per il complemento di termine.
Esempi: “Sa che le [complemento di termine] dico? Lei [soggetto] è proprio una brava persona”; “Ho chiamato lei [complemento oggetto] per avere un aiuto”; “La ho (l’ho) [complemento oggetto] chiamata per avere un aiuto”; “Voglio regalare a lei [complemento di termine] questa penna”; “Le [complemento di termine] voglio regalare questa penna”.
Si noti che lei come pronome di cortesia si concorda al femminile se si riferisce a una donna, al maschile se si riferisce a un uomo: “Le dispiace essere più chiarasignora Bianchi?”; “Le dispiace essere più chiarosignor Bianchi?”.
Al plurale, il pronome di cortesia coincide con il pronome voi. In alcune regioni d’Italia, soprattutto al Sud, voi si usa anche per il singolare: “Posso parlarvisignor Bianchi?”.
Fino a qualche decennio fa, e ancora oggi in un registro estremamente formale, era ed è possibile usare, come pronome di cortesia per il plurale, il pronome loro: “(Loro) non abbiano timore: siano certi che fugherò i loro dubbi”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase “Marco era accanto a Riccardo, che parlava a vanvera”, la subordinata è collegata al soggetto o al complemento? La virgola (sia se presente, come nell’esempio, sia se assente) è determinante per caratterizzare la relativa? In che modo si possono evitare incomprensioni senza ricorrere a soluzioni quali “Marco era accanto a Riccardo e quest’ultimo parlava a vanvera”; “Marco era accanto a Riccardo e quello parlava a vanvera”?

 

RISPOSTA:

 

Nella sua frase, la relativa è senz’altro collegata al complemento, perché il pronome relativo rimanda sempre al referente più vicino, detto anche antecedente. Non è, pertanto, necessario sovraspecificare il riferimento con una forma referenziale come quest’ultimo. Questo pronome è adatto se dividiamo la frase in due parti, così: “Marco era accanto a Riccardo. Quest’ultimo parlava a vanvera”.
Se manteniamo la frase unita, un pronome più esplicito è necessario qualora il referente sia non quello adiacente, ma quello più lontano (in questo caso Marco): in “Marco era accanto a Riccardo e quello parlava a vanvera”, infatti, il referente di quello è proprio Marco (si noti che, coerentemente, quello indica in genere un oggetto che si trova lontano da chi parla).
La virgola non influisce sul collegamento, ma influisce, invece, sulla funzione della relativa e sul significato dell’intera frase. La relativa senza virgola, detta limitativa, contiene una informazione che identifica l’antecedente, mentre quella separata dalla virgola, detta esplicativa, aggiunge una informazione accessoria sull’antecedente. Nel suo caso, la virgola è quasi obbligatoria, perché Riccardo, nome proprio, è identificato di per sé; ma la situazione cambia se sostituiamo a Riccardo un nome comune, ad esempio: “Marco era accanto a quel ragazzo, che parlava a vanvera”. Nella frase così costruita, la relativa aggiunge una caratteristica non necessaria per identificare quel ragazzo; quindi l’emittente presuppone che il suo interlocutore sappia già chi sia quel ragazzo. Se l’enunciato fosse parlato anziché scritto la virgola sarebbe sostituita da una pausa intonativa e si potrebbe immaginare che l’interlocutore stia vedendo quel ragazzo nel momento in cui avviene la conversazione. La caratteristica del parlare a vanvera si configura, pertanto, come accessoria, o transitoria: il ragazzo in questione si comportava in quel modo nel momento in cui era accanto a Marco, ma non sappiamo se parlare a vanvera sia un’abitudine che lo identifica.
Sappiamo, però, che l’emittente non ritiene il parlare a vanvera un’abitudine che identifica quel ragazzo agli occhi del suo interlocutore, altrimenti avrebbe scritto “Marco era accanto a quel ragazzo che parlava a vanvera” e, nel parlato, avrebbe pronunciato l’enunciato senza pause. In “Marco era accanto a quel ragazzo che parlava a vanvera”, senza virgole o pause, la relativa fa, infatti, parte del complesso nominale di quel ragazzo e ne determina l’identità: in questo caso, l’emittente sta richiamando alla memoria del suo interlocutore un particolare ragazzo noto a entrambi in passato (visto che usa l’imperfetto parlava) per la sua abitudine di parlare a vanvera.
Di relative limitative ed esplicative si parla anche in questa risposta dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Buongiorno, nella seguente frase: “Aprile è il quarto mese dell’anno, maggio è il quinto”, il quinto è pronome o sostantivo? Io sono più orientata per il sostantivo.

 

RISPOSTA:

Nel suo caso il numerale è un pronome. Per maggiori informazioni la rimando a questa altra risposta dell’archivio di DICO.
​Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella risposta a uno dei quesiti pubblicati, il 2800189 in specie, se ho ben compreso, consigliate l’uso del si quando la costruzione sia impersonale (“sarebbe bello incontrarsi”); vi domando se in tutti quei casi in cui il pronome noi (espresso o sottinteso) fa da soggetto è ammesso il ci dopo il verbo all’infinito:
1) (Noi) stasera guardiamo un film per rilassarci.
2) Ci siamo incontrati per chiarirci.
Se invece costruissimo tali forme:
3) (Noi) stasera guardiamo un film per rilassarsi.
4) Ci siamo incontrati per chiarirsi,
commetteremmo un errore o sarebbero varianti valide della 1 e della 2?

 

RISPOSTA:

​Le frasi 3) e 4) sono mal costruite: il pronome ci non può essere sostituito da si, perché ha una funzione diversa. Quando il soggetto della frase è noi e il verbo prevede il pronome atono, questo pronome sarà per forza ci; questo vale quando il verbo ammette la particella rafforzativa, come in “Dobbiamo stare attenti a non dimenticarci la torta in forno”; quando il verbo è reciproco, come in “Ci siamo incontrati per chiarirci“; quando il verbo è riflessivo, come in “Stasera guardiamo un film per rilassarci“.
Il pronome si, invece, rende il verbo impersonale in frasi come “Si va al cinema”, oppure lo rende passivo, come in “Si mangiano le mele” (ovvero “Le mele sono mangiate”). In una frase come “Si va al cinema”, il soggetto logico, ma non grammaticale (visto che il verbo impersonale per definizione non ha soggetto), può essere noi, ma anche un generico la gente. Ad esempio, se dicessi “Si va al cinema; tu vieni?”, il soggetto logico di si va sarebbe noi; ma se dicessi “Oggi si va al cinema meno di cinquant’anni fa”, il soggetto logico sarebbe, piuttosto, la gente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il periodo: “Non c’è niente di anomalo (né) nel rapporto con le cose né in quello con le persone” si sarebbe potuto scrivere anche così: “Non c’è niente di anomalo nel rapporto né con le cose né con le persone” senza commettere errori o operare variazioni di significato?

 

RISPOSTA:

​La posizione del primo  in astratto modifica il significato della frase; in questo caso specifico, il significato rimane grosso modo lo stesso dovunque mettiamo la congiunzione, ma con una piccola sfumatura di differenza: nella prima frase si sottolinea che la mancanza di anomalia riguardi il rapporto con le cose e le persone, e non si evoca alcun’altra entità; nella seconda frase si lascia intendere che la mancanza di anomalia possa riguardare altre entità oltre alle cose e alle persone, quindi si lascia aperta la possibilità che ci sia qualcosa di anomalo nel rapporto con entità diverse dalle cose e dalle persone. La sfumatura tende ad annullarsi perché le cose e le persone rappresentano più o meno tutta la realtà, quindi si farebbe fatica a trovare un’altra entità oltre a queste. Si immagini, però, due frasi del genere, formate sullo stesso modello delle sue: “Non sono in disaccordo né con Luca né con Mario” = potrei essere in disaccordo con altri / “Non sono né in disaccordo con Luca né in disaccordo con Mario” = Non considero la possibilità di essere in disaccordo con altri.
La forma delle due frasi è, comunque, corretta, visto che, nella prima, ha avuto l’accortezza di riprendere rapporto con il pronome quello. Molto meno felice sarebbe stata la formulazione: “Non c’è niente di anomalo né nel rapporto con le cose né con le persone”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Congiunzione, Pronome
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella frase “Il mio banco è il primo a destra, quello di Giovanni il secondo” il numerale primo è da considerarsi aggettivo o pronome?

 

RISPOSTA:

Essendo preceduti da articoli, né primo né secondo possono essere considerati semplici aggettivi. Non possono essere neanche considerati aggettivi sostantivati (come il rosso in una frase come “Il rosso ti dona molto”), perché è evidente la loro funzione di rimandare a un nome già introdotto precedentemente, banco. Questa è la tipica funzione dei pronomi; difatti, se al posto di il primo mettessimo quello (“Il mio banco è quello”), quello sarebbe un pronome dimostrativo. C’è da dire che alcune grammatiche attribuiscono ai numerali la funzione di aggettivi o di nomi, ma non quella di pronomi: secondo questa visione, il primo e il secondo, nella sua frase, sarebbero nomi. La differenza tra il primo e quello sarebbe che il primo ha un contenuto semantico ben preciso, mentre quello veicola solamente un significato di contorno; la funzione dei numerali in casi come questo, però, è talmente vicina a quella dei pronomi che non ho molti dubbi nel definirli, appunto, pronomi.
Dubbi maggiori sulla natura dei numerali, non solo degli ordinali, ma anche dei cardinali, sorgono quando essi fanno riferimento a un nome non introdotto, ma “inglobato”, ovvero implicito: “Ho preso otto in fisica”, “sono le tre e un quarto”. In questi casi c’è un accordo quasi unanime nel riconoscerli come nomi.
Una grammatica che ha rilevato il problema della labilità dei confini tra natura nominale e pronominale nel campo dei numerali in italiano è quella (in francese) di Jacqueline Brunet, Grammaire critique de l’Italien, Université de Paris VIII-Vincennes, Paris, 1981 (vol. IV, pp. 86-87, 92-93).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vi pongo un quesito relativo alla declinazione dei pronomi reciproci l’un l’altro e derivati. Quando ci si riferisce a soggetti maschili, il problema, almeno per me, non sussiste; la questione si complica in presenza di soggetti femminili o misti.
Le frasi:
“Le ragazze si stimano le une le altre”,
“Lucia e Paolo si amano l’una l’altro” (laddove non fosse possibile invertire le posizioni dei soggetti),
“I bambini e le bambine giocano gli uni con le altre”
sono valide?
Sarebbe inoltre possibile usare soluzioni, per così dire, “al maschile”, come se fossero cristallizzate, quando il genere è misto?
“Lucia e Paolo si amano l’un l’altro”.

 

RISPOSTA:

Il pronome reciproco l’un l’altro è soggetto all’accordo di genere e numero con i nomi a cui si riferisce. Le forme senza identità di genere tra i due membri (l’un l’altra, gli uni le altre) sono più rare di quelle “omogenee”, ma ugualmente ben formate. Decisamente rara, sebbene in linea di principio ineccepibile, è l’inversione dei termini, con la precedenza data al membro femminile. Va detto, comunque, che, proprio in virtù della reciprocità, l’accordo funziona a prescindere dall’ordine relativo dei due membri: “Lucia e Paolo si amano l’un l’altra” è corretto nonostante la mancata corrispondenza simmetrica tra i generi dei soggetti e quelli del pronome. “Lucia e Paolo si amano l’una l’altro”, invece, pur non essendo scorretto, risulta sgradito ai parlanti, come dimostra la quasi totale assenza di esempi, tanto on line quanto nell’archivio della BIZ (Biblioteca Italiana Zanichelli). Rari, sebbene attestati, sono, infine, l’una l’altra e le une le altre.

L’alta frequenza d’uso di varianti plurali e con il secondo membro femminile sconsigliano l’uso cristallizzato di l’un l’altro. Vero è che una certa tendenza alla cristallizzazione esiste; essa è, però, attualmente un fenomeno popolare, non accolto nella lingua comune.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “quando le ha telefonato era allegro”, allegro può riferirsi sia alla persona che telefona, sia a quella a cui si telefona?

RISPOSTA:

Nella sua frase il pronome le, femminile, impedisce la concordanza con l’aggettivo maschile allegro. Se sostituiamo il pronome con un nome questa impossibilità risulta ancora più chiara: “Quando ha telefonato a Maria era allegro”. Evidentemente, non può essere Maria a essere allegro.
Se il pronome avesse come referente una seconda persona a cui si dà del lei, l’ambiguità dovrebbe essere comunque esclusa; se dicessimo, infatti, “Signor Rossi, quando le ha telefonato era allegro” potremmo intendere solamente che a essere allegro era l’autore della telefonata, perché l’ellissi del soggetto è ammessa solamente quando il soggetto è immediatamente adiacente o identificabile senza alcuno sforzo. Se volessimo dire che a essere allegro era il signor Rossi dovremmo riformulare la frase, ad esempio così: “Signor Rossi, quando le ha telefonato lei era allegro”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Se è vero che le forme dei pronomi possessivi corrispondono a quelle degli aggettivi e sono SEMPRE precedute da articolo, nella frase “Queste penne sono mie” qual è l’analisi grammaticale di mie?

RISPOSTA:

​Nella sua frase mie è un aggettivo con funzione predicativa (completa, insieme alla copula, il predicato nominale). Per coglierne più chiaramente la natura di aggettivo, e la differenza con il pronome corrispondente, si possono fare le seguenti sostituzioni:
a. “Queste penne sono mie” = “Queste penne sono di mia proprietà” = “Queste penne mi appartengono”;
b. “Queste penne sono le mie” = “Queste penne sono quelle di mia proprietà” = “Queste penne sono quelle che mi appartengono”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Credo che la frase “Penso che la vicenda non interessi a nessuno” sia corretta; vorrei sapere se lo sia anche quella che si ha volgendo in negativo la reggente e trasformando in affermativa la subordinata: “Non penso che la vicenda interessi a nessuno”. Ho sentito pronunciarla di recente da un personaggio pubblico; personalmente, avrei sostituito nessuno con qualcuno
Vorrei poi sapere, rimanendo sempre in tema di nessuno e simili, se una frase come “durante la mia assenza ti sei intrattenuto con qualcuna?” (sottintendendo qualche donna) possa essere considerata valida oppure sia meglio lasciare il pronome al maschile, come se fosse invariato.

 

RISPOSTA:

​L’italiano ammette la doppia negazione, del verbo e del pronome, sebbene a volte questa abitudine provochi qualche ambiguità. In alcuni casi, anzi, la doppia negazione è senz’altro richiesta; nella sua prima frase, ad esempio, la forma con la sola negazione del pronome (“Penso che la vicenda interessi a nessuno”) sarebbe innaturale, mentre quella con la negazione solamente del verbo (“Penso che la vicenda non interessi ad alcuno”) sarebbe ben formata, ma molto formale.
Il fenomeno che lei ha notato nella frase “Non penso che la vicenda interessi a nessuno” è quello della “risalita” di un elemento dalla subordinata alla reggente. Di solito la risalita riguarda il pronome clitico in frasi con verbi servili (“Posso capirlo” ma anche “Lo posso capire”), con verbi modali (“Comincio a capirlo” ma anche “Lo comincio a capire”), con verbi di moto (“Vengo a prenderti con la macchina”, ma anche “Ti vengo a prendere con la macchina”). Sono tutti casi in cui sussiste una forte solidarietà tra la reggente e la subordinata, per cui le due proposizioni vengono trattate come una sola. Lo stesso avviene per la negazione. 
La risalita del pronome atono è ormai del tutto acclimata, tanto da non destare l’attenzione di quasi nessun parlante. Quella della negazione è altrettanto comune, e altrettanto accettabile, sebbene produca una frase leggermente diversa rispetto a quella intesa dal parlante: nel suo caso, ad esempio, il parlante sostiene di aver formulato un pensiero (penso che…) riguardo allo scarso interesse per la vicenda, non di non aver formulato un pensiero (non penso che) riguardo a quell’argomento.
La sua proposta di sostituire nessuno con qualcuno (“Non penso che la vicenda interessi a qualcuno”) non è calzante: produrrebbe, infatti, una frase dal significato diverso, equivalente a “Penso che la vicenda non interessi a qualcuno”. Il pronome qualcuno, cioè, suggerirebbe che secondo il parlante ci sia qualcun altro a cui la vicenda interessa. La variante con una sola negazione sarebbe, piuttosto, “Penso che la vicenda non interessi ad alcuno”, o, al limite, “Non penso che la vicenda interessi ad alcuno”. 
Nella seconda frase, il pronome qualcuna riferito implicitamente a donna è corretto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Gent.mo DICO,

nella frase “Che  vuoi?”, il pronome interrogativo che svolge la funzione di soggetto. Se dovessi scrivere “Tu che vuoi?” diventa ridondante tu? Oppure cambiano le funzioni nella frase di che?
Un cordiale saluto!

 

RISPOSTA:

Nella sua frase il pronome che funge da complemento oggetto, sia che il soggetto sia espresso, sia che sia implicito. Per interpretarlo correttamente, basterebbe immaginare la risposta alla domanda:
– Che vuoi (tu)?
– (Io) voglio un pallone nuovo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Non so come possa ricompensarti per tutto ciò che hai fatto per me”. “Che hai fatto per me”, nell’analisi del periodo, è una subordinata relativa o dichiarativa? Non riesco a capirlo. Grazie in anticipo.

 

RISPOSTA:

La proposizione è relativa. Che è pronome relativo e ciò ne rappresenta l’antecedente. Sarebbe stata una dichiarativa se che fosse stata una congiunzione, collegata al verbo della reggente, non a un pronome: “Non posso tollerare ciò: che tu mi manchi di rispetto”. Più comune di ciò, come pronome che anticipa una dichiarativa, è questo : “Nel rapporto con il mostro, essenziale è innanzitutto questo: che il mostro possiede o protegge o addirittura è il tesoro” (Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, 1989, p. 382).

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Sono corretti la seguente frase e il seguente uso di tempi verbali: “Avrei voluto essere lì…”?

 

RISPOSTA:

L’espressione è ben formata: ricordiamo, infatti, che con il verbo servile (volerepoteredovere) seguito dall’infinito del verbo essere l’ausiliare richiesto è avere. Con l’infinito degli altri verbi, invece, bisogna valutare il genere (transitivo o intransitivo):
1. I verbi intransitivi ammettono sia essere sia avere (sono dovuto andare / ho dovuto andare).
2. I verbi transitivi ammettono solamente avere (“ho dovuto fare la fila” / *”sono dovuto fare la fila”).
3. Se l’infinito è accompagnato da pronomi atoni, l’ausiliare è sempre essere con il pronome inserito prima dell’infinito (“Ne sono dovuto uscire subito” / *”Ne ho dovuto uscire subito”), anche con verbi transitivi (“Mi sono dovuto fare la fila” / *”Mi ho dovuto fare la fila”).
4. Con il pronome inserito dopo l’infinito bisogna valutare la relazione tra il pronome e il verbo:
4a. Se il verbo è pronominale (il pronome fa parte del verbo) l’ausiliare è sempre avere: “Ho dovuto farmi la fila” / *”Sono dovuto farmi la fila”, “Ho dovuto fingermi interessato” / *”Sono dovuto fingermi interessato”, “Ho voluto vederci chiaro” / *”Sono voluto vederci chiaro”.
4b. Se il pronome non fa parte del verbo, ma si aggiunge a esso, sono possibili entrambi gli ausiliari: “Sono dovuto uscirne subito” / “Ho dovuto uscirne subito”, “Non sono potuto andarci prima” / “Non ho potuto andarci prima”. Quest’ultimo caso, in pratica, coincide con il caso 1.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ciao DICO: “Si vive i propri giorni” o “si vivono i propri giorni?”

 

RISPOSTA:

Il pronome si può assumere diverse funzioni, a volte non facili da distinguere. Nel suo esempio (“Si vive i propri giorni” o “si vivono i propri giorni”), la funzione potrebbe sembrare quella di rendere il verbo impersonale (sarebbe, quindi, un si impersonale). Si deve rilevare, però, che il verbo vivere è usato qui come transitivo, con il complemento oggetto espresso: per semplicità, potremmo assimilare la frase a “Tutti vivono i propri giorni”. In questi casi (con un verbo transitivo e il suo complemento oggetto espresso), il si impersonale è interpretato in italiano moderno come si passivante, cioè come particella che rende il verbo passivo. A causa di questa interpretazione, il complemento oggetto diviene il soggetto del verbo; la sua frase, pertanto, è assimilata di fatto, più che a “Tutti vivono i propri giorni” a “I propri giorni sono vissuti da tutti”. Ne consegue che, se il complemento oggetto (divenuto il soggetto) è plurale, il verbo deve essere plurale. Per inciso, se il complemento oggetto fosse singolare, la funzione del si rimarrebbe ambigua tra impersonale e passivante: “Si vive una vita sola” potrebbe essere assimilata tanto a “Tutti vivono una vita sola” quanto a “Una vita sola è vissuta”. Ovviamente, però, proprio il fatto che con il complemento oggetto plurale il verbo è interpretato come passivo fa propendere per una interpretazione passiva anche con il singolare.
​Si noti anche che se il complemento oggetto non è espresso (quindi anche con i verbi intransitivi) il si è sempre impersonale (e il verbo, di conseguenza, sempre alla terza persona singolare): “Oggi si muore di caldo”, ma anche “Si vive una volta sola”, in cui una volta sola è un complemento di tempo determinato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Salve gentili linguisti, mi sono capitate sotto al naso queste due frasi:

    a.      *Se trovi delle paste come quelle che piacciono a me,
compramene!*

*    b.      **Se trovi delle paste come quelle che piacciono a me,
compramene              alcune!*

Nella frase (b) è esplicito la parola *“alcune*” che è un quantificatore
indefinito. Ma nella frase (a) non c’è alcun quantificatore esplicito.

Volevo domandare:

1. La frase (a) risulta in pratica più generica rispetto alla frase (b)?
2. C’è differenza di significato tra queste due frasi così come sono?
Nel senso che: in questo caso, nella frase (a), la quantità di paste è
ancora più indeterminata e indefinita rispetto alla quantità di paste
menzionata nella frase (b)?
3. Oppure queste due frasi hanno lo stesso significato?
Perché nella frase (a) il quantificatore indeterminato pur non essendo
presente è sotto inteso?

 

RISPOSTA:

Come abbiamo già più volte risposto (e sviscerato anche in altre sezioni del sito), il ne ha il valore di pronominalizzare sia il partitivo (una parte scelta tra un tutto), sia altri complementi quali argomento (ne parliamo), moto da luogo (ne torno) ecc. Se è chiaro questo concetto, non sarà difficile far rientrare tutti gli altri casi nei casi prototipici già illustrati.
Ma, volendo scendere ancor più nello specifico delle sue ultime domande, possiamo dire che:
1) certamente, anche se manca alcune (come nel primo esempio), il valore partitivo è identico: è come se fosse compramene alcune, e dunque tra le due frasi non c’è alcuna differenza.
2) Compramene, assoluto (cioè senza alcune) è un modo più sorvegliato, in luogo di compramele (dal momento che, in effetti, non si chiede di comprare tutte le paste, ma solo una modica e ragionevole quantità).
Riassumendo: sì, le due frasi sono identiche; no, non c’è alcuna differenza semantica tra le due; sì, nella prima è come se alcune fosse sottinteso. O meglio, dato che nel partitivo ne è già compresa l’idea del partitivo, per l’appunto, non c’è alcun bisogno di alcune, che dunque può esserci come anche mancare.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Avrei qualche dubbio sull’uso della particella “ne” e dei pronomi diretti. In una frase come questa: “Vuoi la birra fredda?” La risposta sarebbe: “No, non la bevo.” Qui si usa il pronome “la” perché c’è l’articolo determinativo. D’accordo, e qui credo di non sbagliarmi. Ma se invece la frase fosse: “vuoi una birra fredda?” Le risposte corrette possono essere di due tipi: “no, non ne bevo” “no, non la bevo” Perché in questo ultimo caso la risposta può essere di due…

 

RISPOSTA:

Il pronome ne è usato, in questo caso (e in verità quasi sempre), in funzione di partitivo. Per questa ragione esso si può riferire solamente ad un referente indeterminato non specifico, mentre i referenti indeterminati specifici, e i determinati, sono ripresi con i pronomi clitici di terza persona lolalile.
Un referente indeterminato non specifico è un oggetto indeterminato, quindi che costituisce una classe, senza alcuna preminenza sugli altri oggetti della stessa classe (mentre il referente specifico è sempre indeterminato, ma ha una certa preminenza sugli altri oggetti della stessa classe). Una conseguenza importante di questa distinzione è che gli oggetti indeterminati non specifici sono quasi sempre oggetti massa (panepastazucchero…) oppure sono plurali.
Per chiarire questo concetto vediamo qualche confronto:

1. – Attento, vedi i massi [referente determinato] che si staccano dalla montagna?
– No, Non li vedo.
2. – Attento, cadono dei massi [referente indeterminato specifico] dalla montagna.
– Ah sì? Non li vedo.
3. – Attento, cadono massi [referente indeterminato non specifico] dalla montagna.
– Ah sì? Non ne vedo.

L’articolo è un segnale netto di distinzione tra determinato e non determinato, ma non è l’unico elemento che entra in gioco in questa delicata classificazione; la distinzione tra determinato specifico e non specifico, poi, è ancora meno segnalabile (l’articolo indeterminativo, al singolare, è comune alle due categorie). Per un parlante nativo, comunque, non è un problema capire quando un oggetto sia da intendersi come specifico e quando come non specifico.
Un caso molto significativo di come un parlante nativo possa (istintivamente) modulare la lingua a seconda degli scopi che vuole ottenere è proprio la scelta tra le due possibili risposte alla domanda “Vuoi una birra fredda?”. La risposta (negativa) più immediata dovrebbe essere “No, non la voglio”, perché la presenza dell’aggettivo rende l’oggetto indeterminato specifico (cioè distinguibile dagli altri oggetti della stessa classe). Con questa risposta, l’interlocutore lascia intendere che potrebbe accettare una birra non fredda. La risposta “No, non ne voglio” è possibile, invece, se l’interlocutore vuole trascurare la specifica qualità della birra offerta e vuole lasciar intendere che non accetterebbe alcun tipo di birra. Questa seconda opzione è più marcata rispetto alla prima dal punto di vista pragmatico, cioè ha un carico implicito maggiore, perché forza la grammatica per ottenere uno scopo pratico.
Se la domanda fosse “Vuoi una birra?”, invece, la risposta “Non ne voglio” sarebbe meno marcata, perché una birra è a metà tra specifico e non specifico (può riferirsi tanto al nome massa quanto ad una bottiglia di birra). Anzi, in questo caso “Non la voglio” è la risposta più marcata (lascia intendere che l’interlocutore accetterebbe altro, che, però, non gli è stato offerto).
Chi volesse continuare a riflettere sulla questione, può trovare molti spunti nella Grande grammatica italiana di consultazione, a cura di Lorenzo Renzi (Bologna, Il Mulino, 1988), volume I, pp. 363-367 e 635-637.
Infine, se nella risposta non appare lo stesso verbo della domanda (“– Vuoi una birra? – Non la bevo/Non ne bevo”), la situazione si fa ancora più complessa, perché entra in gioco il significato del nuovo verbo introdotto, che aggiunge un’altra variabile, non regolata solamente dal rapporto tra specifico e non specifico. In questo caso, bevo aggiunge alla risposta tutta una serie di significati e sfumature rispetto alla ripetizione del verbo volere contenuto nella domanda, perché è ovvio che volere e bere indicano una disposizione diversa del parlante verso l’oggetto. “Non la/ne voglio” comunica che in altre circostanze (di tempo, di luogo, di opportunità) il parlante berrebbe la birra; “non la/ne bevo”, invece, indica che il rifiuto è indipendente dalla volontà, ma dovuto a un ostacolo oggettivo (preferenze di gusto o intolleranze di vario genere). Attenzione, perché la risposta sia “non la/ne bevo” l’ostacolo deve essere percepito dal parlante come invalicabile; se ci fosse in atto un divieto temporaneo o potenzialmente aggirabile, invece, come quello di un medico o di un’altra autorità, la risposta più probabile sarebbe “non ne posso bere” o simili.
​Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Pronome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Da un libro di grammatica ciò che è tra virgolette. “…Il pronome clitico ne non può rappresentare inoltre una categoria incassata in un sintagma nominale in posizione di soggetto preposto; non possono esserci (204 a-c), se “ne” rappresenta una categoria incassata nel soggetto: (204) a. *La figlia ne ha parlato. b. *Tre ne sono usciti da casa. c. *Una grande ne è bruciata.” Vorrei domandare: cosa significa tutto ciò? Perché le tre frasi sono agrammaticali?Come renderle…

 

RISPOSTA:

Il comportamento del pronome ne è abbastanza complesso, in italiano. Provo a semplificare il più possibile la spiegazione di quanto detto nella sua grammatica in modo un po’ fumoso.
Il ne può sostituire (incassare, incapsulare) di norma o un complemento oggetto, oppure un soggetto, spesso posposto, di verbi, detti inaccusativi (quali andarevenirearrivare ecc.: intransitivi con ausiliare essere), nei quali il soggetto tende a comportarsi come un complemento oggetto. E dunque, per esempio: “io mangio due mele”: “io ne mangio tre” (ne pronominalizza il compl. oggetto mele); “arrivano tre miei cugini”: “ne arrivano tre” (il “ne” pronominalizza il soggetto miei cugini); ma in un esempio come: “due persone mangiano”, io non posso pronominalizzare il soggetto con ne (“ne mangiano due”), perché in questo caso ne lascerebbe supporre la presenza di un oggetto (“ne mangio due, di ciambelle”). Pertanto, negli esempi riportati dalla sua grammatica, il ne non può riferirsi al soggetto, ma soltanto, semmai, ad altre parti della frase. Per es., in “la figlia ne ha parlato”, ne non può pronominalizzare figlia, bensì un complemento di argomento (“La figlia ne ha parlato col padre, di questo problema”).  Nel secondo esempio (“tre ne sono usciti da casa”), il ne con difficoltà può essere riferito al soggetto, mentre del tutto normale sarebbe il riferimento al complemento di moto da luogo: “ne sono usciti tre” (da casa). In realtà, quest’ultimo caso è dubbio, poiché, con i verbi inaccusativi, il soggetto potrebbe essere pronominalizzato da ne sia che sia posposto, sia che sia preposto al verbo: sia in “due treni arrivano” , sia in “arrivano due treni”, il soggetto treni può essere pronominalizzato da ne: “ne arrivano due”.
Per ulteriori chiarimenti sull’uso di ne, veda anche le risposte delle FAQ  il verbo piacere e “Ne voglio” o “la voglio”? di DICO.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Ho letto alcuni auguri di buon anno, la maggior parte dei quali dicevano “Buon 2016 a te e famiglia”… e mi sono chiesto: non è più corretto dire “Buon 2016 a te e alla tua famiglia”?

 

RISPOSTA:

La sottrazione dell’articolo (che trascina con sé l’aggettivo possessivo) da famiglia nelle espressioni come quella da lei citata è dovuta a due cause: una è la vicinanza con il pronome personale te, che non ha l’articolo e “attrae” il nome che lo segue nella stessa costruzione; l’altra è l’assonanza di questa espressione con alcune costruzioni idiomatiche o almeno cristallizzate nell’uso, anch’esse prive di articolo, come andare in barca, lavorare in banca, rimanere a casa (in alcune zone d’Italia si dice anche andare a mare ). La perdita dell’articolo sembra proprio essere un effetto della cristallizzazione dell’espressione, dovuta all’uso massiccio che se ne fa.

In definitiva, tra le varianti “a te e famiglia” e “a te e alla tua famiglia”, è senz’altro preferibile la seconda, non perché la prima sia scorretta, ma perché suona come una formula impersonale, cosa che non si addice certo agli auguri.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Pronome
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