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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Tra i vari usi del condizionale troviamo anche quello, tipico del linguaggio giornalistico, di illustrare un fatto ipotetico, di cui non si ha pertanto elementi che possano attestare il suo essersi verificato.

Ho però notato che talvolta si tende a costruire interi periodi con questo modo verbale, trasformando tutte le azioni descritte come dubbie, anche quelle che, al contrario, sono oggettive.

Mi spiego con un esempio.

“Tizio avrebbe affermato tutto ciò tra il 2002 e il 2005 quando avrebbe ricoperto il ruolo di assessore.”

Se non è sicuro che Tizio abbia affermato qualcosa in quel periodo di tempo (di qui l’impiego inappuntabile del condizionale), è certo che Tizio abbia (o ha) ricoperto, in quegli anni, il ruolo di assessore.

La subordinata temporale non avrebbe dovuto essere costruita con l’indicativo?

 

RISPOSTA:

Ha ragione. I giornalisti abusano del condizionale di distanziamento al punto da estenderlo spesso arbitrariamente anche a contesti nei quali andrebbe usato l’indicativo, dal momento che non v’è alcun dubbio sulla veridicità o oggettività dell’evento riportato.

L’esempio da lei riportato andrebbe corretto come segue (con l’imperfetto, però, data la continuità nel passato): «Tizio avrebbe affermato tutto ciò tra il 2002 e il 2005, quando ricopriva il ruolo di assessore».

Più che di eccesso di scrupolo e ci cautela, ovvero la volontà di non sbilanciarsi nel dare per veritiere notizie ancora non provate, direi che agisca qui la forza dell’abitudine e della stereotipia: il condizionale viene associato (dalle penne meno esperte) così stabilmente allo stile giornalistico da divenirne un contrassegno (quasi ipercorrettistico) anche praeter necessitatem.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Gradirei sapere se la seguente espressione è corretta: “Erano rimasti due sorelle e un fratello ed erano tutti celibi”. È corretto definire i fratelli e la sorella con l’unico termine celibi o è d’obbligo esprimersi diversamente, attribuendo ai maschi il termine celibi e alle femmine il termine nubile?

 

RISPOSTA:

I termini celibe e nubile hanno un riferimento di genere inequivocabile, quindi sarebbe scorretto attribuire l’uno o l’altro al genere opposto. Per descrivere la situazione bisogna costruire la frase diversamente, per esempio … e nessuno dei tre si era sposato o … e né le sorelle né il fratello si erano sposati, oppure scegliere un termine diverso, come single o non sposati.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un dubbio reltivo alla seguente frase esterapolata dagli atti di un processo:
“i coniugi dichiarano di avere provveduto alla divisione dei beni mobili e di ogni altro oggetto di valore al di fuori di questa convenzione e di non avere null’altro a pretendere una dall’altra”.
Qual è la forma corretta: una dall’altrauno dall’altro oppure uno dall’altra?

 

RISPOSTA:

I pronomi uno e altro hanno quattro forme (diversamente, per esempio, da che, che ne ha una sola), quindi concordano con la parola a cui si riferiscono. Quando i due pronomi sono usati nell’espressione reciproca l’un l’altro o in varianti della stessa, può capitare che la concordanza influenzi soltanto il genere, non il numero. Questo avviene quando la parola a cui entrambi i pronomi si riferiscono è plurale, mentre ciascuno dei due pronomi rimanda a un referente singolare. L’esempio della frase da lei proposta è proprio il caso in cui la parola a cui i pronomi si riferiscono, coniugi, è plurale, mentre ciascuno dei due pronomi rimanda a un referente singolare, ovvero ciascuno dei due coniugi. Da questo consegue che la forma grammaticalmente ineccepibile sia, nel suo caso, l’uno dall’altro (ovvero ‘un coniuge dall’altro coniuge’). Comunemente, se i due referenti dei due pronomi sono uno maschile, l’altro femminile, è possibile anche costruire un accordo “logico”, cioè non con la parola, ma con i referenti. In questo modo, se i coniugi in questione sono un uomo e una donna la forma sarà uno dall’altra (ovvero ‘il marito dalla moglie’) o, viceversa, una dall’altro. Un testo come una sentenza o simili, comunque, richiede il maggior rigore grammaticale possibile; in un simile testo, pertanto, è preferibile usare la forma che concorda con coniugi.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sottoporvi un quesito (sperando sia in linea con il tipo di argomenti da voi trattati).
In navigazione si usa il termine ‘doppiare’ quando si vuole esprimere l’azione di superare/passare un capo con un’imbarcazione; ad esempio “doppiare Capo Horn in barca a vela è pericoloso”.
Il mio dubbio riguarda l’origine della parola italiana: trovo anti-intuitiva la parola ‘doppiare’ che assomiglia (e derivare) da “doppio, due volte” in relazione all’azione che esprime (superare un capo), sopratutto se paragonata all’inglese dove si utilizza il verbo ‘round’ (round girare/passare attorno).

 

RISPOSTA:

Doppiare ‘oltrepassare, superare un ostacolo’ è un tecnicismo marinaresco entrato in italiano in epoca rinascimentale come ampliamento semantico (o prestito semantico) del verbo doppiare, già esistente con il significato di ‘rendere qualcosa due volte maggiore, raddoppiare’. L’origine del prestito è lo spagnolo doblar, che all’epoca aveva già il significato di ‘oltrepassare un ostacolo’. Spiegare perché doblar avesse sviluppato questo significato non è facile: probabilmente dal significato del latino volgare duplare ‘rendere doppio, raddoppiare’ si è sviluppato il significato ‘piegare’ (perché quando si piega una linea si ottengono due segmenti distinti, quindi si raddoppia la linea). Questo significato, però, può essere riferito alla rotta necessaria per superare un ostacolo, ma non all’ostacolo stesso: è la rotta, cioè, che viene doppiata ‘piegata’, non l’ostacolo. Per spiegare l’uso effettivo del verbo (doppiare un ostacolo, non doppiare una rotta), quindi, dobbiamo ipotizzare un ulteriore slittamento semantico, da ‘piegare’ a ‘girare, aggirare’. I verbi to round (inglese) e umschiffen ‘circumnavigare, navigare intorno’ (tedesco) conferma, del resto, che l’atto del superare un ostacolo piegando la rotta della nave è comunemente definito come ‘girare, aggirare’.
A margine va detto che negli sport su pista il verbo doppiare è usato come estensione del tecnicismo marinaresco, e infatti ha il significato di ‘superare, oltrepassare un concorrente’; non c’è in questo significato alcun riferimento al ‘raddoppiamento’ (quando si doppia un concorrente non si raddoppiano i giri conclusi, ma semplicemente se ne aggiunge uno).
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

Desidererei sapere se la parola competenza può essere usata in un contesto come il seguente: “Non è di mia competenza pagare questa somma”. Il termine competenza farebbe pensare ad ‘abilità, conoscenza’ ecc, quindi dovrebbe essere improprio usarlo in una espressione come quella precedentemente citata; tuttavia mi capita frequentemente di sentirlo espresso in simili contesti.

 

RISPOSTA:

Nel contesto da lei presentato la parola competenza è pienamente legittima. Come giustamente osserva, competenza vuol dire ‘abilità, conoscenza’; questi significati, però, che non sono gli unici e, anzi, rappresentano soltanto uno dei campi semantici di questa parola. Nel suo significato più ampio, competenza indica la ‘capacità di orientarsi in un determinato campo’ (“Quella professoressa parla con competenza di ogni aspetto della storia moderna”); in quello tecnico, invece, cioè quello legato alla sfera giuridica, designa la ‘legittimazione di un’autorità o di un organo a svolgere specifiche funzioni’: “Questa causa è di competenza del giudice amministrativo”. Dal significato tecnico, il campo semantico di competenza si è esteso per indicare la ‘pertinenza’, cioè ciò che spetta a qualcuno (come nel suo esempio). Sempre connesso a questa sfera, il sostantivo plurale competenze indica il compenso: “Dobbiamo pagare all’avvocato le sue competenze”.

Raphael Merida

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QUESITO:

Ho sempre dato per scontato che la lunghezza fosse verticale e la larghezza orizzontale. E che quindi la longitudine fosse orizzontale e la latitudine verticale, essendo il nostro pianeta più lungo orizzontalmente che verticalmente.
Adesso però ho dei dubbi.
Nel grande romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei Tartari, si accenna a un gradone che corre longitudinalmente verso il Nord, che taglia longitudinalmente la pianura. Non capendo come facesse un piano orizzontale a correre in lungo, ho cercato il significato di longitudinale: «che è disposto nel senso della lunghezza», «orizzontale, in lunghezza». Se è orizzontale, non dovrebbe essere disposto nel senso della larghezza?

 

RISPOSTA:

La longitudine si calcola in orizzontale (cioè, letteralmente, parallelamente all’Orizzonte), perché segna un punto a Est o a Ovest del meridiano di Greenwich. La latitudine, al contrario, segna un punto a Nord o a Sud dell’Equatore, quindi si calcola in verticale (cioè perpendicolarmente all’Equatore).
Bisogna, però, distinguere tra i nomi longitudine e latitudine e gli aggettivi longitudinale e latitudinale (nonché gli avverbi in -mente da essi derivati): i primi hanno un’applicazione esclusivamente scientifica (e sono usati nella lingua comune solo nelle locuzioni avverbiali in longitudine e in latitudine); i secondi sono usati regolarmente anche con un significato estensivo (che recupera il significato etimologico longus ‘lungo’ e latus ‘largo’), e in particolare longitudinale ‘esteso nel senso della lunghezza’, latitudinale ‘esteso nel senso della larghezza’. Di conseguenza, longitudinale diviene, nella lingua comune, equivalente a lungo (per cui longitudinalmente e in longitudine equivalgono a in lunghezza), mentre il meno usato latitudinale diviene equivalente a largo (e latitudinalmente e in latitudine equivalgono a in larghezza). Dal momento che, per convenzione, in una superficie la lunghezza è la dimensione più estesa e la larghezza quella meno estesa, nell’esempio da lei riportato il gradone descritto è un oggetto orientato nella stessa direzione della dimensione più estesa dell’area considerata.
Si noti che tanto la lunghezza quanto la larghezza sono dimensioni orizzontali, cioè parallele al piano dell’Orizzonte; nel caso di oggetti tridimensionali a queste si aggiunge l’altezza, che è la dimensione verticale, cioè perpendicolare al piano dell’Orizzonte.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gradirei sapere in quale contesto è possibile usare il termine aporia Mi risulta che la aporia sia un problema senza soluzione ma di tipo specifico. Se X è alto e Y è basso e mi si chiede chi è il più ricco, non posso certo dire che questo problema sia una aporia bensì un problema irrisolvibile per insufficienza di informazioni. Se invece X è cardiopatico e l’inattività fisica danneggia il cuore, ma anche l’attività fisica nei cardiopatici può causare la morte, allora che possibilità ha X di risolvere il suo problema? Nessuna. Questo paradosso che si viene a creare (se faccio sforzi muoio ma se non ne faccio danneggio il cuore già compromesso e muoio ugualmente) io lo definirei aporia. Non essendo certo di ciò chiedo il vostro aiuto.

 

RISPOSTA:

Sì, ha ragione, l’aporia, anche in senso generale, implica comunque una contraddizione che non consente di giungere alla soluzione di un problema, esattamente come l’esempio del cardiopatico, danneggiato sia dal movimento, sia dall’assenza di movimento. Invece il primo caso rientra, caso mai, nell’incoerenza, dal momento che non si possono mettere in relazione altezza e ricchezza, in quanto appartenenti a sfere concettuali diverse.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Desidererei sapere quale espressione è più corretta per definire un insieme di sintomi che, dapprima sottostimato tanto da generare. un quadro privo di collocazione nel lessico medico, ad un certo punto finisce per trovare un termine specifico che lo definisca. Il dubbio si riferisce a queste due espressioni: «Ha trovato (l’insieme di sintomi) una sua dignità sul piano nosologico o nosografico». Ritengo che entrambi i termini siano corretti, ma non essendone certo, vorrei un vostro parere a riguardo.

 

RISPOSTA:

Nosologico e nosografico sono sinonimi, pertanto, nella frase in questione, può usare indifferentemente o l’uno o l’altro. Gli aggettivi, infatti, derivano da nosologia e nosografia, dati come sinonimi dalla Enciclopedia della medicina Treccani con la seguente definizione (s.v. nosografia): «Studio descrittivo delle malattie. La n. comprende la classificazione delle malattie per organi e apparati e per generi eziologici, la semeiotica, la sintomatologia e l’eventuale epidemiologia. La classificazione nosografica è in uso nelle istituzioni sanitarie pubbliche a fini statistici, finanziari ed epidemiologici».

Fabio Rossi

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QUESITO:

So che il termine elezione viene usato spesso in campo medico con il significato di ‘migliore’, ‘più opportuno’. Per esempio: “In quella situazione l’intervento di elezione è l’asportazione della cistifellea”. Vorrei sapere se lo stesso termine può essere usato con lo stesso significato in altri contesti. Per esempio: “Se ci si trova nel raggio d’azione di un serpente, la strategia di elezione consiste nel rimanere immobili”.

 

RISPOSTA:

Il termine elezione ha come primo significato quello di ‘scelta volontaria’; dal significato primario, però, si è sviluppato quello di ‘preferenza’, che emerge chiaramente nell’espressione di elezione e nell’aggettivo semanticamente equivalente elettivo ‘frutto di scelta’ (come nel titolo del romanzo di Goethe Le affinità elettive), ma anche ‘preferibile’. Nell’uso comune, quindi, l’espressione significa ‘preferibile’ (quindi la strategia d’elezione = ‘la strategia preferibile’); nel linguaggio della medicina, invece, permane il significato primario, infatti un intervento di elezione non è quello preferibile, ma quello scelto volontariamente in presenza di altre possibilità, come la procrastinazione o un altro tipo di intervento.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Spesso sento dire:  “Ho condiviso il documento sul tuo Drive”.  Mi chiedo quale sia la forma  corretta tra “condiviso sul Drive, con Drive, in Drive”.

 

RISPOSTA:

La forma meno comune è quella con concolcon il. Le altre con in/nel, su/sul vanno tutte ugualmente bene. Come tutti gli anglicismi correnti nel linguaggio telematico, non necessariamente compresi da chi non fa parte della comunità degli “smanettoni”, è bene attenersi all’uso più frequente. L’ideale sarebbe trovare un sostituto per drive, che però al momento non sembra essersi stabilizzato in italiano (anche perché è quasi un nome di marchio: Google drive). Anche condividere è un calco semantico dall’inglese to share, ormai talmente diffuso che cambiarlo sembrerebbe davvero impossibile. Proprio in quanto calco semantico, è bene non creare fraintendimenti con l’altro significato italiano di condividere, cioè ‘avere le stesse idee ecc.’. Quindi è da evitare “condividere con il drive”, o simili, che sembrerebbe umanizzare troppo il drive!
Nella scelta tra le preposizioni su e in, entrambe possibili, ormai da vent’anni la telematica opta per su, di solito, perché rende ancora più “fisici” i luoghi virtuali dell’archiviazione e dello scambio dei dati. Stranamente, però, da una ricerca in Google sui due costrutti, prevalgono in questo caso decisamente quelli con in/nel, forse perché in questo caso l’idea del contenitore, piuttosto che del supporto digitale, fa scattare l’idea dell’inserimento espressa meglio da in. Come ripeto, però, sia in/nel sia su/sul vanno benissimo entrambe.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica

QUESITO:

Vorrei risolvere un dubbio circa l’uso di “quale” nella seguente frase: “Fibrillazione atriale: ruolo dei farmaci anticoagualanti quale approccio terapeutico”. È corretto? O sarebbe più indicata la forma “nell’approccio terapeutico”?
Grazie.

 

RISPOSTA:

Il dubbio è essenzialmente concettuale: va, cioè, chiarito se i farmaci anticoagulanti rappresentano da soli un approccio terapeutico (nel qual caso va bene quale) o fanno parte dell’approccio terapeutico (nel qual caso va bene nel ).

Fabio Ruggiano

 

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QUESITO:

Ho alcuni dubbi sulla lingua italiana che mi auguro possiate aiutarmi a risolverli online è una parola italiana? Policy è una parola italiana? loginwebmasterinternational? Siccome sono tutte presenti in un sito che si vanta di conoscere l’italiano, (addirittura affiliato ad una università) anzi addirittura a suggerire le migliori espressioni da usare in tale lingua, io penso che dovrebbe cominiciare a suggersi una buona lettura di un vocabolario e presentare un sito corretto.

 

RISPOSTA:

Attendevamo una domanda come la sua, dal momento che molti parlanti e scriventi si sentono disturbati dall’eccesso di parole inglesi nella lingua italiana. DICO ha già preso posizioni al riguardo, come lei sicuramente già saprà: infatti, in diverse sezioni del nostro sito abbiamo suggerito, qualora possibile, di evitare l’eccesso di forestierismi, specialmente quando termini italiani equivalenti sono consolidati e a portata di mano.
Ciò premesso, come dice il proverbio, “il troppo stroppia”, le crociate non si addicono alla lingua, né alla convivenza civile, e il tono polemico non aiuta la discussione, né la divulgazione, né l’approfondimento scientifico.
In primo luogo, DICO non ha l’obiettivo di “suggerire le migliori espressioni da usare in” italiano, come scrive lei. Anzi, il nostro obiettivo è proprio quello di mostrare la duttilità di qualunque lingua storico-naturale. Ci prefiggiamo, semmai, lo scopo di mostrare la varietà delle scelte possibili. Piuttosto che puntare il dito, pensiamo sia utile mettere a disposizione gli strumenti possibili per arrivare da soli a un uso consapevole della lingua.
In secondo luogo, gli esempi di anglicismi da lei addotti (onlineloginwebmaster ecc.) sono perlopiù tecnicismi informatici, di fatto imposti dai sistemi in uso in qualunque sito internet. Sostituirli con equivalenti italiani, qualora fosse possibile, genererebbe probabilmente un notevole fraintendimento tra gli utenti, che ormai se leggessero parola d’ordine o parola di passo, faccio per dire, in luogo di password, si sentirebbero di colpo catapultati in ambiente militare o massonico, piuttosto che in un sito di infrarete (già che ci siamo, perché non sostituire Internet con infrarete?).
Il buon uso della lingua passa, sicuramente, anche per le scelte lessicali, ha ragione lei: ma non saranno certo pochi anglicismi informatici a intaccarne l’integrità. Ammesso poi che l’integrità sia un valore, nell’uso linguistico. Se così fosse, che ne direbbe di tornare a parlare latino?
Infine, la inviterei a riflettere su altre violazioni della norma linguistica, come per esempio quella sintattica da lei commessa, nella sua elettrolettera (= e-mail), allorché ci scrive: “ho alcuni dubbi sulla lingua italiana che mi auguro possiate aiutarmi a risolverli”. Quel li pleonastico, ammissibile in una conversazione informale ma non certo in una lettera formale di chi si erge a giudice del buon uso dell’italiano, è il tipico esempio di caduta di controllo nella progettazione del periodo. Per saperne di più al riguardo, potrebbe andare a guardare, questo intervento in DICO, e anche la domanda  in questo quesito dell’Archivio.
Fabio Rossi

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QUESITO:

Qual è la differenza tra AFFERENTE ed EFFERENTE, ovvero se sono afferente vado verso qualcosa, faccio e se sono efferente sono ricettivo e ascolto? Nella comunità Osteopatia si usano questi termini e secondo me a senso invertito…

 

DOMANDA:

In questo caso l’etimologia è chiarificatrice: il prefisso ad- del verbo latino affero (che in italiano non si è continuato, ma ha lasciato solamente il participio presente con funzione di aggettivo afferente) indica un moto verso un punto nello spazio; ne consegue che afferente è detto di un mezzo che trasporta un contenuto di qualche genere verso una meta. Allo stesso modo, il prefisso ex-, che fa parte del verbo latino effero (anch’esso senza “eredi” in italiano, tranne il participio presente efferente), indica il movimento da dentro verso fuori, con le conseguenze semantiche prevedibili sulla parola. L’interpretazione di efferente come ‘ricettivo’, pertanto, è calzante, perché rispecchia l’idea di un trasferimento dall’interno di un luogo, fisico o metaforico, verso la persona che si sta concentrando su quel luogo, mentre quella di afferente come ‘in movimento verso qualcosa’ è leggermente imprecisa, perché non tiene conto del tratto semantico ‘portare’, ma tutto sommato adeguata, perché per poter portare qualcosa verso un punto bisogna andare verso quel punto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Da qualche tempo ho scoperto l’esistenza della parola tendostruttura per indicare ciò che io ho sinora denominato con il termine tensostruttura. Mi dareste una mano a definire l’esistenza di eventuali differenze tra le due espressioni? Oppure possono forse essere utilizzate in modo equivalente?

 

RISPOSTA:

Tensostruttura è presente nel dizionario dell’uso GRADIT (a cura di Tullio De Mauro), che data la sua prima attestazione al 1974; tendostruttura, invece, non è registrata. Entrambe le parole, però, risultano oggi usate in ambito industriale, con una precisa distinzione di significato: la tensostruttura, infatti, è un complesso di tessuti e cavi che rimangono in piedi in virtù della tensione (come suggerisce il prefissoide tenso-); la tendostruttura è un tendone temporaneo, che può assumere forme diverse, costruito con uno scheletro di travi su cui viene appoggiato e fissato un telone. Una spiegazione estesa della differenza tra i due tipi di costruzione si può trovare qui: https://www.macotechnology.com/design/tensostrutture-o-tendostrutture-due-universi-differenti/.
Dal punto di vista strettamente linguistico, il rapporto tra le due parole è tutto da indagare; visto che tendostruttura non è ancora registrata nei dizionari, è plausibile che sia stata modellata, in tempo molto recenti, su tensostruttura per designare quella specifica costruzione, simile alla tensostruttura, eppure con caratteristiche proprie. Non a caso, infatti, il prefissoide (ovvero prefisso con un preciso contenuto semantico) tenso- è più produttivo (tensocettoretensocorrosionetensorecettore…) rispetto a tendo-, che ha prodotto, prima di tendostruttura, solamente tendopoli (ovviamente non vanno considerati i tecnicismi medici relativi ai tendini tendosinovialetendosinovite e tendovaginite).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sull’utilizzo del verbo incidere. Mi chiedo quale sia la forma corretta nel seguente esempio: “il provvedimento amministrativo incide negativamente sulla/nella/la sfera giuridica del privato”.

 

RISPOSTA:

La preposizione più comune con il verbo incidere è su, sia quando il verbo assume il significato di ‘influire profondamente’ (incidere sul carattere), sia quando prende quella specialistica del diritto di ‘gravare negativamente’ (incidere sul reddito). La ricerca di “incidere nella sfera” in Internet con il motore di ricerca Google mostra che l’espressione è piuttosto diffusa, ma solamente in ambito specialistico, mentre “incidere sulla sfera” è di gran lunga preferita nella lingua comune (“Fare l’amore allunga la vita e incide sulla sfera lavorativa”, titolo di un articolo del Giornale del 13 settembre 2015), con diversi esempi anche specialistici. La preferenza per la preposizione su è coerente con la semantica del verbo, che metaforizza una caduta su una superficie; ricordiamo, infatti, che l’etimologia del verbo è IN + CADERE ‘cadere su’. Nel suo caso specifico, poiché il complemento oggetto è rappresentato da un luogo figurato, o meglio ancora da un ambiente figurato, è naturale essere indotti a usare in, perché l’atto dell’incidere si configura, diversamente dal solito, come un ingresso nell’ambiente. 
In conclusione: entrambe le preposizioni sono corrette; tra le due, su è più comune e da preferire nella lingua comune, in è adatta, ma non obbligatoria, all’ambito specialistico.
Da scartare, invece, incidere la sfera, che è frutto della confusione tra i due omografi incidere ‘influire’ e incidere ‘intagliare’. Quest’ultimo, non il primo, regge il complemento oggetto (ad esempio incidere un disco…).
Fabio Ruggiano

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