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QUESITO:

Le frasi seguenti sono esempi di ridondanza, oppure rappresentano dei rafforzativi legittimi?
“È un libro che ho (già) letto due volte”.
“Lui ha reagito con un ‘ciao’ e lei ha reagito (a sua volta) con un sorriso tirato via”.
Ho fatto riferimento al fenomeno della ridondanza perché mi pare che le due costruzioni funzionino anche senza le parti inserite tra parentesi. Se la mia osservazione è corretta, vi domando se sia consigliato mantenere o rimuovere tali parti.

 

RISPOSTA:

L’avverbio già e la locuzione avverbiale a sua volta sono ridondanti solo apparentemente, mentre a un’analisi più attenta contribuiscono a costituire il significato delle frasi in cui sono inseriti.
Nella prima frase, già punta l’attenzione sul fatto che la doppia lettura è avvenuta in un periodo che si è concluso; la frase senza già, invece, sottolinea che la lettura si è ripetuta. Questa differenza potrebbe essere appena percepibile o, al contrario, molto rilevante a seconda del contesto in cui la frase è inserita. Se, per esempio, il parlante avesse appena ricevuto il libro in questione in regalo, la frase con già implicherebbe che tale regalo lo ha deluso (perché ha già letto quel libro due volte); quella senza già, invece, implicherebbe piuttosto che il regalo lo ha sorpreso (perché conosce benissimo quel libro, e lo apprezza molto, tanto da averlo letto due volte).
Nella seconda frase, a sua volta è ancora più necessario: se lo eliminiamo viene meno l’esplicitazione della reciprocità del saluto e il lettore non può, quindi, stabilire se i due personaggi si stiano salutando a vicenda o stiano entrambi salutando un terzo personaggio.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le due frasi sono corrette?

1. Non ve n’è mai fregato della vostra famiglia.

2. Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia.

 

RISPOSTA:

Le due frasi sono corrette, ma hanno significati opposti per via del verbo, che soltanto in apparenza è uguale. Nel primo esempio, il verbo coinvolto è fregarsi, un verbo intransitivo pronominale che significa ‘importare’; la frase, quindi, può essere interpretata così: “Non vi è mai importato della vostra famiglia”. Il pronome atono ne, in questo caso, serve ad anticipare il tema: “Non ve n‘è mai fregato della vostra famiglia“. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a destra (o a sinistra) è definita dislocazione e serve a ribadire il tema, per assicurarsi che l’interlocutore l’abbia identificato.
Nel secondo esempio, invece, la frase è costruita attorno al verbo procomplementare fregarsene (sui verbi procomplementari rimando alle risposte contenute nell’Archivio di DICO). Il suo significato non è ‘importare’, come per fregarsi, ma ‘mostrare indifferenza, infischiarsene’. La frase, quindi, assume tutto un altro senso: “Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia” equivale a “Non avete mai mostrato indifferenza nei confronti della vostra famiglia”, quindi “Vi siete sempre interessati della vostra famiglia”.
Questo caso, molto interessante, è un tipico esempio la cui risoluzione richiede una particolare attenzione alle particelle pronominali presenti nella frase, che possono modificare o, addirittura, ribaltare il significato di ciò che si vuole scrivere o dire.
Raphael Merida

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QUESITO:

Gradirei sapere se è corretto definire col termine situazione l’immagine di una foto che riproduce una realtà urbana del passato. Esempio: “Ricordo vagamente la situazione fissata da questa fotografia”.

 

RISPOSTA:

Certamente. Il sostantivo situazione può ben rappresentare una circostanza in un determinato momento. Per comprendere perché questa parola può adattarsi a vari contesti d’uso dobbiamo ripercorrere la sua etimologia. Il sostantivo situazione entra in italiano, probabilmente, attraverso il francese situation, a sua volta derivato dal latino medievale situare, verbo mantenuto intatto in italiano con il significato letterale di ‘mettere in un posto’ e con quello figurato di ‘inserire in un contesto’. Il verbo situare è un derivato del latino situs, il cui significato veicola già l’idea di luogo; tant’è che in italiano il sostantivo sito mantiene l’accezione di spazio fisico (“il sito archeologico di Selinunte è meraviglioso”) o figurato (“devo visitare il tuo sito internet”).
Raphael Merida

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QUESITO:

PER, DA, DI introducono la causa, ma cosa cambia tra le tre preposizioni? Perché alcune volte si possono usare tutte e tre e altre volte no?
Es. grido dalla / per la / di gioia, ma “Matteo è a letto per l’influenza”, non dall’influenza o di influenza.

 

RISPOSTA:

Dal punto di vista della funzione generale di ciascuna preposizione, per indica l’attraversamento (passare per il bosco), quindi il mezzo (prendere per le corna), ma anche la causa (piangere per una perdita) e il fine (studiare per un esame); da indica la provenienza (venire dall’Italia), quindi, anche se per ragioni diverse rispetto a per, la causa (piangere dalla gioia); di indica la relazione, che può prendere moltissime forme (il fratello di Mariola porta di casail tavolo di legnomangiare di gusto), tra cui anche la causa (morire di noia). Nell’esempio gridare dalla / per la / di, quindi, il sintagma costruito con dalla esprime l’origine del processo del verbo, quello costruito con per la esprime il percorso attraverso cui si è prodotto il processo del verbo, quello costruito con di indica in relazione a che cosa si è prodotto il processo del verbo. Sono, come si vede, sfumature diverse dello stesso concetto di causa. La spiegazione semantica, però, è parziale, e non permette di decidere quale sia la preposizione corretta (e se siano possibili più soluzioni) nel caso di sintagmi mai sentiti prima. Accanto alla funzione delle preposizioni si possono ricordare, allora, alcune costanti d’uso: di causale si usa soltanto in pochi sintagmi cristallizzati e non richiede mai l’articolo (mentre per e da sì): di freddodi caldodi famedi setedi gioia ed altre emozioni (di pauradi doloredi felicità); da si usa in tutti i sintagmi in cui si può usare anche di, ma richiede, come detto, l’articolo e ha maggiore libertà. Di, infatti, è legata non solo ad alcuni sintagmi, ma anche ad alcuni verbi: si può, per esempio morire di freddo e morire dal freddo, ma mentre si può svenire dal freddo non si può *svenire di freddo. Di là da questi sintagmi cristallizzati, comunque, non si usa neanche da; non si può, per esempio, *ammalarsi dall’aria freddaPer ha, invece, una distribuzione del tutto libera: si può sia morire per il freddo, sia svenire per il freddo, sia ammalarsi per l’aria fredda.
Queste considerazioni lasciano sicuramente spazio a casi dubbi, e non sono di pratico impiego quando bisogna usare la lingua in presa diretta. Per essere immediatamente sicuri di usare la preposizione giusta non c’è altro metodo che esercitarsi molto e, in caso di dubbio, usare gli strumenti lessicografici in circolazione, come i dizionari e le banche dati (oltre che i servizi di consulenza come DICO).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In diversi dizionari on line ho trovato come sinonimo di sinagoga il termine Chiesa.
Il sito Virgilio sapere Sinonimi mette come sinonimo di moschea chiesa musulmana.
Volevo sapere se il termine chiesa può essere usato come sinonimo di sinagoga.

 

RISPOSTA:

sinagoga, né moschea possono essere considerati sinonimi di chiesa e nessuno dei principali dizionari dell’uso mette in relazione sinonimica le tre parole. Chiesa, infatti, designa esclusivamente un edificio destinato al culto cristiano, oppure un gruppo di fedeli che professa la religione cristiana; allo stesso modo, sinagogaindica un edificio consacrato al culto ebraico o la comunità ebraica. Si differenzia la parola moschea, che indica soltanto l’edificio caratteristico della religione musulmana senza riferirsi alla comunità musulmana.
Raphael Merida

Parole chiave: Lingua e società, Nome
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QUESITO:

Ho un dubbio sull’analisi grammaticale di un nome. Nella frase “I gatti si riunirono e decisero quale nome dare alla gabbianella”, il sostantivo nome è concreto o astratto?

 

RISPOSTA:

La distinzione tra nomi concreti e nomi astratti è quasi sempre problematica e discutibile. In questo caso, poi, il problema è particolarmente complicato, perché il nome nome non solo è una parola, ma identifica metalinguisticamente una parola. Come ogni parola, quindi, ha una forma concreta, che viene pronunciata e sentita con l’udito, oltre che scritta e letta. D’altra parte, ha un significato, ovvero rimanda a un’idea mentale, a sua volta corrispondente alla persona nominata. Si può, quindi, concludere che il nome nome è insieme concreto e astratto. Soprattutto, però, si può concludere che la distinzione stessa tra nomi concreti e astratti è un esercizio logico un po’ ozioso, quando non arzigogolato, e di scarso effetto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamata notaio anziché notaia. Come devo accordare l’aggettivo quando mi riferisco a lei? È corretto dire “Il mio notaio è bravissimA / preparatissimA” o devo usare sempre e solo l’aggettivo al maschile?

 

RISPOSTA:

L’accordo è un fenomeno grammaticale; è, quindi, regolato dal genere, non dal sesso. Questo principio funziona senza sbavature quando i nomi designano oggetti inanimati (“La porta è rossa” / “Il tavolo è basso”), e non desta particolari problemi neanche con gli animali (“La giraffa maschio è altissima”, ma “Il maschio della giraffa è altissimo”). I dubbi, invece, sorgono nei rari casi in cui un nome che designa una categoria di persone ha un genere che non corrisponde al sesso del designato. L’italiano possiede un piccolo numero di questi nomi (che rientrano nel gruppo dei nomi promiscui, insieme a quelli come giraffapavone ecc.), quasi tutti femminili ma riferiti tanto a uomini quanto a donne: la guidala guardiala persona e pochi altri. Anche a questi nomi si applica la regola dell’accordo, per cui “Mario è una guida bravissima / una persona generosa” ecc.
I nomi mobili (come amico / amica) adattano il genere al sesso del designato modificando la desinenza; non hanno, quindi, il problema dell’accordo. In questo gruppo, però, rientrano alcuni nomi di professione e carica pubblica usati al maschile anche quando designano referenti femminili (notaioarchitettoil presidente e tanti altri). Questi nomi non fanno eccezione per l’accordo; Il femminile con nomi maschili va considerato scorretto anche in questi casi: non solo, quindi il notaio sarà sempre bravissimo e mai bravissima, ma anche la frase iniziale della sua domanda dovrà essere corretta in “Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamato notaio anziché notaia).
L’uso di un nome mobile maschile per un designato femminile – ricordiamo – è scorretto: così come non si può dire “Il mio amico Maria è una ragazza simpatica”, non si può dire “Il mio avvocato / notaio / architetto… Maria Rossi è una professionista eccellente”. La maggiore tolleranza per il maschile sovraesteso di nomi come notaio è un fatto puramente culturale e non riguarda le regole della lingua italiana. Bisogna, certo, ammettere che le regole della lingua sono permeate dalla cultura; per questo motivo, per esempio, alcune parole usate comunemente in una certa epoca divengono inappropriate e persino censurate in un’altra (inutile fare degli esempi). Se, però, l’italiano è stato modellato dalla cultura nel senso della sovraestensione del maschile dei nomi di professione in un’epoca in cui questo era normale e accettato, per lo stesso principio il femminile di questi nomi deve tornare a essere usato in un’epoca in cui il pensiero comune è cambiato.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“L’amore non deve c’entrare mai con il possesso”, una frase ascoltata in un discorso televisivo, ma che mi è suonata molto cacofonica. È corretta la forma? Si sarebbe potuta formulare in modo diverso?

 

RISPOSTA:

La forma, in effetti, è sempre più comune. Le forme più usate del verbo entrarci, che hanno il pronome proclitico (collocato prima del verbo), nonché l’esistenza dell’omofono verbo centrare, stanno probabilmente provocando la ristrutturazione del verbo nella coscienza dei parlanti: da forme come che c’entra, cioè, si producono sempre più spesso le forme analogiche deve c’entrare e simili. Il conflitto tra le forme analogiche innovative e quelle etimologiche, regolari, è attestato dalla diffusione di varianti ibride come c’entrarci, ancora meno giustificabili di quelle analogiche.
Attualmente il processo di ristrutturazione del verbo è substandard (ma non possiamo prevedere se in futuro tale processo avrà successo), pertanto le forme indefinite con il pronome proclitico (e nello scritto addirittura univerbato: non deve centrare) non possono essere ritenute accettabili, se non in contesti molto trascurati. Le forme che può prendere il verbo pronominale entrarci sono descritte qui.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Una frase come “Nessuna parola, fatto o azione mi hanno ferito” è corretta? Si può concordare l’aggettivo indefinito solo con il nome più vicino?

 

RISPOSTA:

L’accordo tra un aggettivo preposto e un soggetto composto di nomi di genere diverso è problematico, perché il nome più vicino all’aggettivo attrae la concordanza. Se, ad esempio, volessimo definire amatissimi il figlio e la figlia di qualcuno potremmo dire gli amatissimi figlio e figlia (con l’aggettivo al plurale maschile “onnicomprensivo”) o l’amatissimo figlio e l’amatissima figlia; il rischio, però, sarebbe di formare l’amatissimo figlio e figlia, per via dell’attrazione dell’accordo operata dal nome più vicino all’aggettivo, figlio. nel suo caso l’accordo al plurale non è possibile, visto che nessuno non ha la forma plurale, quindi non rimane che “Nessuna parola, nessun fatto o nessuna azione mi hanno ferito”. La concordanza di nessuno con il solo primo nome, comunque, non può dirsi un errore grave: non pregiudica, infatti, affatto la comprensione della frase (gli aggettivi non ripetuti potrebbero essere considerati semplicemente sottintesi).
Aggiungo che anche il verbo avere può andare al singolare (“Nessuna parola, fatto o azione mi ha ferito” o “Nessuna parola, nessun fatto o nessuna azione mi ha ferito”); il singolare, si badi, è dovuto non all’accordo con il solo primo soggetto, bensì all’accordo con ciascun soggetto uno alla volta, visto che i tre nomi sono presentati come uno in alternativa all’altro.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Una giornalista, alla radio, ha detto: «Era un artista che metteva tutti i suoi discepoli a proprio agio». Forse sono troppo pedante, fossilizzandomi sulle regole della sintassi e trascurando così il messaggio che il parlante voleva chiaramente suggerire, o, forse, sono io a essere in errore; ma quell’aggettivo, proprio, non dovrebbe riferirsi al soggetto?

Se così fosse, il significato della frase sarebbe alquanto bizzarro: l’“agio” sarebbe stato dell’artista stesso invece che dei discepoli di quest’ultimo. Al posto della giornalista, avrei detto «a loro agio».

 

RISPOSTA:

Ha perfettamente ragione, proprio è un errore, perché può riferirsi soltanto al soggetto della proposizione nella quale è inserito. Viceversa, a volte in luogo di proprio è ammesso anche loro, se non genera equivoci: «gli studenti, con le loro brave cartelle sulle spalle» (o «proprie cartelle»).

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

Volevo sapere quale delle due forme è corretta: «l’autobus/il treno viene» o «l’autobus/il treno arriva». E se solo una delle due forme è corretta vorrei capire perché l’altra non lo è.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono entrambe corrette, dal momento che, tra le varie accezioni (cioè significati) di entrambi i verbi venire e arrivare ve n’è almeno una in comune (cioè quella di ‘giungere in un luogo’), in cui, dunque, i due verbi sono sinonimi. Tuttavia, dato che, com’è noto, la sinonimia perfetta non esiste, va tenuto conto dei contesti in cui entrambi i verbi sono usati normalmente dai parlanti. Se se ne tiene conto, la differenza tra i due è schiacciante: con i mezzi di trasporto, arrivare è di gran lunga più frequente di venire, con migliaia (in qualche caso decine di migliaia) di occorrenze di scarto (dati facilmente verificabili in Google ricercando viene/arriva l’autobus/il treno). Perché? È pressoché impossibile rispondere a questa domanda, visto che la lingua evolve con percorsi non sempre lineari né analizzabili logicamente. Probabilmente i parlanti associano a venire (sempre in base alla frequenza e ai contesti d’uso) un tratto di maggiore ‘umanità’, cioè preferiscono quel verbo con soggetti umani o animati e con un certo scopo del movimento, laddove arrivare, invece, implica la sola idea di spostamento da un punto a un altro, con particolare riferimento alla meta. Infatti, se in Google si fa la ricerca “il treno che arriva/viene da”, ecco che la frequenza si inverte: viene è più frequente di arriva, perché, evidentemente, sottolineando la provenienza, si dà un valore semantico maggiore allo scopo o quantomeno alla natura dello spostamento. Morale della favola: i verbi sono corretti entrambi, ma è meglio usare arrivare, con i mezzi di trasporto, a meno che non ne si specifichi la provenienza.

Un’altra piccola osservazione a margine riguarda l’ordine dei sintagmi della frase con questi due verbi, che è preferibilmente quella verbo-soggetto, piuttosto che quella, canonica, soggetto-verbo. Questo accade perché arrivare e venire sono verbi inaccusativi, cioè intransitivi con ausiliare essere, che, come tali, trattano il soggetto perlopiù come elemento nuovo, piuttosto che come dato, e dunque un po’ alla stregua di un oggetto (per semplificare al massimo un fenomeno sintattico e pragmatico in verità molto complesso). Quindi: «arriva il treno/l’autobus» è un enunciato molto più frequente e naturale di «il treno/l’autobus arriva», se non segue altro sintagma, come per esempio «l’autobus arriva tra cinque minuti/subito», in cui invece l’ordine preferito è quello soggetto-verbo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Tema e rema, Verbo
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QUESITO:

Le mogli litigano con i mariti.

Le fidanzate ballano con i fidanzati.

Le mamme aspettano i figli all’uscita della scuola.

Vorrei sapere se questi tre esempi (che sono solo alcuni tra i tanti ricavabili nei contesti più disparati) creano, per così dire, delle relazioni semantiche ridondanti tra le “categorie” che citano all’interno della medesima frase.

È evidente che una moglie è tale se e solo se sussiste un marito, e lo stesso dicasi per una mamma in funzione di un figlio, ecc.

Non sarebbe stato sufficiente, e forse anche meno ridondante, citare una categoria più “ampia“ (una delle due, o quella del soggetto o quella dell’oggetto), senza per questo disperdere la semantica generale della frase?

Le donne litigano con i (propri) mariti.

Le fidanzate ballano con i (propri) fidanzati.

Le donne (le ragazze) aspettano i (propri) figli…

Quali soluzioni suggerireste?

 

RISPOSTA:

L’eliminazione della ridondanza è un proposito decisamente salutare nella scrittura, sebbene nessuna lingua possa eliminarla del tutto: il rumore di fondo (cioè la ridondanza) talora serve a far capire meglio i concetti e a veicolare meglio gli atti comunicativi. Nei casi dai lei proposti mi sembra che il suo giudizio sia forse un po’ troppo severo, e oltre tutto nel secondo caso non propone (forse per mero refuso) alcuna alternativa: «le fidanzate ballano con i fidanzati» (forse voleva intendere le ragazze?). Quello che risulterebbe invece davvero inutilmente ridondante sarebbe «propri»: è infatti del tutto controintuitivo che le fidanzate ballino con fidanzati altrui, o che le mogli litighino con mariti altrui ecc. Sicuramente, le altre sue alternative sono possibili, e il senso non ne risentirebbe (grazie all’inferenza semantica del contesto, come lei stessa ben intuisce). Tuttavia, non mi sentirei di affermare che «le donne litigano con i mariti» sia migliore di «le mogli litigano con i mariti» ecc. Anzi, tutto sommato, la seconda alternativa mi sembra più precisa, e dunque preferibile: «le ragazze aspettano i figli» potrebbe addirittura ingenerare l’equivoco di interpretare «ragazze» come ‘baby-sitter’ (per esempio) che aspettano figli di altre. E simili.

Fabio Rossi

Parole chiave: Coerenza, Retorica
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QUESITO:

Gradirei sapere quale dei due termini che vi proporrò è il più adeguato per definire la seguente condizione: vi sono delle perdite di acqua in un appartamento, il muro è fessurato eccetera. Orbene, definendo questa situazione, è più corretto parlare di problemi edilizi o architettonici oppure entrambi i termini sono corretti?

 

RISPOSTA:

Più che un dubbio linguistico il suo esempio riguarda un problema ingegneristico. Perdite d’acqua o fessurazioni nel muro, infatti, possono coinvolgere sia l’edilizia sia l’architettura e per definire con precisione il problema sarebbe bene conoscerne la natura attraverso un’analisi dettagliata. Sia la parola edilizia sia la parola architettura richiamano il concetto di ‘tecnica e arte della costruzione di edifici’, ma la prima si concentra sulla costruzione fisica dell’edificio e la seconda sull’estetica e sulla funzionalità degli spazi. A prima vista, si potrebbe dire che i problemi di infiltrazione o di fessurazione nel muro siano più legati a un problema edilizio. Tuttavia, se le fessurazioni sono il risultato di una cattiva progettazione strutturale, potrebbe trattarsi di un problema architettonico, e quindi potrebbe sovrapporsi al problema edilizio. In conclusione, non è possibile assegnare un aggettivo adeguato in base a un contesto così generico.
Raphael Merida

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

Si dice: «Mio padre, prima di morire, dieci anni fa (o prima?), aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi».

 

RISPOSTA:

La locuzione temporale “X fa” (per es. «dieci anni fa») può essere usata soltanto se il riferimento cronologico rispetto al quale si sta dicendo “X fa” è il momento stesso in cui si riporta l’affermazione. Quindi, ponendo che chi sta parlando lo stia facendo adesso, nel 2024: «Mio padre, prima di morire, dieci anni fa, aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi» vuol dire che il povero padre, nel momento in cui è morto (cioè dieci anni fa, rispetto al momento in cui si fa l’affermazione, e dunque nel 2014), aveva già pensato al futuro dei figli. «Prima», invece, è usato rispetto a un altro termine temporale, sempre al passato, oltre al momento in cui si riporta l’evento. Quindi, sempre ponendo che chi sta parlando lo stia facendo adesso, nel 2024: «Mio padre, prima di morire, dieci anni prima, aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi» significa che il padre dieci anni prima di morire aveva già pensato al futuro dei figli. Per cui, ponendo che il padre sia morto nel 2014, già nel 2004 aveva pensato al loro futuro. Per riassumere: si usa «dieci anni fa» se i riferimenti temporali sono soltanto due, cioè il momento in cui si parla o scrive dell’evento e il momento in cui l’evento è avvenuto; si usa invece «dieci anni prima» se i riferimenti temporali sono tre, cioè il momento in cui si parla o scrive dell’evento, il momento in cui l’evento è avvenuto e un terzo momento (cioè, per l’appunto, «dieci anni prima dell’evento 2, cioè quello della morte). Se io dico, nel 2024, «ci siamo conosciuti due anni fa», vuol dire che ci siamo conosciuti nel 2022; ma non posso dire «ci siamo conosciuti due anni prima», perché chi mi ascolta chiederebbe «prima di che cosa?». Posso invece dire: «ci siamo conosciuti due anni prima della maturità (oppure: due anni prima che finissimo la scuola)», perché, oltre al 2024 e al momento in cui ci siamo conosciuti, viene specificato anche un terzo riferimento cronologico (cioè la maturità, o la fine della scuola).

Fabio Rossi

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QUESITO:

So perfettamente che nell’italiano standard l’avverbio sempre va messo sempre dopo il verbo. Vale la stessa cosa per quasi sempre? A me la frase “Quasi sempre mangio carne la domenica” suona naturale, ma non so bene se si rifaccia a un italiano regionale o a quello standard.
Mi autereste a chiarire questo mio dubbio?

 

RISPOSTA:

Più che in posizione postverbale, l’avverbio sempre si trova naturalmente accanto al sintagma che focalizza, che a sua volta si trova di solito dopo il verbo. Questo avverbio, infatti (come anchesoltantoneanche e simili), ha il potere di far risaltare qualsiasi sintagma della frase che lo segua; prendendo la sua frase, per esempio, si noti come il picco informativo si sposti allo spostarsi dell’avverbio, anche se il sintagma si trova prima del verbo: “Mangio sempre carne la domenica”, “Mangio carne sempre la domenica” (ovvero ‘soltanto la domenica’), “Sempre carne mangio la domenica”, “Sempre la domenica mangio carne”. Gli avverbi focalizzanti non funzionano con i verbi, e per questo non si trovano davanti ai sintagmi verbali; possono, però, trovarsi tra l’ausiliare e il participio passato di un tempo composto, per focalizzare proprio il participio passato (“Ho sempre amato il calcio”). Quando è composto con quasisempre può mantenere la sua funzione di focalizzatore di un sintagma (“Mangio quasi sempre carne la domenica”), oppure può perderla, per divenire un’espansione, ovvero un’informazione aggiuntiva riferita all’intera frase, non a un singolo sintagma. Se serve a questo, l’avverbio può trovarsi all’inizio della frase, come nel suo esempio, o alla fine (“Mangio carne la domenica quasi sempre”), o anche in mezzo, purché sia pronunciato con una cadenza che ne chiarisce la natura di espansione (si noti la differenza tra “Mangio carne quasi sempre la domenica“, in cui quasi sempre focalizza la domenica, e “Mangio carne quasi sempre la domenica”, in cui quasi sempre si riferisce a tutta la frase.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi sottopongo questa frase: “Lei non volle andare in camera da letto. Restammo lì, su quelle vecchie poltrone, e pensai che eravamo i primi a farci l’amore”. Ovviamente a farci l’amore significa: ‘a fare l’amore SU quelle poltrone’. Ora vi chiedo: può il pronome ci sostutuire su (sulle poltrone)? Inoltre, la frase risulta subito comprensibile e scorrevole?

 

RISPOSTA:

La frase è scorrevole e comprensibile. I pronomi non hanno un significato preciso, ma prendono il significato del sintagma che di volta in volta riprendono, o a cui rimandano, adattandolo alla sintassi della frase in cui si trovano. Così, nella sua frase ci significa ‘su quelle poltrone’, in una frase come “Amo Roma e ci vado ogni volta che posso” il pronome ci significa ‘a Roma’, in una frase come “Se scavi sotto l’albero ci troverai una scatola” lo stesso pronome significa ‘sotto l’albero’ e così via.
Quasi tutte le grammatiche sostengono che civi e ne abbiano la natura di avverbi, non di pronomi, quando rappresentano indicazioni di luogo, come nella sua frase, dal momento che equivalgono a qui, da qui, da lì. Come si vede dagli esempi per ci (ma questo vale anche per gli altri), però, essi mantengono sempre la funzione di riprendere un sintagma introdotto altrove nella frase o nel testo, o ricavabile dal contesto (per esempio, davanti alla brochure di un viaggio organizzato un interlocutore potrebbe chiedere a un altro: “Ci andiamo?”): possiamo, quindi, considerarli pronomi anche in questo caso.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ritengo che il termine ipotesi si riferisca ad un contenuto, oggettivamente incerto, che viene dato come puramente possibile anche dal parlante, mentre i vocaboli arbitrario e illazione (che considererei sinonimi) definiscano un’affermazione data erroneamente come certa dal parlante, pur essendo oggettivamente solo possibile. Non essendo sicuro della mia posizione, gradirei un vostro parere al riguardo.

 

RISPOSTA:

Il nome ipotesi indica un presupposto logico che deve essere dimostrato vero o falso. Per esempio, l’ipotesi che il riscaldamento globale attuale sia prodotto in larga parte dalle attività umane è stata ampiamente provata. Una volta dimostrata, l’ipotesi diviene una tesi; è, comunque, spesso possibile mettere in discussione le prove a sostegno dell’ipotesi, quindi revocare la certezza della tesi derivante. Da questo significato di base, il nome ipotesi ha sviluppato quello, più comune, di ‘congettura’, che apparentemente è equivalente a ‘presupposto di un ragionamento’, ma invece presenta una determinante differenza di prospettiva: mentre, infatti, il presupposto innesca un ragionamento finalizzato a provarlo, una congettura potrebbe avere lo stesso valore ma è più spesso, al contrario, proposta come conclusone incerta di un ragionamento. Per quanto incerta, quindi, la congettura è rappresentata come un’opinione già formata, non come un’idea ancora da verificare. Con questo secondo significato, ipotesi si avvicina al significato comune di illazione, che è proprio ‘deduzione, congettura basata su prove incerte’. Rispetto a ipotesi, inoltre, nel significato di illazione è sottolineata la componente di incertezza, ovvero di insufficienza di prove, che porta con sé una connotazione negativa. Una illazione è, cioè, una congettura decisamente incerta, partigiana, una supposizione presentata come conclusiva ma in realtà indebita o ingiustificata, spesso introdotta per confondere il ragionamento di altri, o per danneggiare maliziosamente la reputazione di qualcuno.
L’aggettivo arbitrario ha, nel linguaggio comune, il significato di ‘non necessariamente ben motivato’ o ‘poco giustificato’; per questo motivo può considerarsi sinonimo di indebito e persino illegittimo. Tanto un’ipotesi quanto un’illazione possono essere arbitrarie, ma se un’ipotesi arbitraria è un passaggio logico azzardato, un errore in buona fede, l’illazione arbitraria è una fallacia architettata con dolo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Coerenza, Nome
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QUESITO:

È corretto usare espressioni come risposta inviata a mezzo mailrichiesta evasa a mezzo pec, oppure è più corretto l’uso della locuzione per mezzo mailper mezzo pec?

 

RISPOSTA:

Le locuzioni preposizionali a mezzocon il mezzoper il mezzoper mezzo sono tutte attestate nella storia della lingua italiana, con fortuna diversa a seconda delle epoche e del gusto dei parlanti. Il Grande dizionario della lingua italiana, infatti, le riporta tutte insieme come varianti della stessa locuzione (s. v. Mèzzo^2^). Bisogna, però, ricordare che tutte queste varianti sono, nell’italiano standard, completate dalla preposizione di, quindi a mezzo dicon il mezzo diper il mezzo diper mezzo di. Contro a mezzo di si pronunciano Pietro Fanfani e Costantino Arlía nel loro famoso “Lessico dell’infima e corrotta italianità” del 1881, un dizionario di voci considerate dai due studiosi scorrette o ingiustificate. Il dizionario ottocentesco suggerisce che a mezzo di sia un calco del francese au moyen (ma chiaramente intende au moyen de) e sostiene che non ci sia motivo per usare in italiano questa espressione perché a non può sostituire per (quindi a mezzo non può sostituire il ben più comune per mezzo) e perché la locuzione a mezzo esiste già e significa ‘a metà’. Il dizionario registra persino l’uso del simbolo matematico 1/2 al posto della parola mezzo nella locuzione, ovviamente condannandolo sprezzantemente, a testimonianza che la sostituzione delle parole con i numeri era una strategia già sfruttata a metà Ottocento.
Gli argomenti dei due studiosi contro a mezzo di funzionano in ottica puristica: non c’è motivo di introdurre in una lingua nuove espressioni se la lingua ha già gli strumenti per esprimere gli stessi concetti. Bisogna, però, rilevare che molte parole ed espressioni sono entrate in italiano da altre lingue in ogni epoca, anche se la lingua italiana in quel momento aveva strumenti espressivi equivalenti; l’innovazione, l’accrescimento, l’adattamento ai tempi sono fenomeni fisiologici in una lingua. Inoltre, l’ipotesi che a mezzo di si confonda con a mezzo è pretestuosa: intanto la preposizione di distingue nettamente le due espressioni, e poi il loro significato e la loro funzione sintattica sono talmente diversi che è impossibile scambiare l’una per l’altra.
Rispetto ad a mezzo di, oggi si va diffondendo a mezzo, senza la preposizione di. Ferma restando l’impossibilità di confondere anche questa variante accorciata della locuzione preposizionale con la locuzione avverbiale a mezzo (peraltro oggi rarissima), rileviamo che tale accorciamento è tipico dell’italiano contemporaneo: le preposizioni cadono in espressioni come pomeriggio (per di pomeriggio) e, proprio nel linguaggio burocratico, (in) zona (per nella zona di) in frasi come “La viabilità in zona Olimpico è stata ripristinata” (o anche “La viabilità zona Olimpico è stata ripristinata”), causa (per a causa di) in frasi come “La ditta dovrà pagare una penale causa ritardo dei lavori” e simili. L’eliminazione della preposizione è, come si vede dagli esempi, adatta a contesti burocratici o, in alcuni casi, contesti comunicativi rapidi e informali (è favorita, per esempio, dalla scrittura di messaggi istantanei); è facile prevedere, però, che le riformulazioni accorciate di queste espressioni diventeranno prima o poi più comuni di quelle complete, fino a scalzarle del tutto dall’uso. Non a caso, nella sua stessa domanda lei propone di sostituire a mezzo con per mezzo, ugualmente priva della preposizione di.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nell’espressione godere di un diritto a quale complemento corrisponde di un diritto?

 

RISPOSTA:

In analisi logica è un complemento di specificazione. Più utile, però, è l’interpretazione data dalla grammatica valenziale, secondo cui si tratta di un complemento oggetto obliquo, ovvero di un sintagma che ha la stessa funzione del complemento oggetto, ma non è diretto, bensì preposizionale, semplicemente perché il verbo richiede tale preposizione (come in fidarsi dicontare suobbedire a e tanti altri). Il sintagma di un diritto, infatti, è necessario per completare sintatticamente il verbo godere, quindi è un argomento di questo verbo, mentre il complemento di specificazione non è mai un argomento del verbo, perché indica un dettaglio relativo a un sintagma nominale (la casa di Marioil cancello della scuolal’introduzione del libro…). Se confrontiamo, inoltre, godere di un diritto con, per esempio, esercitare un diritto, vediamo che la struttura profonda del predicato è identica, perché la preposizione fa da collegamento formale tra il verbo e il sintagma, non contribuisce in alcun modo al significato del sintagma. Infine, un’ulteriore prova del fatto che questo sintagma ha la funzione di un complemento oggetto è che nel parlato e nello scritto trascurato si tende a dimenticare la preposizione, producendo espressioni come godere un diritto (ma anche abusare qualcuno al posto di abusare di qualcunoobbedire un ordine, invece di obbedire a un ordine). Sebbene queste realizzazioni siano scorrette, bisogna notare che se in queste espressioni la preposizione avesse un significato preciso (e non fosse, invece, un collegamente soltanto formale), non sarebbe possibile escluderla; nessuno, infatti, direbbe o scriverebbe mai la casa Mario invece di la casa di Mario.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gradirei sapere se la seguente espressione è corretta: “Erano rimasti due sorelle e un fratello ed erano tutti celibi”. È corretto definire i fratelli e la sorella con l’unico termine celibi o è d’obbligo esprimersi diversamente, attribuendo ai maschi il termine celibi e alle femmine il termine nubile?

 

RISPOSTA:

I termini celibe e nubile hanno un riferimento di genere inequivocabile, quindi sarebbe scorretto attribuire l’uno o l’altro al genere opposto. Per descrivere la situazione bisogna costruire la frase diversamente, per esempio … e nessuno dei tre si era sposato o … e né le sorelle né il fratello si erano sposati, oppure scegliere un termine diverso, come single o non sposati.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le espressioni per la prima volta (es. “Lo vedo per la prima volta”) e prima del tempo (es. “Invecchiare prima del tempo”) possono essere considerate locuzioni avverbiali di tempo (nel secondo caso come equivalente di anzitempo) o vanno analizzate differentemente? In particolare, prima del + tempo deve altrimenti essere analizzata come locuzione prepositiva?

 

RISPOSTA:

Si tratta di locuzioni avverbiali di tempo. Il termine locuzione riguarda esclusivamente il significato dell’espressione, a prescindere dalla forma; a esso si sovrappone in parte il termine, scientificamente più trasparente, sintagma, che riguarda sia la forma sia il significato (è l’unità formalmente più piccola della costruzione linguistica dotata di significato autonomo): molte locuzioni avverbiali e aggettivali hanno la forma di sintagmi preposizionali (tra quelle aggettivali si pensi, ad esempio, a quelle usate per descrivere le colorazioni dei tessuti: a quadrettia losanghea pois…). Locuzioni prepositive (che, per la precisione, si chiamano locuzioni preposizionali) sono, invece, espressioni come davanti afuori dainvece di e anche prima di. Come si vede, quindi, nella locuzione avverbiale prima del tempo è contenuta la locuzione preposizionale prima di; mentre, però, la locuzione avverbiale prima del tempo è un sintagma preposizionale, la locuzione preposizionale prima di (così come tutte le altre locuzioni preposizionali) non è un sintagma, perché non è dotata di significato autonomo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi è capitato di scrivere la seguente frase in un messaggio: “Ti invio il documento di cui mio marito ha parlato alla tua collega”. Nel rileggerlo e analizzandone la sintassi, non riscontro errori; tuttavia, a orecchio, non mi convince.
Se non ci fosse il complemento di termine in coda alla costruzione, non avrei alcun dubbio.

 

RISPOSTA:

La sintassi della frase è corretta; il complemento di termine retto dal verbo parlare deve necessariamente essere inserito dopo il verbo stesso (l’inversione sarebbe molto innaturale), quindi la posizione in coda alla frase è quasi obbligata. Non è, del resto, possibile eliminarlo, visto che è il secondo argomento del verbo (il cui schema valenziale è, appunto, SOGG. + parlare + ARG. PREPOS.): parlare senza l’indicazione della persona a cui si parla, infatti, prende significati del tutto diversi da quello qui inteso, ovvero ‘avere la facoltà del linguaggio’ (“Mio figlio ancora non parla”), oppure ‘dialogare’ (“Di solito parliamo di calcio”) o anche ‘rivelare un segreto’ (“Il complice ha parlato”).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Nella frase “È stato il sindaco a raccontare la storia più divertente della serata”, il nome storia è concreto o astratto?

 

RISPOSTA:

La distinzione tra nomi concreti e astratti è una ossessione della grammatica italiana non pienamente giustificata. I concetti di concreto e astratto, infatti, sono di per sé sfuggenti, ma soprattutto non riguardano la lingua, bensì la realtà; in altre parole, a essere concreto o astratto non è il nome storia (o qualsiasi altro nome), bensì il referente del nome stesso, la “cosa” che viene designata con il nome storia (o qualsiasi altra “cosa” designata da altro nome). Fatta questa premessa, comunque, nell’ottica usata dalle grammatiche scolastiche, storia è in questo caso un nome concreto, perché designa un racconto specifico che è stato pronunciato da un parlante e udito da un pubblico.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Desidererei sottoporre alla vostra attenzione questa frase: “Oggi sono 70 anni che i miei nonni si sono sposati”. Se i nonni non ci sono più o anche uno solo di essi è mancato, è corretto esprimersi in questo modo o è necessario ricorrere ad un’altra espressione? Per esempio: “Oggi sono 70 anni che i miei nonni si erano sposati” oppure “I miei nonni si erano sposati, come oggi, 70 anni fa”.

 

RISPOSTA:

Il trapassato prossimo si usa per esprimere un rapporto di anteriorità rispetto a un altro evento avvenuto nel passato. Nella frase in questione l’organizzazione sintattica mette l’accento sui 70 anni, per cui l’inserimento di un momento di riferimento passato (la morte di uno dei due coniugi o di entrambi), che giustificherebbe l’uso del trapassato, comporterebbe una contraddizione; il lettore, cioè, non saprebbe come armonizzare l’informazione che il calcolo degli anni ammonta a 70 con l’informazione che tale calcolo non ha valore, perché nel frattempo è successo un fatto che lo ha modificato. Inoltre, dal punto di vista semantico l’evento dello sposarsi è momentaneo: una volta avvenuto non può essere annullato da un altro evento successivo. Anche con la morte di uno dei coniugi, la circostanza del matrimonio rimane valida e legata a un preciso momento del passato. Diversamente, il processo dell’essere sposati può essere modificato dalla morte (o il divorzio). Il messaggio da lei richiesto, insomma, può essere espresso con un periodo ipotetico, per esempio: “Oggi i miei nonni festeggerebbero 70 anni di matrimonio (se uno dei due non fosse morto)”, oppure “Oggi i miei nonni sarebbero sposati da 70 anni (se uno dei due non fosse morto)”.

Fabio Ruggiano

Francesca Rodolico

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QUESITO:

Quali frasi sono corrette?

1a. Chissà se esistano i fantasmi
1b. Chissà se esistono i fantasmi
Oppure:
2a. Alcuni mi chiedono se esistano i fantasmi
2b. Alcuni mi chiedono se esistono i fantasmi

Inoltre:
3a. Mi piace un sacco le persone
3b. Mi piacciono un sacco le persone

 

RISPOSTA:

Le frasi 1a, 1b, 2a e 2b sono tutte varianti ben formate. Si tratta di interrogative indirette che ammettono sia il congiuntivo sia l’indicativo. La soluzione con il congiuntivo è più aderente alla grammatica standard ed è preferibile in contesti di alta formalità; quella con l’indicativo invece è meno formale, ma comunque corretta.
Fra 3a e 3b la variante corretta è soltanto 3b. Il verbo piacere è intransitivo e non può reggere un complemento oggetto; una delle particolarità di questo verbo (le cui sfumature si possono approfondire qui) è il soggetto, che solitamente si trova posposto al verbo e sembra comportarsi come un complemento oggetto. In questo caso, il soggetto è le persone, quindi l’accordo grammaticale andrà al plurale piacciono. La frase riscritta in altro modo sarebbe: “Le persone piacciono a me un sacco”. Aggiungo, come nota di chiusura, che un sacco, che qui equivale a ‘molto’, ha valore avverbiale ed è tipico del linguaggio colloquiale.
Raphael Merida

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“Hai scelto il brano peggiore tra i tanti possibili”.
Vorrei sapere se l’aggettivo possibili nella suddetta costruzione è corretto.

Sì, la costruzione è corretta: l’aggettivo possibile è comunemente usato in contesti simili senza un significato preciso, ma con la funzione di rafforzare proprio l’aggettivo o il pronome (ogni possibile candidatotutti i libri possibili…).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È corretto l’uso di conosciuto come sinonimo di noto?

 

RISPOSTA:

Sì, conosciuto e noto sono sinonimi. Come tutti i sinonimi, comunque, non sono intercambiabili sempre: ovviamente conosciuto non può essere sostituito da noto quando è usato come participio passato, non come aggettivo (“L’ho conosciuto in un bar”); a sua volta noto è preferito a conosciuto quando si riferisce a qualcosa che deriva la qualità dall’essere stata trattato o discusso in precedenza: “L’argomento è noto a tutti; non serve tornarci su”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Non riesco a capire bene quale ausiliare usare con il verbo volare se non si è in presenza di un moto a luogo e da luogo. Come posso comportarmi in queste frasi?

1. Questo è l´aereo su cui ho volato/sono volato.

2. Ho volato in Italia (qui inteso come stato in luogo).

3. Cosa ha volato/è volato in cielo?

4. Sono volato/ho volato (con il deltaplano).

5. L’uccellino ha volato/è volato (ma non via).

6. I partecipanti sono volati/hanno volato sulla pista (inteso come stato in luogo).

Quanto al verbo vincere, esso regge la preposizione contro?

 

RISPOSTA:

Il verbo volare può essere costruito con entrambi gli ausiliari quando si riferisce a persone (che possono volare grazie all’uso di mezzi di trasporto aerei o in significati figurati), di animali dotati di ali e di veicoli deputati al volo. In questi casi avere è il più utilizzato, mentre è preferibile utilizzare essere quando il verbo è accompagnato da complementi di moto da luogo o a luogo, in quasi tutti i significati figurati e per le azioni in corso di svolgimento. Di conseguenza, negli esempi 1, 2, 4 e 5 sarebbe preferibile selezionare l’ausiliare avere. Al contrario, richiedono l’ausiliare essere l’esempio 3, in quanto qui il soggetto potrebbe essere un oggetto che si libra in volo sospinto dal vento o altre forze, e l’esempio 6, perché qui volare è usato con il significato figurato di ‘muoversi velocemente’ (lo stesso che si userebbe in frasi come “Sono volato, ma sono arrivato comunque tardi”).

Nell’esempio 5 la scelta dell’ausiliare influisce sul significato della frase: ha volato significa ‘è riuscito a volare’; è volato,  preferibilmente seguito da un sintagma che indica il luogo (vialontanofuori dalla finestra…), significa ‘si è spostato in volo’.

In quanto alla seconda domanda, il verbo vincere può essere transitivo (vincere la partita), ma è più spesso intransitivo (vincere a dadi, di due punti, con l’inganno). In entrambi i casi può essere accompagnato da complementi indiretti che indicano l’avversario sconfitto e sono costruiti con con o contro. Quando è transitivo, inoltre, l’avversario può essere costruito come complemento oggetto: vincere il nemico.

Francesca Rodolico

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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QUESITO:

Chiedo delucidazioni sull’uso dell’espressione proseguire gli studi.
Queste forme sono tutte corrette e alternative?
PROSEGUIRE GLI STUDI AL CORSO DI STUDI…
PROSEGUIRE GLI STUDI PRESSO IL CORSO DI STUDI…
PROSEGUIRE GLI STUDI NEL CORSO DI STUDI…

 

RISPOSTA:

La variante più naturale è nel corso di studi. Accanto a questa si può usare presso ilpresso, infatti, è usato comunemente con il significato di ‘in, dentro’, sebbene significhi propriamente ‘vicino a’ e sebbene l’uso con il significato di ‘in’ sia più adatto all’ambito burocratico. La scelta più insolita sarebbe al, visto che la preposizione a _è preferita per introdurre ambienti associati fortemente a specifiche esperienze (_a casaa scuolaall’università) oppure ambienti dai confini non facilmente determinabili (a Romaa Venezia, ma in Italia). Possibile sarebbe anche riformulare la frase inserendo il verbo iscriversi, per esempio così: proseguire gli studi iscrivendosi al corso di (o anche nel corso). In questo caso la preposizione a _(o _in) sarebbe richiesta direttamente dal verbo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“Le città iniziano ad occuparsi da loro delle leggi”.

Mi chiedo se nella frase da loro sia corretto; a me verrebbe spontaneo utilizzare da sé, anche se si tratta di plurale.
Qual è la forma corretta?

 

RISPOSTA:

La forma corretta è da sé: questo pronome, infatti, sostituisce sia lui/lei, sia loro quando si riferisce al soggetto. Nella frase in questione, la sostituzione del pronome con loro è favorita da due fattori:  è associato più facilmente al singolare che al plurale; non è presente un altro possibile referente del pronome. La sostituzione sarebbe, infatti, ben più grave in una frase come “Le città greche iniziano a fare alleanze con città asiatiche; iniziano anche ad approvvigionarsi di merci da loro”, in cui loro sarebbe certamente riferito dal lettore alle città asiatiche, non alle città greche.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sottoporvi un quesito (sperando sia in linea con il tipo di argomenti da voi trattati).
In navigazione si usa il termine ‘doppiare’ quando si vuole esprimere l’azione di superare/passare un capo con un’imbarcazione; ad esempio “doppiare Capo Horn in barca a vela è pericoloso”.
Il mio dubbio riguarda l’origine della parola italiana: trovo anti-intuitiva la parola ‘doppiare’ che assomiglia (e derivare) da “doppio, due volte” in relazione all’azione che esprime (superare un capo), sopratutto se paragonata all’inglese dove si utilizza il verbo ‘round’ (round girare/passare attorno).

 

RISPOSTA:

Doppiare ‘oltrepassare, superare un ostacolo’ è un tecnicismo marinaresco entrato in italiano in epoca rinascimentale come ampliamento semantico (o prestito semantico) del verbo doppiare, già esistente con il significato di ‘rendere qualcosa due volte maggiore, raddoppiare’. L’origine del prestito è lo spagnolo doblar, che all’epoca aveva già il significato di ‘oltrepassare un ostacolo’. Spiegare perché doblar avesse sviluppato questo significato non è facile: probabilmente dal significato del latino volgare duplare ‘rendere doppio, raddoppiare’ si è sviluppato il significato ‘piegare’ (perché quando si piega una linea si ottengono due segmenti distinti, quindi si raddoppia la linea). Questo significato, però, può essere riferito alla rotta necessaria per superare un ostacolo, ma non all’ostacolo stesso: è la rotta, cioè, che viene doppiata ‘piegata’, non l’ostacolo. Per spiegare l’uso effettivo del verbo (doppiare un ostacolo, non doppiare una rotta), quindi, dobbiamo ipotizzare un ulteriore slittamento semantico, da ‘piegare’ a ‘girare, aggirare’. I verbi to round (inglese) e umschiffen ‘circumnavigare, navigare intorno’ (tedesco) conferma, del resto, che l’atto del superare un ostacolo piegando la rotta della nave è comunemente definito come ‘girare, aggirare’.
A margine va detto che negli sport su pista il verbo doppiare è usato come estensione del tecnicismo marinaresco, e infatti ha il significato di ‘superare, oltrepassare un concorrente’; non c’è in questo significato alcun riferimento al ‘raddoppiamento’ (quando si doppia un concorrente non si raddoppiano i giri conclusi, ma semplicemente se ne aggiunge uno).
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

Ho un dubbio sull’uso di riferirsi in questa situazione comunicativa:
“Per ogni informazione si riferisca a quanto indicato sul programma”.
Può essere qui usato come sinonimo di attenersi?

 

RISPOSTA:

Qui riferirsi a significa ‘prendere con punto di riferimento’, non ‘riguardare, avere come argomento’ (che è il significato più comune). Con questo significato, il verbo si avvicina ad attenersi, ma non può essere considerato suo sinonimo: attenersi, infatti, contiene una sfumatura di precisione che non ammette deroghe assente in riferirsi a.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

I verbi essere e stare sono intercambiabili?

Ad esempio alla domanda “Dove sei?”, potrei rispondere usando il verbo stare e dire “Sto qui”?

C’è differenza tra “Sono alla cassa” e “sto alla cassa”?

Ci sono dei casi in cui il verbo stare non andrebbe usato?

RISPOSTA:

La confusione deriva dal fatto che spesso il verbo stare è usato legittimamente al posto del verbo essere in frasi, per esempio, che esprimono una condizione psicologica di una persona (“Sono in ansia” / “Sto in ansia”). Tuttavia, anche se esiste una forte continuità semantica fra essere e stare, ci sono dei casi in cui questi due verbi non sono intercambiabili. Per esempio, rispondere a “Dove sei?” con “Sto qui” in luogo di “Sono qui” è un tratto tipico dei dialetti meridionali, inclini a sostituire il verbo essere con il verbo stare (“Sto nervoso” al posto di “Sono nervoso”; “La sedia sta rotta” al posto di “La sedia è rotta”). Vista la sua natura regionale, occorre evitare questa forma in contesti formali.

Riguardo alla seconda domanda, la risposta è sì: sto alla cassa significa ‘svolgere la mansione di cassiere’; sono alla cassa, invece, ‘trovarsi vicino alla cassa’. A differenza di essere, il verbo stare, infatti, racchiude alcuni significati che designano una situazione duratura nel tempo (“Sono a Roma” significa ‘mi trovo a Roma’, “Sto a Roma”, invece, ‘abito a Roma’).

Raphael Merida

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QUESITO:

Mi accade frequentemente che dei non madrelingua condividano con me i propri dubbi sull’omissione dell’articolo determinativo, desiderosi di trovare una (suppongo inesistente) sistematizzazione definitiva della regola. Oltre ai casi citati da Serianni nella “Grammatica italiana” (IV 72-75) non sono in grado di trovare una sistematizzazione di altri casi in cui l’articolo debba (o possa) venire omesso. La mia domanda è questa: I casi che non rientrano in quelli “canonici” descritti da Serianni come devono essere considerati? Come omissioni determinate da variazione diastratica/diamesica/diafasica, e quindi che non riguardano l’italiano standard, o come qualcos’altro che non riesco a comprendere cosa sia?
Ad esempio, l’ultimo dubbio che mi è stato posto riguarda la frase “Come conciliare lavoro e maternità?” e “Oggi a pranzo ho mangiato pastasciutta al tonno.”

 

RISPOSTA:

L’omissione dell’articolo è obbligatoria soltanto in alcuni dei casi elencati da Serianni (con i nomi propri, i titoli di opere d’arte, i nomi di mesi, i vocativi); in altri è comune ma non obbigatoria: “Il lunedì è il mio giorno preferito”, “Dov’è la mamma?”. In questi casi l’alternanza si spiega con la natura affine ai nomi propri di questi nomi, oppure con la loro alta frequenza d’uso come vocativi. Un’altra categoria di nomi per cui l’omissione è obbligatoria è quella dei nomi inseriti in espressioni cristallizzate: con calmaper favoredi frettada sballoa rigore, ma anche a casain ufficioa scuolaa teatro. Con questa categoria il problema è che la cristallizzazione delle espressioni non è predicibile; per esempio a teatro ma al cinemain banca ma alla postain ufficio ma allo studio. Per di più, la cristallizzazione è “in movimento”: per esempio è già presente nell’uso panitaliano a studio accanto a allo studio (mentre in alcuni italiani regionali esistono a marea spiaggia e altre costruzioni simili).
Di là da questi casi, l’omissione è possibile con tutti i nomi comuni al plurale, per indicare oggetti indeterminati non specifici: “Per tutta la vita ho fatto il venditore di automobili” / “Mi piacciono le automobili veloci“. Diversamente, al singolare, l’omissione è tipica dei nomi massa, come pastasciutta nel suo esempio (ma anche caffèoroacqua ecc.); in questo caso la presenza o assenza dell’articolo modifica fortemente la percezione del nome: “Avete caffè?” (si riferisce alla merce) / “Abbiamo finito il caffè” (si riferisce alla riserva conservata in casa) / “Vuoi un caffè?” (si riferisce a una dose della bevanda). Nel primo caso, quello in cui il nome esprime pienamente la sua natura di sostanza non specifica, si può anche optare per del caffè, con il cosiddetto articolo partitivo.
Come i nomi massa si comportano anche i nomi astratti, come quelli del suo primo esempio: con lavoro e maternità si rappresentano i due nomi come valori astratti; con il lavoro e la maternità si allude alle loro manifestazioni concrete (dover alzarsi presto la mattina, dover rispettare orari, consegne e scadenze, dover reagire prontamente in caso di emergenze ecc.).
Per concludere, nei casi in cui l’omissione dell’articolo è facoltativa scegliere sulla base della sfumatura che si intende dare alla frase è arduo: l’unica soluzione per essere sicuri è chiedere a un madrelingua, che quasi mai avrà dubbi su quale variante sia preferibile, anche se quasi mai saprà spiegare perché. I madrelingua, infatti, memorizzano una gran quantità di casi, da cui ricavano le regole automaticamente e inconsapevolmente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Nome
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QUESITO:

Desidererei sapere se la parola competenza può essere usata in un contesto come il seguente: “Non è di mia competenza pagare questa somma”. Il termine competenza farebbe pensare ad ‘abilità, conoscenza’ ecc, quindi dovrebbe essere improprio usarlo in una espressione come quella precedentemente citata; tuttavia mi capita frequentemente di sentirlo espresso in simili contesti.

 

RISPOSTA:

Nel contesto da lei presentato la parola competenza è pienamente legittima. Come giustamente osserva, competenza vuol dire ‘abilità, conoscenza’; questi significati, però, che non sono gli unici e, anzi, rappresentano soltanto uno dei campi semantici di questa parola. Nel suo significato più ampio, competenza indica la ‘capacità di orientarsi in un determinato campo’ (“Quella professoressa parla con competenza di ogni aspetto della storia moderna”); in quello tecnico, invece, cioè quello legato alla sfera giuridica, designa la ‘legittimazione di un’autorità o di un organo a svolgere specifiche funzioni’: “Questa causa è di competenza del giudice amministrativo”. Dal significato tecnico, il campo semantico di competenza si è esteso per indicare la ‘pertinenza’, cioè ciò che spetta a qualcuno (come nel suo esempio). Sempre connesso a questa sfera, il sostantivo plurale competenze indica il compenso: “Dobbiamo pagare all’avvocato le sue competenze”.

Raphael Merida

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QUESITO:

Alcuni vocabolari riportano la forma grafica “neoassunto”, altri no.
Scrivere “neo assunto” è comunque corretto?

 

RISPOSTA:

La grafia corretta è neoassunto, riportata anche dai principali dizionari dell’uso.
Neo-, che significa ‘nuovo, recente’, è un prefissoide di origine greca; si tratta cioè di un elemento lessicale dotato di autonomia semantica che può essere premesso a parole di qualsiasi origine (si pensi per esempio ad auto- nel significato di ‘da sé’ da cui si formano parole come autocoscienza, autocritica, automobile). Per queste ragioni, le parole composte con un prefissoide prediligono la forma univerbata a quella staccata.
Raphael Merida

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

Gradirei sapere se l’affermazione “persona impositiva”, riferita ad un soggetto capace di farsi valere, può essere definita corretta.

 

RISPOSTA:

No, perché l’aggettivo impositivo è usato perlopiù in riferimento al tono, oppure in contesti burocratici, in riferimento a un provvedimento, un’autorità, una legislazione e simili, non a una persona. Naturalmente, è sempre possibile, con una certa forzatura semantica, che in qualche testo impositivo venga riferito a una persona, ma per esprimere il concetto di “che impone il proprio volere o autorità” esistono altri aggettivi in italiano, quali autoritario, oppure, con significato ancora più fortemente connotato negativamente, arrogante, dispotico, sopraffattore ecc.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

Vorrei sapere se una frase che comincia con “che peccato” abbia bisogno dei puntini di sospensione (tralasciando il punto esclamativo) o possa farne anche a meno. Esempi:

Che peccato dover andarmene così presto…

Che peccato sia morto così giovane…

 

RISPOSTA:

Che peccato! è di per sé una formula esclamativa che può indicare dolore, dispiacere o, in alcuni casi, ironia, quindi il segno interpuntivo richiesto è il punto esclamativo; in frasi che cominciano con che peccato però è possibile aggiungere i puntini di sospensione. Aggiungendoli, infatti, il discorso rimane sospeso volontariamente (in questo caso per reticenza o per un sottinteso allusivo) lasciando intendere però gli impliciti sviluppi. La prima frase può essere, per esempio, interpretata così: “Che peccato dover andarmene così presto… mi stavo proprio divertendo!”; la seconda, invece: “Che peccato sia morto così giovane… era un bravissimo ragazzo!”. Le stesse considerazioni valgono per “Che peccato…”, che lascia intendere all’interlocutore o al lettore qualcosa di non detto.

Raphael Merida

Parole chiave: Interiezione, Retorica
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QUESITO:

Ho notato che appurare e constatare sono dati per sinonimi dai vocabolari. Appurare dovrebbe stare per ‘accertare’, ‘verificare’; l’utilizzo di questo verbo presuppone che non si sia certo di un qualcosa.

Esempio:

  1. A) Ho appurato l’esattezza di questa teoria.

Il senso della frase dovrebbe essere questo: “Ho verificato/valutato l’esattezza di questa teoria”.

Quindi il verbo appurare si dovrebbe usare quando c’è un dubbio e si vuole verificare se un qualcosa sia vero o falso. Questo qualcosa potrebbe rivelarsi vero o anche falso, in questo caso una teoria, quindi non si sa se sia vera o falsa, in quanto ho fatto una verifica senza dare l’esito.

Esemplifico la stessa frase con il verbo constatare:

  1. B) Ho constatato l’esattezza della teoria.

In questo caso, il verbo mi dà l’impressione di non mettere in dubbio la cosa, bensì confermare e dimostrare, dare conferma del fatto e non investigare sulla veridicità, ma riconoscere come vero un qualcosa che è stato verificato in precedenza e il riscontro alla fine è stato favorevole, ovvero la teoria che poi si è rivelata esatta ed è una verità fattuale.

Si possono fare altri esempi:

  1. C) “Ho appurato la sincerità di quella persona. Ti posso dire che è meglio starne alla larga.”

D)”Ho constatato la sincerità di quella persona.”

Nella frase C con appurare dico di aver indagato, ma solo dopo la successiva frase ti faccio capire implicitamente che è una persona falsa facendoti capire l’esito del controllo che ho svolto

Nella frase D invece non ho bisogno di aggiungere altro, in quanto mi sono reso conto della sua sincerità e la posso confermare.

È proprio per questa enorme differenza, forse, che mi sembrerebbe strano dire: “Hai constatato se ci sono tutti”, in quanto constatare, oltre a verificare qualcosa, dà anche l’impressione proprio di confermare positivamente la cosa, senza lasciare la sfumatura del dubbio.

RISPOSTA:

I verbi appurare e constatare significano ‘accertare’, quindi sono legati da un rapporto di sinonimia. La distinzione più netta, che ha permesso la conservazione di entrambi i verbi, è di tipo diafasico; ciò significa che il loro uso varia a seconda del contesto situazionale: constatare è usato in ambito giuridico, appurare no.

In tutte le sue frasi i due verbi sono equivalenti. L’ultima frase (“Hai constatato se ci sono tutti”, alla quale occorre aggiungere il punto interrogativo alla fine), invece, è costruita in modo sbagliato: il verbo constatare, in questo caso, richiede l’uso di che + indicativo, quindi: “Hai constatato che ci sono tutti?”.

Per trovare una sfumatura di significato occorre risalire all’etimo: il latino constat (da constare) significa ‘è certo’, mentre purus significa ‘puro’, cioè il risultato dell’eliminazione delle impurità. Da queste considerazioni si ricava che appurare(derivato di purus) allude al processo di eliminazione dei dubbi per arrivare alla verità e constatare invece al risultato dello stabilire la verità.

Raphael Merida

Parole chiave: Etimologia, Verbo
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QUESITO:

Mi chiedevo se tutte e 3 le espressioni possano essere considerate corrette:

Si accoglie il paziente X, SU SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.

Si accoglie il paziente X, SOTTO SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.

Si accoglie il paziente X, SOTTO LA SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.

RISPOSTA:

Tutt’e tre le espressioni sono corrette, ma la prima (su segnalazione) è la variante più attestata. La preposizione su introduce una determinazione di modo; espressioni come su segnalazione, su indicazione, su richiesta ecc. possono essere parafrasate come attraverso la segnalazione, in seguito alla segnalazione, dopo la richiesta. La mancanza dell’articolo nella sequenza preposizione + nome indica quasi sempre la cristallizzazione di un’espressione (su segnalazione, prendere per buono ‘accettare come vero’, a scuola ecc.). Diversamente da su (in cui la presenza dell’articolo cambierebbe il senso della frase: sulla segnalazione di…), nella locuzione sotto (la) segnalazione è possibile aggiungere o no l’articolo senza che il significato cambi; in questa espressione, quindi, il processo di cristallizzazione è in corso. La preposizione impropria sotto si comporta allo stesso modo di su in altre espressioni, come sotto cauzione (“È stato liberato sotto cauzione”), sotto commissione (“Ha eseguito il lavoro sotto commissione”), o quando assume il significato di ‘condizione di debolezza dovuta a fattori esterni’, come nelle formule sotto accusa, sotto pressione ‘costretto a un’attività impegnativa e costante’ ecc.

Per completezza va ricordato che oltre a su e sotto anche la preposizione impropria dietro può essere usata per formare espressioni equivalenti (dietro richiesta, dietro segnalazione ecc.). Quest’ultima preposizione è marcata da alcuni vocabolari contemporanei come appartenente all’uso burocratico.

Raphael Merida

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QUESITO:

So che bene si usa con un verbo, ma non il verbo essere. Esempio: “Sto bene”, ma “La pizza è buona”. Vorrei sapere se le seguenti frasi siano corrette:

Non è bene fare questa cosa.
Non è buono fare questa cosa.
Non è un bene fare questa cosa.

 

RISPOSTA:

Bene può essere avverbio o nome: quando accompagna stare è usato come avverbio (sto bene = ‘mi sento in salute, a mio agio’); quando accompagna essere è usato come nome (è bene = ‘è cosa giusta, utile, vantaggiosa’, è un bene ‘è una cosa giusta, utile, vantaggiosa’). La variante “Non è buono fare questa cosa” è anche possibile (come, per esempio, “Non è onesto evadere le tasse”), ma è sfavorita proprio per la concorrenza di bene.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Non mi è molto chiara la differenza tra i verbi essere e esserci.
Ad esempio alla domanda “C’è Mario?”, possiamo rispondere “Sì, c’è /Sì, è qui”, ma non va bene “Sì, c’è qui”, ma non capisco perchè, invece, va bene dire “C’è un uomo qui”.

 

RISPOSTA:

Il verbo esserci significa proprio ‘essere in luogo’, quindi l’espressione c’è qui è inutilmente ripetitiva. La ripetizione, però, è ammessa, e in certi casi necessaria, se la frase è marcata, cioè è costruita per mettere in forte evidenza una certa informazione, per segnalare il collegamento tra la frase e il resto del testo o per precisare quale sia la rilevanza della frase nel contesto situazionale. Nella frase “C’è un uomo qui”, per esempio, il parlante precisa che l’uomo si trova nello stesso luogo in cui si svolge la conversazione, perché dal suo punto di vista la presenza dell’uomo è rilevante soltanto in relazione al luogo (per esempio perché è sorpreso di trovare un uomo in quel luogo). Va detto che tale frase sarà pronunciata con una pausa prima di qui, a dimostrazione del fatto che l’informazione qui è isolata rispetto a c’è un uomo, come se fosse un elemento aggiunto a parte. Nello scritto, tale pausa può essere rappresentata con una virgola, quindi “C’è un uomo, qui”. La stessa costruzione può adattarsi a “C’è Mario, qui” soltanto in assenza della domanda precedente (“C’è Mario?”): se il parlante risponde alla domanda, non ha motivo di precisare qui, perché la presenza nel luogo è presupposta proprio nella domanda. A sua volta, la domanda può essere costruita in modo marcato: “C’è Mario, qui”, per precisare che l’interesse per la presenza di Mario è legato proprio al luogo in cui si svolge la conversazione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho sempre dato per scontato che la lunghezza fosse verticale e la larghezza orizzontale. E che quindi la longitudine fosse orizzontale e la latitudine verticale, essendo il nostro pianeta più lungo orizzontalmente che verticalmente.
Adesso però ho dei dubbi.
Nel grande romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei Tartari, si accenna a un gradone che corre longitudinalmente verso il Nord, che taglia longitudinalmente la pianura. Non capendo come facesse un piano orizzontale a correre in lungo, ho cercato il significato di longitudinale: «che è disposto nel senso della lunghezza», «orizzontale, in lunghezza». Se è orizzontale, non dovrebbe essere disposto nel senso della larghezza?

 

RISPOSTA:

La longitudine si calcola in orizzontale (cioè, letteralmente, parallelamente all’Orizzonte), perché segna un punto a Est o a Ovest del meridiano di Greenwich. La latitudine, al contrario, segna un punto a Nord o a Sud dell’Equatore, quindi si calcola in verticale (cioè perpendicolarmente all’Equatore).
Bisogna, però, distinguere tra i nomi longitudine e latitudine e gli aggettivi longitudinale e latitudinale (nonché gli avverbi in -mente da essi derivati): i primi hanno un’applicazione esclusivamente scientifica (e sono usati nella lingua comune solo nelle locuzioni avverbiali in longitudine e in latitudine); i secondi sono usati regolarmente anche con un significato estensivo (che recupera il significato etimologico longus ‘lungo’ e latus ‘largo’), e in particolare longitudinale ‘esteso nel senso della lunghezza’, latitudinale ‘esteso nel senso della larghezza’. Di conseguenza, longitudinale diviene, nella lingua comune, equivalente a lungo (per cui longitudinalmente e in longitudine equivalgono a in lunghezza), mentre il meno usato latitudinale diviene equivalente a largo (e latitudinalmente e in latitudine equivalgono a in larghezza). Dal momento che, per convenzione, in una superficie la lunghezza è la dimensione più estesa e la larghezza quella meno estesa, nell’esempio da lei riportato il gradone descritto è un oggetto orientato nella stessa direzione della dimensione più estesa dell’area considerata.
Si noti che tanto la lunghezza quanto la larghezza sono dimensioni orizzontali, cioè parallele al piano dell’Orizzonte; nel caso di oggetti tridimensionali a queste si aggiunge l’altezza, che è la dimensione verticale, cioè perpendicolare al piano dell’Orizzonte.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È possibile usare i termini: avvocata, architetta, ingegnera ecc.? Rimangono formali in questa maniera?

 

RISPOSTA:

I nomi di professione femminili come quelli da lei elencati, pur scarsamente o per niente usati in passato, sono regolari e possono essere usati in ogni contesto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gradirei sapere in quale contesto è possibile usare il termine aporia Mi risulta che la aporia sia un problema senza soluzione ma di tipo specifico. Se X è alto e Y è basso e mi si chiede chi è il più ricco, non posso certo dire che questo problema sia una aporia bensì un problema irrisolvibile per insufficienza di informazioni. Se invece X è cardiopatico e l’inattività fisica danneggia il cuore, ma anche l’attività fisica nei cardiopatici può causare la morte, allora che possibilità ha X di risolvere il suo problema? Nessuna. Questo paradosso che si viene a creare (se faccio sforzi muoio ma se non ne faccio danneggio il cuore già compromesso e muoio ugualmente) io lo definirei aporia. Non essendo certo di ciò chiedo il vostro aiuto.

 

RISPOSTA:

Sì, ha ragione, l’aporia, anche in senso generale, implica comunque una contraddizione che non consente di giungere alla soluzione di un problema, esattamente come l’esempio del cardiopatico, danneggiato sia dal movimento, sia dall’assenza di movimento. Invece il primo caso rientra, caso mai, nell’incoerenza, dal momento che non si possono mettere in relazione altezza e ricchezza, in quanto appartenenti a sfere concettuali diverse.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei capire meglio la differenza tra i seguenti termini: serio / serioso: una persona seriosa è una persona pesante?

Emozionante / emozionale: può un bracciale essere emozionale perché richiama delle emozioni?

A tempo, per tempo, in tempo-di fretta, in fretta: comprendo la differenza tra andare in fretta e andare di fretta ma, ad esempio, nel caso di «mangiare» si dice «mangiare di fretta» o «mangiare in fretta»?

Solo, da solo

 

RISPOSTA:

Sì, una persona seriosa è una persona pesante, che si prende troppo sul serio; anche un argomento può essere serioso.

Emozionale ha un uso molto limitato, sebbene oggi se ne abusi per influenza dell’inglese emotional, per cui non mi meraviglierei se anche un bracciale venisse (impropriamente) definito emozionale, anche se a rigore emozionale non è ciò che produce emozioni, bensì ciò che riguarda le emozioni, quindi si può parlare di stato emozionale (o emotivo).

Meglio «mangiare in fretta»; «di fretta» di solito si riferisce a andare o essere (ma non solo): «vado di fretta», «sono di fretta» = «ho fretta». Comunque, non è scorretto dire «mangiare di fretta».

Solo e da solo sono spesso intercambiabili: «sono sempre solo / da solo». Ma a volte non sono equivalenti: «riesci a farlo da solo» vuol dire ‘senza l’aiuto di nessuno’.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Avverbio, Italiano L2
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QUESITO:

Vi propongo questa frase che ho avuto modo di leggere recentemente: “Il tempo è una dimensione nell’ambito della quale avviene la trasformazione della materia”. È corretto il termine “dimensione” riferito al tempo? Se sì, sarebbe altrettanto corretto usare il termine “entità” che, nella sua estrema genericitâ, dovrebbe contenere anche il concetto di tempo?

 

RISPOSTA:

Da un punto di vista fisico, secondo la teoria della relatività, il tempo è una dimensione, per la precisione la quarta; tuttavia, da un punto di vista più generale, qualunque oggetto o concetto può essere definito entità (cioè qualcosa che è), e dunque anche il tempo. Quindi entità è l’iperonimo (cioè il termine più generale), mentre dimensione è l’iponimo (cioè il termine più specifico). Ed è sempre possibile definire un iponimo con il suo iperonimo: dire di un fiore con le spine che è una rosa non esclude che sia anche un fiore e prima ancora un vegetale.

Fabio Rossi

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

mi sarebbe gradito il vostro parere relativamente alla correttezza del termine metafora riferito ad un’opera letteraria. Mi sembra molto più appropriato, in questo caso, l’uso del termine allegoria; però mi è capitato frequentemente di imbattermi anche nella prima soluzione. Faccio un esempio: “Quest’opera è una metafora della vita”.

 

RISPOSTA:

Senza dubbio il termine allegoria sarebbe più appropriato, dal momento che rimanda, usualmente, a un complesso di concetti simbolici, piuttosto che al singolo uso traslato di una singola parola o espressione (come invece fa la metafora). Tuttavia, spesso il termine metafora è usato nel senso meno tecnico e più lato (e prossimo quindi a quello di allegoria) di ‘uso allusivo, simbolico’, e dunque si può accettare anche «un’opera come metafora della vita».

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica
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QUESITO:

Sono molto comuni costruzione col “di” partitivo nelle quali manca un soggetto/oggetto perché sottinteso:

  1. a) Ce ne sono (tante) di cose!
  2. b) Ne ha fatte (tante) di cose!

Costruzioni analoghe sono quelle seguite da un modificatore nominale:

  1. c) Direi che (di persone) ce ne sono (tante) che non vanno mai al cinema.
  2. d) Di situazioni simili ne ho vissute (tante) di tutti i colori.
  3. e) Nella vita di cose ne vedrai (tante) di belle e di brutte.

Nella frase “e” il modificatore del sintagma nominale sottinteso (“tante) è preceduto dalla preposizione “di”, ma a differenza della frase “d”, dove il modificatore nominale è un vero e proprio sintagma preposizionale, qui abbiamo un aggettivo che fa modificatore nominale, aggettivo che di norma non è preceduto da nessuna preposizione, tranne in questi specifici casi.

Quello che mi chiedo è:

Se rendessimo esplicito il sintagma nominale “tante”, l’aggettivo richiederebbe lo stesso quel “di” o perlomeno sarebbe facoltativa la scelta di inserirlo o meno?

  1. f) Nella vita di cose ne vedrai tante di belle e di brutte. A me non convince proprio quel “di” in quest’ultima frase , anzi lo casserei proprio, poiché al mio orecchio suona malissimo, ma a rigor di logica forse è corretto?

 

RISPOSTA:

La ragione della presenza del sintagma preposizionale introdotto da di è dovuto al fatto che il clitico ne pronominalizza un sintagma preposizionale introdotto da di. Tant’è vero che senza ne il di cade: «ci sono tante cose/persone», «ha fatto tante cose», «ci sono tante persone che non vanno al cinema» ecc.

In «Di situazioni simili ne ho vissute (tante) di tutti i colori», «di tutti i colori» è un’espressione idiomatica ammissibile soltanto se introdotta da di, tant’è vero che il di rimane anche senza ne: «ho vissuto (tante) situazioni (simili) (che erano) di tutti i colori».

In «Nella vita di cose ne vedrai tante di belle e di brutte», come giustamente dice lei, il secondo (e il terzo) di è di troppo (e dunque da evitare), perché, per via del clitico ne, serve il sintagma preposizionale «di cose», mentre belle e brutte sono aggettivi che, come tali, si collegano al nome (cose) senza preposizione. Esattamente come «vedrai cose belle e brutte». A meno che non siano aggettivi sostantivati (cioè con cose sottinteso): «Nella vita ne vedrai (tante) di belle e di brutte». Meno bene «Nella vita ne vedrai (tante) belle e brutte». Del resto, l’espressione idiomatica è «vederne delle belle», non certo *«vederne belle».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vi propongo questa frase: “Quell’esame di laboratorio si avvale dell’uso di sostanze radioattive”. Desidererei sapere se il verbo in questione può riferirsi ad una procedura oltre che a colui o a coloro che tale procedura pongono in atto.

 

RISPOSTA:

Non sono sicuro di aver ben compreso la sua domanda: vuole sapere se il verbo avvalersi può ammettere un soggetto inanimato (quell’esame), oppure soltanto animato (i tecnici di laboratorio)? Se la domanda è questa, la risposta è sì, il verbo avvalersi, benché propriamente riferito a soggetti animati, può, per metonimia, riferirsi anche a soggetti inanimati che indichino, per traslato, le persone. È evidente che con esame di laboratorio si intende qui la persona o le persone che hanno eseguito quell’esame.

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica, Verbo
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QUESITO:

Non sempre riesco a trovare la preposizione giusta, proprio come nel caso dei verbi e aggettivi seguenti:

discutere di politica so che é corretto ma va anche bene ´discutere di Carlo o su Carlo´?

parlare di musica o sulla musica

persuado Ines a iscriversi…

sono persuaso di o a

mi sono persuaso di o a

convinco Ines di o a

mi convinco di o a

mi sono convinto di o a

fortunato di o a 

sono d´accordo di o a

badare di non cadere o a non cadere

sono deluso di o per aver perso

Come ci si comporta quando non si riescono a trovare le giuste preposizioni per un verbo, un aggettivo … nel dizionario?

 

RISPOSTA:

La scelta della preposizione è tutt’altro che semplice, anche per i madrelingua. In caso di dubbio, i vocabolari migliori aiutano quasi sempre, perché di solito specificano le principali reggenze preposizionali soprattutto dei verbi, talora anche dei sostantivi e degli aggettivi. I dizionari più utili in questo senso sono il Sabatini Coletti (gratuitamente consultabile nel sito del Corriere della sera), il GRADIT di Tullio De Mauro (gratuitamente consultabile nel sito internazionale.it) e il Nuovo Devoto Oli. Vediamo ora i suoi casi specifici.

«Discutere di politica», «di Carlo» vanno benissimo. Si può anche discutere su qualcosa, però è sicuramente una scelta più formale o adatta a una discussione più specifica, non per parlare del più e del meno, per cui «discutere su Carlo», ancorché corretto, suonerebbe un po’ strano.

«Parlare di musica» è la scelta migliore. Se si sta parlando a un convegno si può dire anche «fare una conferenza sulla musica di Chopin». Su presuppone un parlare più specificamente, mentre di ha un uso esteso a tutte le situazioni.

«Persuado Ines a iscriversi»: benissimo.

«Sono persuaso di» va bene, ma è possibile anche a, che accentua il fine: «mi persuasi ad ascoltarlo», «sono persuaso di volerlo fare».

«Convinco Ines di o a» vanno bene entrambi, ma, se il contesto sottolinea il fine, allora è meglio a, come per persuadere: «Convinco Ines a venire a cena con me», «sono convinto di volerla invitare a cena».

«Fortunato di» è meglio di «fortunato a», se segue una proposizione infinitiva, ma se segue un nome si può usare solo a: «sono fortunato di giocare a tennis con te», ma «sono fortunato al gioco», «a carte». Ma è possibile anche di in alcuni casi: «fui fortunato del risultato». Ed è possibile anche in: «fortunato in amore». Dipende dal contesto: in certe espressioni è meglio a, in altre di, in altre in: in casi simili la consultazione del vocabolario è indispensabile.

«Sono d’accordo» può reggere sia di sia a. «Sono d’accordo di finire prima», «è d’accordo a vendermi la moto». Per l’argomento su cui si è d’accordo si usa su: «essere d’accordo su qualcosa».

«Badare di non cadere» o «a non cadere» vanno bene entrambi, il primo è più comune.

«sono deluso di» o «per aver perso» vanno bene entrambi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Preposizione, Registri, Verbo
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QUESITO:

Quale delle seguenti frasi è corretta dal punto di vista grammaticale?
1. La sua destinazione? l’Italia.
2. La sua destinazione? Italia.
Oppure sono corrette entrambe?

 

RISPOSTA:

In italiano i nomi degli Stati richiedono l’articolo determinativo (l’Italia, il Cile, gli Stati Uniti, lo Zambia ecc.). Fanno eccezione Israele, che non vuole l’articolo perché è un nome proprio di persona (infatti la dizione corretta sarebbe lo Stato di Israele), San Marino, per la stessa ragione di Israele, Andorra, che tende a coincidere con una città, e le isole piccole (Cipro, Malta), per la stessa ragione.
La frase 2, comunque, non è impossibile, ma veicola una sfumatura retorica: in essa Italia suggerisce che nel nome siano comprese implicazioni più ampie di quelle legate allo Stato, che riguardano, per esempio, la vita futura della persona. Possiamo fare un altro esempio con un nome comune, per chiarire il concetto: “- Che cosa desideri? – La pace” / “- Che cosa desideri? – Pace”. Nella seconda risposta il nome pace è caricato di un valore più pregnante, come se, appunto, il desiderio riguardasse non soltanto la pace, ma anche le conseguenze e le implicazioni della pace stessa.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

 

Si dice: “questi discorsi non c’entrano nulla” oppure “questi discorsi non centrano nulla”?

 

RISPOSTA:

 

La forma corretta è c’entrano. Entrarci è un verbo procomplementare che, come ci ricorda il Grande Dizionario Italiano dell’Uso (GRADIT), può essere usato con valore intensivo nel significato di ‘trovare posto, avere spazio sufficiente per stare in qualcosa’ («In questa stanza c’entrano mille persone») o con il significato figurato di ‘avere attinenza con qualcosa’, come nel caso da lei presentato. In una frase come «questi discorsi non centrano l’argomento» il verbo in questione è, invece, centrare nel significato figurato di ‘cogliere con precisione il punto centrale di un tema’.

Per approfondire la morfologia del verbo entrarci la invito a leggere la risposta La posizione del pronome.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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QUESITO:

1)Ripensandoci meglio, ho dovuto rettificare/emendare/correggere il mio precedente “sì” in un “no”.

2) ho dovuto specificare il mio “no, grazie, non posso venire” in “no, non verrò MAI”.

È legittimo questo uso di questi verbi con la preposizione “in”?

La sua funzione che sembra avere, ammesso che siano corrette le frasi, è la stessa che hanno verbi come “trasformare”, “cambiare” e simili:

– Lo ha trasformato in un brav’uomo.

– Ho cambiato una banconota da 20 euro in monete da 2 euro.

– Il malcontento si tradusse in rivolta.

Il complemento in questione non saprei descriverlo, in quanto in maniera generica parlerei di “complemento di moto a luogo figurato”, per via del passaggio/della transizione che sembra essere da una condizione all’altra, da uno stato all’altro.

Per quanto riguarda la prima frase sono sicuro di aver letto e sentito frasi simili.

Per quanto riguarda la seconda, col verbo “specificare”, invece no, in quanto ho pensato che potesse avere senso e rientrare in quel tipo di frase che riguarda appunto “trasformare” e affini.

 

RISPOSTA: solitamente

La preposizione in non è appropriata con nessuno dei quattro verbi. Semmai, potrebbe essere usata la preposizione con, con funzione di introduttore di complemento di mezzo: correggere/emendare/rettificare/specificare A con B. Inoltre, emendare solitamente è costruito soltanto con il complemento oggetto e non con altro complemento che indichi la versione sostituita a quella emendata. Più o meno lo stesso vale per rettificare. Se segue un altro complemento, oltre all’oggetto, con emendare, esso è introdotto o da da o da di, per intendere i difetti dai quali (o dei quali) il documento è stato emendato: «emendare qualcosa dai (o dei) vizi».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Desidererei sapere quale espressione è più corretta per definire un insieme di sintomi che, dapprima sottostimato tanto da generare. un quadro privo di collocazione nel lessico medico, ad un certo punto finisce per trovare un termine specifico che lo definisca. Il dubbio si riferisce a queste due espressioni: «Ha trovato (l’insieme di sintomi) una sua dignità sul piano nosologico o nosografico». Ritengo che entrambi i termini siano corretti, ma non essendone certo, vorrei un vostro parere a riguardo.

 

RISPOSTA:

Nosologico e nosografico sono sinonimi, pertanto, nella frase in questione, può usare indifferentemente o l’uno o l’altro. Gli aggettivi, infatti, derivano da nosologia e nosografia, dati come sinonimi dalla Enciclopedia della medicina Treccani con la seguente definizione (s.v. nosografia): «Studio descrittivo delle malattie. La n. comprende la classificazione delle malattie per organi e apparati e per generi eziologici, la semeiotica, la sintomatologia e l’eventuale epidemiologia. La classificazione nosografica è in uso nelle istituzioni sanitarie pubbliche a fini statistici, finanziari ed epidemiologici».

Fabio Rossi

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QUESITO:

L’altro giorno osservavo mia moglie che si stava gustando una salsiccia che mio figlio, di ritorno da Norcia, le aveva portato. La mangiava a piccoli pezzetti per farla durare di più e con più gusto rievocando antichi sapori in quanto da bambina, per sfuggire dai bombardamenti su Roma, era stata ospitata da alcuni lontani parenti che abitavano nei dintorni di Norcia. Nel guardarla ho usato il termine “stai centellinando quella salsiccia da oramai tre giorni…..” e mi è venuto il dubbio che il termine centellinare potesse essere usato correttamente solo per bevande e non anche in senso figurato per cibo a piccoli morsi anche se l’obiettivo in fondo è lo stesso: ‘gustare di più’, ‘far durare più a lungo’, assaporare evocando antichi sapori. È corretto usare il termine in questo senso?

 

RISPOSTA:

Il verbo centellinare ha come significato principale ‘bere a piccoli sorsi’ (il centellino o centello è il ‘piccolo sorso’) ma può essere usato anche in senso figurato per riferirsi al cibo e, più in generale, a tutto ciò che è connesso alla sfera sensoriale del gusto; non può essere usato, invece, nel significato da lei proposto di ‘assaporare evocando antichi sapori’. Possiamo quindi “centellinare un buon caffè”, “centellinare una salsiccia”, “centellinare un libro”: se nel primo caso il significato di centellinare sarà quello di ‘bere a piccoli sorsi per assaporare meglio’, negli altri due sarà quello di ‘gustare lentamente qualcosa per trarne il massimo piacere’. Inoltre, centellinare può essere usato in senso figurato anche con il significato di ‘usare con parsimonia’ come nel caso di “centellinare le energie”.

Raphael Merida

Parole chiave: Nome, Verbo
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QUESITO:

Le espressioni carteggio informatico e carteggio digitale, usate al fine di indicare uno scambio di e-mail, messaggi WhatsApp o sms, possono essere considerate corrette? Se così non fosse, quali altre espressioni potrebbero essere usate in loro vece?

 

RISPOSTA:

Sì, entrambe le espressioni potrebbero essere usate per indicare uno scambio di sms, di messaggi inviati tramite e-mail o servizi di messaggistica istantanea. Per avere il requisito di carteggio (digitale o informatico), però, è necessario che lo scambio di messaggi fra due persone sia continuo nel tempo. Sarebbe possibile usare anche il termine corrispondenza, già adottato nel linguaggio informatico per indicare uno scambio di messaggi che hanno in comune lo stesso destinatario o lo stesso oggetto.

Raphael Merida

Parole chiave: Lingua e società, Nome
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QUESITO:

Vorrei sapere se è più corretto dire: “Ho dormito fino adesso” oppure “fino ad adesso”. Ritengo che entrambe le espressioni siano corrette.

 

RISPOSTA:

Entrambe le locuzioni sono corrette. La preposizione fino è seguita, di solito, da un avverbio o da una preposizione che determina il momento preciso in cui si conclude qualcosa che ha una durata nel tempo. Con alcuni avverbi di tempo, come adesso, ora, allora, la preposizione a può essere omessa. Fino adesso, dunque, equivale a fino ad adesso, così come, per esempio, la locuzione finora (o con grafia non comune fin ora) corrisponde a fino a(d) ora. Per ragioni di eufonia si può usare sino al posto di fino.
Raphael Merida

Parole chiave: Avverbio, Preposizione
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QUESITO:

Queste due frasi, nonostante contengano il non, hanno lo stesso significato?
“Incapacità di fare silenzio”
“Incapacità di non fare silenzio”
Io le interpreto entrambe con il significato di ‘urlare’.

 

RISPOSTA:

Nelle espressioni (più che frasi sono parti di frasi) il non è determinante: se parafrasiamo non frase silenzio con parlare (non è necessario ricorrere al verbo urlare), la seconda espressione significa ‘incapacità di parlare’, che è, come ci si aspetta, data la presenza della negazione, il contrario del significato della prima espressione, in cui non non c’è.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Avverbio
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QUESITO:

Gradasso può essere considerato un sinonimo di spavaldo, visto che entrambi hanno come sinonimo spaccone?

 

RISPOSTA:

In una lingua difficilmente esistono sinonimi perfetti: a ben vedere, tra le parole c’è sempre una differenza anche solo sfumata di significato. Nella terna spaccone, spavaldo, gradasso il primo nome ha un significato vicino a quello degli altri due, perché condivide con essi il tratto della vanteria eccessiva; in spavaldo, però, è più forte che negli altri due il tratto dell’esibizione del coraggio di fronte agli altri.

Tra spaccone e gradasso, invece, la differenza sta nella maggiore arroganza del gradasso rispetto allo spaccone, che risulta più legato all’esibizione di qualità non necessariamente possedute.

Le differenze si notano maggiormente se ricostruiamo le etimologie delle tre parole. Nell’etimologia di spavaldo, probabilmente dal latino pavor ‘paura’ + il prefisso s- e il suffisso germanico -aldo, si nota già un riferimento alla mancanza di paura connotato però negativamente dal suffisso –aldo (come nella parola ribaldo). Il sostantivo gradasso, che caratterizza in negativo una persona che si vanta in modo eccessivo delle proprie qualità inesistenti, è un’antonomasia formata sul nome del guerriero saraceno Gradasso, un personaggio dell’Orlando innamorato e dell’Orlando Furioso descritto come impulsivo e arrogante. Spaccone è un sostantivo derivato dal verbo spaccare più il suffisso accrescitivo –one. A differenza del gradasso, dietro il quale si nasconde un tipo di carattere ben definito, lo spaccone è colui che, iperbolicamente, vanta la forza di spaccare il mondo (senza però riuscirci).

Raphael Merida

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QUESITO:

Visto che sapere regge l’indicativo, ma in frase negativa anche il congiuntivo, queste alternative sono tutte corrette?
“So che è possibile che sia sia rotto”
“So che è possibile che si è rotto”

“Non so se sia possibile che si sia rotto”
“Non so se è possibile che si è rotto”
“Non so se sia possibile che si è rotto”
“Non so se è possibile che si sia rotto”

 

RISPOSTA:

Le alternative sono tutte corrette. Si consideri che nel secondo gruppo le varianti con il congiuntivo sia nella subordinata di primo grado (se sia possibile) sia in quella di secondo grado (che si sia rotto) sono le più formali.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

  1. “Stiamo parlando di voi stessi, ragazzi miei.”
  2. “Stavo parlando ai ragazzi di loro stessi.”

In questi due casi, stessi è corretto quale rafforzativo, oppure si tratta di un uso scorretto, in quanto il soggetto della proposizione non coincide con il pronome cui si riferisce l’aggettivo?

 

RISPOSTA:

L’uso è corretto in entrambi i casi; l’aggetto stesso può accompagnare i sintagmi nominali della frase (anche costruiti con un pronome) a prescindere dalla funzione sintattica da questi svolta.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La preposizione di può  essere impiegata nella formazione di complementi di tempo.

Esempio:

“Il panettone si mangia di martedì” = ‘ogni martedì’.

Forse sarebbe utilizzabile anche davanti a mesi e periodi festivi dell’anno:

“il panettone si mangia sempre di dicembre /  Natale” = ‘ogni dicembre /  Natale’.

In generale, però, l’uso non “dovrebbe”, ma magari mi sbaglio, essere impiegabile nelle interrogative e nelle relative:

“Di quando / di che periodo/ di che mese / di che giorno si mangia il panettone?”

“Questo è il periodo / mese / giorno di cui si mangia il panettone”.

Ripensando, però, a verbi come ricorrere o cadere, che fanno uso della preposizione di, mi sono sorti dei dubbi.

Ecco una frase tratta da un dizionario:

“Quest’anno Pasqua cade di marzo”.

Quello che mi chiedo è se l’uso e le regole cambino in presenza di simili verbi:

“Di quando / di che periodo / di che mese / di che giorno cade / ricorre Pasqua?” (???)

“Questo è il periodo / mese / giorno di cui cade / ricorre questa festa” (???).

 

RISPOSTA:

La preposizione di si può usare per formare un complemento di tempo determinato; quando si combina con i nomi della settimana conferisce al sintagma un significato accessorio specifico, riguardante la tendenziale iterazione del processo (“Ci vediamo di domenica = ‘… solitamente la domenica’ / “Ci vediamo domenica” = ‘… questa domenica’ ). Di là dalla combinazione con i nomi della settimana, la preposizione è poco usata per questo scopo; a essa vengono preferite in o a, ciascuna preferenzialmente o obbligatoriamente in combinazione con alcune serie di parole (per esempio (in / di / a maggio, ma a Natale, difficilmente di Natale, mai in Natale). Le interrogative che le sembrano innaturali, pertanto, sono semplicemente insolite; l’unica costruzione effettivamente scorretta è di quando, perché quando esprime già senza preposizione quel significato (di quando è usato, in uno stile trascurato, soltanto insieme al verbo essere con il significato di ‘a quando risale’; per esempio: “Di quando è il pollo che è in frigo?”). Le relative, invece, risultano estremamente innaturali, per quanto in linea di principio corrette. Diversamente dalle interrogative (escluse quelle introdotte da quando), che ripropongono il sintagma preposizionale con il nome (di che periodo, di che mese…), le relative spostano la preposizione sul pronome, producendo una combinazione molto complessa, vista la scarsa frequenza d’uso di di con questa funzione. Qualsiasi parlante preferirebbe, in questo caso, in cui.

I verbi cadere e ricorrere ‘capitare regolarmente’ sono, in forza del loro significato, completati da argomenti costruiti come sintagmi preposizionali introdotti proprio da di, ma anche da in e a, con le stesse precisazioni circa la combinabilità con diverse serie di nomi e all’interno di tipi di frasi fatte in precedenza.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

1a) Le parole che iniziano / terminano per a.

1b) La lettera per cui inizia / termina la parola mela è proprio questa.

1c) Per quale lettera inizia / termina questa parola?

2a) Le parole che iniziano / terminano in a.

2b) La lettera in cui inizia / termina la parola mela è proprio questa.

2c) In quale lettera inizia / termina questa parola?

Sempre con per e in, a livello sportivo, ho sentito frasi come:

3a) La partita che è finita per 1-1.

4a) La partita che è finita in 1-1.

Azzarderei anche delle frasi (che ovviamente sono di mia invenzione e non ho ancora sentito, onestamente, ma che sono la versione in forma di frase interrogativa e relativa delle due frasi precedenti) come ad esempio:

3b) Questo è il risultato per cui è finita la partita.

4b) Questo è il risultato in cui è finita la partita.

3c) Per quale risultato è finita la partita?

4c) In quale risultato è finita la partita?

Quali sono rispettivamente i complementi introdotti da per e in nelle frasi?

Per quanto riguarda in azzarderei che si possa trattare di complemento di luogo figurato, mentre per quanto riguarda per non saprei che dire.

 

RISPOSTA:

Dobbiamo distinguere tra le frasi del gruppo 1, in cui il verbo iniziare significa ‘essere formato nella parte iniziale’ e terminare significa ‘essere formato nella parte finale’, e le altre, in cui finire significa ‘raggiungere un certo stato’, quindi ‘diventare alla fine’. Nelle frasi 1 i due verbi sono completati da un sintagma argomentale (cioè sintatticamente necessario alla costruzione della frase) che nell’analisi logica rientrerebbe nel complemento di mezzo e può essere formato con le preposizioni per, in o anche con. Si noti che termina in a va interpretato non come ‘nella a’ (complemento di stato in luogo), ma, appunto, come ‘per mezzo di a’ (complemento di mezzo). Nelle altre frasi, il verbo finire richiede un complemento predicativo (anch’esso argomentale), che di norma non è preceduto da alcuna preposizione; la forma più comune della frase 3a sarebbe, infatti, “La partita è finita 1 a 1”, ovvero ‘alla fine è diventata 1 a 1’.  In questo stesso contesto il verbo finire può anche prendere il significato di ‘completarsi, essere chiuso’, avvicinandosi molto al terminare delle frasi del gruppo 1; quando è usato con questo significato esso può richiedere il completamento con il complemento di mezzo formato con le proposizioni  per, in e con. Per la verità, in questo contesto quest’uso è limitato a pochi casi e a poche espressioni, spesso cristallizzate (quindi soltanto con un po’ di sforzo inquadrabili nello schema dei complementi): in particolare il complemento formato con per si usa soltanto nella forma semplice e affermativa della frase (le frasi 3b e 3c sono del tutto innaturali), in si usa soltanto nell’espressione in parità o in espressioni come in modo imprevedibile, che dal complemento di mezzo sfuma nel complemento di modo (tutte le frasi 4 sono, invece, impossibili), con si usa in espressioni come con un pareggio, con la vittoria di…, con la sconfitta di…

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

I verbi procomplementari, essendo formati da particelle pronominali di valore intensivo, andrebbero usati soltanto in contesti colloquiali, oppure possono essere utilizzati in qualsiasi registro? Quanto è corretto scrivere: «stava per andarsene»? Tra l’altro sono frasi che si possono trovare ad apertura di libro.

Inoltre io distinguo perlomeno quattro tipi di frasi riflessive:

«Mi mangio la mela»: uso intensivo.

«Mi lavo le mani»: riflessivo apparente.

«Mi vesto»: riflessivo

«Quel ragazzo mi si mette sempre nei guai»: dativo etico.

Tolto l’uso intensivo e il riflessivo vero e proprio, gli altri due usi (riflessivo apparente e dativo etico) quanto sono accettabili? È corretto scrivere: «Non mi si chiedano spiegazioni»?

 

RISPOSTA:

Nei verbi pronominali, e nel sottogruppo dei verbi procomplementari, la particella pronominale (o più d’una), detta anche pronome atono o clitico, non svolge necessariamente un valore intensivo, ma svolge spesso un ruolo sintattico pieno di completamento della valenza del verbo, modificandone il significato. Per es. un conto è il verbo fare, un altro conto il verbo farcela, altro è sentire, altro è sentirsela, finire e finirla ecc. A volte, tra un verbo pronominale (o procomplementare) e un verbo non pronominale c’è quasi perfetta sinonimia, come accade per andare e andarsene, scordare e scordarsi, ricordare e ricordarsi, dimenticare e dimenticarsi ecc. In casi del genere, il verbo pronominale è perlopiù meno formale rispetto al verbo privo di pronome. Se, nel caso di andarsene, possiamo dunque dire (ma solo impropriamente) che i clitici siano d’uso intensivo, in altri casi, come sentirsela, o saperla lunga, o finirla, la funzione del clitico non è intensiva ma proprio strutturale e il cambiamento di significato, rispetto al verbo non pronominale, è sostanziale. I verbi procomplementari, come già detto, sono spesso usati nei registri colloquiali, ma non possono certo dirsi scorretti; inoltre, alcuni di essi possono addirittura essere d’uso molto formale, come ad es. volerne a qualcuno: «non me ne voglia». Nella maggior parte dei casi, pertanto, i verbi procomplementari possono essere usati in tutti i registri; in alcuni casi, invece, sono limitati agli usi informali: fregarsene, farsela addosso, infischiarsene ecc. Ma non è certo la presenza dei clitici a renderli informali: anche fregare è più informale di rubare. «Stava per andarsene» va benissimo in tutti gli usi. Il fatto che «stava per andare» sia lievemente più formale non scoraggia certo l’uso della forma pronominale. Come ripeto, stiamo comunque parlando di usi sempre corretti e ammissibili quasi sempre in ogni registro.

Eviterei, a scanso di equivoci, la dizione «uso intensivo», limitandola, se proprio deve, al solo dativo etico (del tipo «che mi combini?»), nel quale il pronome in effetti non ha valore strutturale ma solo di sfumatura semantica. Il dativo etico è d’ambito colloquiale ma è comunque corretto (anche Cicerone, come ricorderà, lo utilizzava nelle sue lettere).

«Non mi si chiedano spiegazioni» non è né un verbo procomplementare, né pronominale, né il clitico ha valore intensivo o etico. È un normalissimo complemento di termine con un verbo passivo con si passivante: «Non vengano chieste spiegazioni a me».

Per quanto riguarda le altre sottocategorie della macrocategoria dei verbi pronominali, osservo quanto segue.

«Mi mangio la mela»: verbo transitivo pronominale, d’uso colloquiale ma sempre corretto.

«Mi lavo le mani»: come sopra, detto anche riflessivo apparente.

«Mi vesto»: riflessivo

«Quel ragazzo mi si mette sempre nei guai»: dativo etico, d’uso perlopiù colloquiale ma sempre corretto.

Esistono poi anche altre categorie di verbi pronominali, come, per l’appunto, i verbi procomplementari, i verbi reciproci (salutarsi, baciarsi ecc.) e i verbi intransitivi pronominali (esserci, trovarsi, rompersi ecc.).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Nell’espressione «di tanto in tanto lo sguardo dell’uno sfiora la mano dell’altra, e viceversa» è necessario aggiungere quel «viceversa» per indicare reciprocità dell’azione, o si può omettere?

 

RISPOSTA:

Si può omettere nella gran parte dei casi; in questo, in realtà, anche aggiungendo «e viceversa» permane qualche margine di ambiguità. Procediamo con ordine. In presenza di verbi reciproci (come incontrarsi, salutarsi, toccarsi, sfiorarsi ecc.) sono superflui «sia l’un l’altro/a» (locuzione che indica reciprocità) sia «e viceversa». Nel caso da lei segnalato, tuttavia, neppure la presenza di «e viceversa» consente di capire se l’altra ricambia guardando la mano dell’uno, oppure offrendo la mano allo sguardo dell’uno. Inoltre, l’espressione «lo sguardo sfiora la mano» è davvero molto insolita: lo sguardo di norma non sfiora, semmai si posa, scruta, passa ecc. Se tuttavia le piace questa metafora (che io personalmente trovo infelice, ma è questione di gusti) allora forse dovrebbe chiarire il senso della reciprocità: la donna, insomma, guarda a sua volta la mano dell’uomo (non vedo altro senso possibile nella metafora ‘sfiorare qualcosa con lo sguardo’), oppure «sfiora con la mano lo sguardo dell’uomo» (cioè, sempre metaforicamente, fa sì che la mano si offra allo sguardo sfiorante dell’uomo)?

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica, Verbo
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QUESITO:

Mi hanno sempre insegnato che la congiunzione “semmai“, quando ha valore condizionale, regge il congiuntivo e, talvolta, l’indicativo futuro.
Mi sono recentemente trovato a scrivere, di getto, il periodo seguente:
“Dove erano andati a finire il suo autocontrollo – semmai c’era stato – e la sua ironia?“
Magari è un mio limite, ma incontrerei molta resistenza nel sostituire quel trapassato prossimo con il trapassato del congiuntivo (fosse stato).
La grammatica che cosa dice in proposito?
Vi domando inoltre se questa congiunzione ammette tutti i verbi del congiuntivo – quindi anche il presente e il passato –, se il futuro semplice possa essere considerato una variante meno formale – ma ugualmente corretta – del congiuntivo presente e se, infine, il futuro anteriore, al di là della “regola“ cui accennavo più sopra, possa essere incluso nei verbi compatibili, quale alternativa al congiuntivo passato.
Elenco alcuni esempi per illustrare la mia richiesta multipla:
1) Chiamami, semmai ce ne sia/sarà la possibilità.
2) Puoi ascoltare la musica, semmai tu ne abbia/avrai voglia.
3) Verrò a prenderti, semmai ce ne sia/sarà bisogno.
4) Parteciperà alla festa, semmai abbia avuto/avrà avuto lo slancio giusto per uscire dalla sua stanza.

 

RISPOSTA:

Semmai è un connettivo ipotetico o condizionale (usato anche, qualche volta, come avverbio o per meglio dire segnale discorsivo, col significato di ‘eventualmente’, ‘caso mai’: «Semmai non preoccuparti, ci vedremo un’altra volta») che regge perlopiù il congiuntivo e che si comporta sostanzialmente come la congiunzione ipotetica da cui deriva, cioè se. Come osservato da grammatiche (per es. quella di Serianni) e dizionari (per es. il Sabatini-Coletti nel sito del Corriere della sera), può reggere anche l’indicativo (soprattutto futuro), che rappresenta la scelta meno formale ma comunque sempre corretta.

La sua frase («Dove erano andati a finire il suo autocontrollo – semmai c’era stato – e la sua ironia?») va benissimo all’indicativo, e condivido la sua resistenza a volgerla al congiuntivo trapassato, decisamente troppo ricercato e anche meno adatto alla sintassi meno legata e più colloquiale dell’inciso nel quale semmai si trova.

L’uso dei tempi nei verbi retti da semmai dipende dalla consecutio temporum esattamente come se, pertanto sia il presente sia il passato congiuntivo, sia il futuro, vanno bene. Sicuramente l’imperfetto e il trapassato congiuntivo sono i più frequenti, in virtù della loro frequenza nei costrutti che esprimono eventualità: «Semmai avessi tempo potresti passare a trovarmi», «semmai ti fossi ricordato ti passare sarei stato molto contento» ecc. (ma si veda comunque sotto sulla preferibilità accordata a costrutti più semplici e retti da se piuttosto che da semmai).

Il futuro semplice è dunque corretto (ancorché meno formale del congiuntivo), e in determinati contesti anche il futuro anteriore (per indicare anteriorità nel futuro), che però risulta sempre un po’ innaturale, motivo per cui spesso si preferisce il presente (indicativo o congiuntivo) o addirittura il passato prossimo, con proiezione del punto di vista al passato: «Semmai avrai preso un bel voto, ti porterò a Londra», che nella lingua spontanea sarebbe «Semmai prendi un bel voto ti porto a Londra» o «Se/Semmai hai preso un bel voto ti porto/porterò a Londra».

Per quanto riguarda gli altri esempi da lei proposti:

1) «Chiamami, semmai ce ne sia/sarà la possibilità»: entrambi corretti, con una terza possibilità: «… semmai ce ne fosse…», o, ancor più naturale: «Chiamami, se possibile» o «Chiamami se puoi» (quest’ultima è la scelta migliore, più semplice e comune in un italiano sciolto, snello e comprensibile).
2) «Puoi ascoltare la musica, semmai tu ne abbia/avrai voglia». Come sopra. In italiano comune: «Puoi ascoltare la musica, se ti va».
3) «Verrò a prenderti, semmai ce ne sia/sarà bisogno». Come sopra. In italiano comune: «Ti vengo a prendere, se serve».
4) «Parteciperà alla festa, semmai abbia avuto/avrà avuto lo slancio giusto per uscire dalla sua stanza». In base a quanto già detto, vanno bene entrambe le forme, ma quella al futuro anteriore è abbastanza forzata. La scelta più naturale sarebbe al presente indicativo: «… se/semmai ha lo slancio…».

Tendenzialmente, se è quasi sempre preferibile a semmai, sempre nell’ottica di un italiano fluido e snello. Perché ricorrere a semmai se nella lingua comune (e anche in quella formale) se è molto più comune? Tutti gli esempi da lei fomiti funzionerebbero molto meglio con se. La semplicità nei costrutti è quasi sempre da preferirsi, e non soltanto nell’italiano parlato e familiare. A maggior ragione negli esempi da lei forniti, che si muovono tutti nell’ambito comunicativo della quotidianità: un conto è la (sublime) sintassi arrovellata di Marcel Proust per scandagliare i meandri interiori e sociali, un altro conto è l’inutile complicazione di situazioni normalissime come l’incontrarsi, l’ascoltare musica, il dare un passaggio a qualcuno e simili.

Fabio Rossi

Parole chiave: Congiunzione, Registri, Verbo
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QUESITO:

Vorrei sottoporre alla sua attenzione un quesito su quella che forse si potrebbe definire una sostantivizzazione del participio.

1) I morti per covid = la gente che è morta a causa del covid.

2) I Laureatisi in economia = le persone che si sono laureate in economia.

(Verbo intransitivo/participio passato verbale)

3)Gli Infettati da covid = la gente che è stata infettata dal covid.

4)I preoccupati da questa situazione = la gente che viene preoccupata dalla situazione

(Verbo passivo/participio passato verbale)

5)Gli amanti la musica = le persone amanti la musica.

6)I partecipanti al convegno = le persone partecipanti al convegno.

7)Gli aventi diritto = Le persone aventi diritto.

(Participio presente verbale)

8)I laureati in economia = Le persone che sono laureate in economia

9)I preoccupati per questa situazione = le persone che sono preoccupate per questa situazione

(Participio passato con funzione aggettivale)

10)I partecipanti al convegno = Le persone che sono partecipanti al convegno

(Participio presente con funzione aggettivale)

11)Gli infetti da covid = la gente che è infetta da covid.

12)Gli esperti di musica = Le persone che sono esperte di musica.

13) I pieni di rabbia = la gente che è piena di rabbia.

(Aggettivo)

Non penso che tutti i casi in questione siano sostantivi veri e propri, ma che il sostantivo sia racchiuso all’interno di participi passati verbali, participi presenti verbali, participi passati aggettivali, participi presenti aggettivali e aggettivi.

Penso si tratti di sostantivizzazione, altrimenti, basandoci sulla prima frase, avremmo, per esempio:

“Siete dei morti per il covid”, che sarebbe una frase con tutt’altro senso, in quanto il participio passato “morto” in questa specifica frase è un sostantivo “puro” , ma nell’uso che si fa nella frase “1” non corrisponde alle funzioni che ha come sostantivo puro, ma a quelle del verbo.

In poche parole, nella prima frase dell’elenco mantiene il proprio valore verbale (intransitivo) originario, cioè di di participio passato verbale di forma intransitiva.

Lo stesso si può dire per quanto riguarda il participio presente “amante”.

Per esempio:

Può essere un sostantivo puro = “gli amanti della musica”.

Può essere un participio presente usato come aggettivo, cioè un participio presente con funzione aggettivale = “le persone che sono amanti della musica”.

Può essere, come nella frase in questione (5), usato come participio presente verbale, o meglio, ne ha tali funzioni nella quinta frase = “le persone amanti la musica”.

Lei cosa ne pensa? Ritiene la mia analisi giusta o sono letteralmente fuori strada?

 

RISPOSTA:

Il participio (presente e passato) si chiama così, fin dal latino, proprio perché ha una natura duplice, sia verbale, sia aggettivale-nominale, come dimostra tra l’altro la lessicalizzazione piena di alcune parole, divenute sostantivi a tutti gli effetti: amante, i morti ecc., oppure di partici latini divenuti sostantivi italiani: studente, docente, presidente ecc. Dunque «I morti per Covid» è un caso di participio sostantivato (ma comprendo la sua osservazione al riguardo, sulla quale tornerò alla fine della risposta). «I laureatisi in economia» non è corretto, perché l’uso sostantivato sarebbe «I laureati in economia», mentre laureatisi, con la particella pronominale del verbo laurearsi, rende il participio verbale: «le persone laureatesi in economia» va invece bene, ancorché pesante; anche in questo caso sarebbe meglio «le persone laureate in economia».

«Gli Infettati da Covid» può essere considerato sia d’uso nominale (perché ha l’articolo) sia verbale (perché ha il complemento di causa efficiente).

«I preoccupati da questa situazione»: come sopra, sebbene nessuno in un italiano comune e fluido userebbe mai un’espressione così innaturale. Sarebbe molto meglio «le persone preoccupate per questa situazione».

«Gli amanti la musica»: come sopra, sia nominale (per l’articolo), sia verbale (per il complemento oggetto). Ma sarebbe preferibile l’uso pienamente nominale: «Gli amanti della musica».

«I partecipanti al convegno»: uso nominale.

«Gli aventi diritto»: sia nominale sia verbale.

«I laureati in economia»: nominale.

«I preoccupati per questa situazione»: nominale, ma, come detto sopra, meglio «le persone preoccupate per questa situazione».

«Gli infetti da Covid»: infetto in italiano non è participio passato, dunque l’uso è ovviamente nominale.

«Gli esperti di musica»: nominale, perché il participio passato di esperire è esperito, non esperto.

«I pieni di rabbia»: nominale, pieno non è participio. Ovviamente, se in tutti questi casi si premette «le persone», quanto segue passa dal valore nominale a quello aggettivale.

Il suo ragionamento, ancorché un po’ farraginoso, è in gran parte giusto. Per riassumere: dato che in molti casi il participio continua a reggere un complemento (ovvero un argomento, cioè un completamento) del verbo (come «I morti per Covid», «Gli infettati dal Covid» ecc.), allora, anche se è preceduto dall’articolo, esso non perde del tutto la sua componente verbale. Il ragionamento è sensato, però deve tener presente che in italiano anche aggettivi e nomi possono reggere argomenti, come per es. pieno, disponibile, voglia, paura ecc.: «la piena di grazia», «i disponibili all’incontro», «ho voglia di vacanza», «paura di morire» ecc. Come vede, il confine tra nome (o aggettivo) e verbo è, a ben guardare, meno rigido di quanto si creda, non soltanto nel caso del participio (presente e passato). Pertanto, in conclusione, la reggenza di complementi come «per Covid», «da Covid», «la musica» ecc. non giustifica il fatto che i participi reggenti quei complementi siano soltanto verbali, ma, quantomeno, che siano sia nominali (o aggettivali) sia verbali.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Gradirei proporvi queste tre parole: pleonastico, ridondante e tautologico. A mio parere si tratta di sinonimi che significano ‘eccessivo’, ‘superfluo’.

Questi termini hanno a che fare con un aspetto quantitativo, cioè con la ripetizione dello stesso concetto facendo ricorso a parole diverse (es. bella, attraente e fisicamente perfetta) e non qualitativo (es. uso di parole ampollose, eccessivamente ricercate). Inoltre ritengo che i termini pleonastico e ridondante si riferiscano soltanto ad un discorso, mentre il vocabolo tautologico si possa attribuire tanto ad un discorso quanto ad un parlante. Ovviamente non sono sicuro di ciò ed è per questo motivo che mi sarebbe gradita la vostra opinione a riguardo.

 

RISPOSTA:

Tra le tre parole non vi è un rapporto di sinonimia assoluta (del resto rarissima), bensì di quasi sinonimia. Tautologico si riferisce perlopiù all’uso di termini che non aggiungono nulla in più rispetto a quanto già espresso dal significato di altri termini, per es. «il cantante canta». Tautologico non si riferisce, di norma, a una persona, ma soltanto a un uso linguistico, a un testo, e perlopiù a una definizione o simili (concetto, ragionamento ecc.).

Pleonastico si usa perlopiù in riferimento a pronomi o costrutti ridondanti, in quanto rimandano allo stesso referente già designato da un altro sintagma, per es. «il mare lo vedo» (dove lo si riferisce a il mare). In questo senso, pleonastico e ridondante, nella lingua comune, possono essere usati come sinonimi, sebbene ridondante abbia un campo semantico più ampio, mentre pleonastico sia più specifico. Ridondante, di tutti e tre gli aggettivi, è quello che più si presta a un uso più generale, e dunque si può riferire anche, genericamente, a un discorso eccessivamente carico e ampolloso: «testo ridondante di tecnicismi», «discorso ridondante di complimenti» (in nessuno dei due casi ridonante può essere sostituito da pleonastico o da tautologico), «stile o prosa ridondante» ecc. In questo senso, dunque, ridondante è l’unico dei tre aggettivi a potersi riferire anche, qualitativamente, all’uso di parole ampollose, eccessivamente ricercate.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Retorica
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QUESITO:

Esprimerò la mia richiesta in forma esemplificata in quanto una diversa strategia espressiva la renderebbe alquanto farraginosa. La TV riprende una partita di calcio e non la trasmette in diretta e il giorno dopo la manda in onda. Se io vedo la partita in questa seconda fase si può dire che la vedo in differita. Poniamo ora che la TV riprenda la partita e la mandi in diretta e poi, domani, la invii di nuovo in onda tutta o in parte. Io che la guardo in questa seconda fase, posso asserire di vederla in differita o in questo caso (visto che il giorno prima c’era stata la diretta) questo termine diventerebbe improprio?

 

RISPOSTA:

Con il sostantivo differita si intende una trasmissione radiofonica o televisiva registrata e mandata in onda in un momento successivo (Zingarelli 2023), perciò l’uso di questa parola va bene nel suo primo caso; un programma già andato in onda e nuovamente trasmesso in un momento successivo prende, invece, il nome di replica.
Raphael Merida

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QUESITO:

So che il termine elezione viene usato spesso in campo medico con il significato di ‘migliore’, ‘più opportuno’. Per esempio: “In quella situazione l’intervento di elezione è l’asportazione della cistifellea”. Vorrei sapere se lo stesso termine può essere usato con lo stesso significato in altri contesti. Per esempio: “Se ci si trova nel raggio d’azione di un serpente, la strategia di elezione consiste nel rimanere immobili”.

 

RISPOSTA:

Il termine elezione ha come primo significato quello di ‘scelta volontaria’; dal significato primario, però, si è sviluppato quello di ‘preferenza’, che emerge chiaramente nell’espressione di elezione e nell’aggettivo semanticamente equivalente elettivo ‘frutto di scelta’ (come nel titolo del romanzo di Goethe Le affinità elettive), ma anche ‘preferibile’. Nell’uso comune, quindi, l’espressione significa ‘preferibile’ (quindi la strategia d’elezione = ‘la strategia preferibile’); nel linguaggio della medicina, invece, permane il significato primario, infatti un intervento di elezione non è quello preferibile, ma quello scelto volontariamente in presenza di altre possibilità, come la procrastinazione o un altro tipo di intervento.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

A me riesce difficile capire quando di è essenziale e quando soltanto ridondante.

«Con l’aereo ci metto molto di meno/meno»; «Pensa di valere di più/più di noi».

C’è qualche regola da seguire?

Invece credo che una costruzione simile sia sbagliata: «Non me ne intendo di matematica». O soltanto «Non me ne intendo», sottintendendo l’argomento, oppure «Non mi intendo di matematica» senza “ne”.

Anche con in ho questo problema: «In molti andarono/Molti andarono».

 

RISPOSTA:

In effetti non è semplice, perché, più che vere e proprie regole di grammatica stabili, si tratta in questi casi di consuetudini di occorrenza, cioè di espressioni più o meno cristallizzate con o senza di. Di meno può fungere da locuzione avverbiale, del tutto interscambiabile con meno («bisognerebbe parlare di meno e pensare di più»), oppure da locuzione aggettivale, spesso, ma non sempre, interscambiabile con meno («un tempo le macchine in strada erano di meno» o «erano meno»); ma per esempio in «ho una carda di meno» (o «in meno») mal si presta alla sostituzione con il solo meno, così come «ce n’è uno di meno» (ma non «uno meno»).

Nel suo primo esempio, di può anche mancare: «Con l’aereo ci metto molto di meno/meno». Quando invece meno è seguito dal secondo di termine di paragone, è bene omettere di: «Pensa di valere più/meno di noi», anche se la forma con di, in questo caso, è comunque possibile. Ma, per esempio, in «Vorrei più/meno pasta di te», il di non va usato.

«Non me ne intendo di matematica» è una costruzione pleonastica tipica del parlato e della lingua informale denominata tecnicamente dislocazione a destra. In quanto pleonastica (dal momento che ne sta per di matematica) sarebbe meglio evitarla nella lingua scritta e formale, a meno che non manchi il sintagma pieno: «Non me ne intendo».

«Molti andarono» va bene per tutti gli usi, mentre «In molti andarono», oltreché meno formale, è più adatto nell’ordine invertito dei costituenti, per esempio: «Se ne sono andati in molti». Inoltre, in molti, rispetto a molti, fa presupporre una quantità assoluta, priva di relazione con altre: «molti andarono al mare, ma altrettanti in montagna»; «in molti andarono al mare».

Fabio Rossi

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QUESITO:

È corretto l’utilizzo del verbo provvedere in questo modo? “Avresti dovuto PROVVEDERE IN QUELLA DIREZIONE per evitare problemi”.

 

RISPOSTA:

Sì; in una frase come la sua il verbo provvedere è usato assolutamente, ovvero come verbo intransitivo monovalente (o inergativo). Con questa costruzione, il verbo assume il significato di ‘cercare una soluzione’ e può certamente essere arricchito da sintagmi aggiunti (o espansioni) come in quella direzione, che restringe l’ambito dell’intervento a quello nominato precedentemente nel discorso.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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QUESITO:

Il testo che segue è la parte di una favola. Vorrei sapere se la punteggiatura e i verbi sono corretti:
«In una grande prateria ci vivevano bufali, cavalli e insetti. Tra questi un bellissimo bufalo: forte, bello, veloce… Però con tutte queste qualità era diventato superbo, si credeva chissà chi è proprio per questo non gli parlava più nessuno.
Un giorno un insetto decise di sfidare il bufalo e gli disse: “Sei così lento che non riesci a prendermi!”. Perciò il bufalo si arrabbiò, prese una rincorsa molto lunga e fece uno scatto che però finì male, infatti, il piccolo insetto si era messo davanti a un albero che così appena gli sarebbe venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e si sarebbe preso una botta/crapata e così andò».

 

RISPOSTA:

In brano presenta svariate inesattezze, che commenterò sotto.

«In una grande prateria ci vivevano [il ci è pleonastico: indica infatti il complemento di luogo già espresso da in una grande prateria; ci va dunque eliminato] bufali, cavalli e insetti. Tra questi un bellissimo bufalo: forte, bello, veloce… [eviterei i due punti che spezzano inutilmente il discorso; li sostituirei con una virgola] Però con tutte queste qualità era diventato superbo, si credeva chissà chi è [refuso per e congiunzione] proprio per questo non gli parlava più nessuno.
Un giorno un insetto decise di sfidare il bufalo e gli disse: “Sei così lento che non riesci a prendermi!”. Perciò il bufalo si arrabbiò, prese una rincorsa molto lunga e fece uno scatto che però finì male, [prima di infatti va un segno di punteggiatura forte, come un punto e virgola] infatti, il piccolo insetto si era messo davanti a un albero che [eliminare il che e aggiungere due punti] così [virgola] appena gli sarebbe [fosse: qui il condizionale è sbagliato perché è come se fosse un periodo ipotetico: se gli fosse venuto incontro, sarebbe bastato…] venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e [manca il soggetto, altrimenti il lettore crede che si tratti sempre dell’insetto, mentre invece qui il soggetto cambia ed è il bufalo] si sarebbe preso una botta/crapata [crapata è troppo informale/regionale e stona in un racconto; anche il generico botta non è il massimo; meglio testata, o gran testata, seguito da un punto] e così andò».

Quindi il brano corretto sarebbe come segue:

«In una grande prateria vivevano bufali, cavalli e insetti. Tra questi un bellissimo bufalo, forte, bello, veloce… Però con tutte queste qualità era diventato superbo, si credeva chissà chi e proprio per questo non gli parlava più nessuno.
Un giorno un insetto decise di sfidare il bufalo e gli disse: “Sei così lento che non riesci a prendermi!”. Perciò il bufalo si arrabbiò, prese una rincorsa molto lunga e fece uno scatto che però finì male; infatti, il piccolo insetto si era messo davanti a un albero: così, appena gli fosse venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e il bufalo si sarebbe preso una gran testata. E così andò». Oppure: «così, appena il bufalo gli fosse venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e quello si sarebbe preso una gran testata».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Avrei dei dubbi in merito ai verbi piacere, sedere e all’espressione dare per scontato.

Quale ausiliare si usa in presenza di un modale (al participio passato) e del verbo piacere? Ad es. Gli  è piaciuta la pizza. Come ha potuto piacergli la pizza / Come è potuta  piacergli la pizza?

Quanto al verbo sedere, io siedo è il presente ma sono seduto è anche presente? Qual è il passato prossimo di sedere? Mi sono seduto è il passato prossimo di sedersi.

Infine vorrei sapere se l´aggettivo scontato dell´espressione dare per scontato vada concordato col sostantivo a cui si riferisce.

 

RISPOSTA:

I verbi servili ammettono sia l’ausiliare proprio sia quello del verbo che dipende dal servile, pertanto entrambe le alternative sono corrette: Come ha potuto piacergli la pizza / Come è potuta  piacergli la pizza.

In sono seduto di fatto il participio passato perde il valore verbale per assumere quello aggettivale che pure gli è proprio, dunque l’espressione è al presente, non certo al passato. Sedere (verbo decisamente raro, rispetto al pronominale sedersi, oggi più comune) è di fatto difettivo, mancando dei tempi composti, nei quali viene sostituito, per l’appunto, dal pronominale: mi sono seduto. Possibile, nella lingua comune, anche l’uso di sedere come ‘far sedere’, dunque causativo (e transitivo), che pertanto ammette in questo caso i tempi composti e l’ausiliare avere: «ha seduto il bambino sul seggiolone».

Scontato può essere sia invariabile: dare per scontato la vittoria; sia accordato: dare per scontata la vittoria. Nel primo caso, l’originale valore verbale (participio passato del verbo scontare) tende a desemantizzarsi e a grammaticalizzarsi verso l’uso fraseologico, ma il processo non è ancora del tutto compiuto, dal momento che le forme non accordate ancora vengono avvertite come meno formali di quelle accordate, che dunque sono da preferirsi. Adesso in Google dare per scontato la vittoria conta circa 1000 occorrenze, contro le circa 4000 di dare per scontata la vittoria.

Fabio Rossi

Parole chiave: Pronome, Registri, Verbo
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QUESITO:

vorrei sapere la differenza tra in frigorifero e nel frigorifero.
Inoltre, se nella frase «Chi è senza, dovrebbe indossare un cappello», la virgola sia errata.

 

RISPOSTA:

In è più adatto a espressioni generiche (come conservare in frigorifero, da tenere in frigorifero, mettere la spesa in frigorifero), mentre nel è più indicato per espressioni specifiche, in cui si sottolinei il luogo o l’azione di riporre qualcosa di specifico nel luogo: ho messo il latte nel frigorifero (ma anche in frigorifero); nel frigorifero non c’è niente (ma anche in frigorifero) ecc. Come vede dagli esempi, in (in quanto più generico) è molto più comune di nel, che invece è usato in un numero minore di frasi: nessuno direbbe mai (o quasi) il vino bianco va tenuto nel frigorifero. Una piccola prova di frequenza relativa: in Google adesso in frigorifero conta oltre 6 milioni di occorrenze, a fronte delle 277 mila di nel frigorifero.

La frase da lei segnalata si può scrivere con o senza la virgola; anche se sarebbe più elegante e più chiaro fare l’ellissi dopo (e non prima) che si è nominato l’elemento pieno: «Chi è senza cappello dovrebbe indossarlo» (oppure «indossarne uno»), che è meglio scrivere senza virgola. Nel primo caso la virgola può andare (pur contravvenendo alla regola di non separare mai il soggetto dal predicato) proprio per arginare la stranezza dell’adiacenza di senza con dovrebbe e segnalare dunque una forte ellissi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Preposizione
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QUESITO:

L’accrescitivo di scarpa è scarpona, scarpone o entrambe le forme sono corrette?

 

RISPOSTA:

Entrambe le forme sono corrette. A sfavore della prima forma sta che è meno formale e quindi raramente contemplata da dizionari e grammatiche, ma a sfavore della seconda forma sta il fatto che si è lessicalizzata con altro significato (scarponi da montagna, da scii ecc.), tanto da essere fraintendibile come accrescitivo di scarpa (che è, però, il suo significato originario). Quindi, tutto sommato, suggerirei scarpona, con buona pace dei vocabolari e delle grammatiche attardati che ancora non la registrano.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Se si dice: “L’esame è andato abbastanza bene” vuol dire che è andato meglio o un po’ meno bene di quando si dice:  “L’esame è andato bene”?
È preferibile che il nostro esame vada bene o abbastanza bene?

 

RISPOSTA:

Il siciliano abbastanza non ha lo stesso significato dell’equivalente parola italiana. In italiano con abbastanza si indica di solito una quantità appena sufficiente, o di poco superiore alla sufficienza, cioè quanto basta, laddove il siciliano l’intende come quasi sinonimo di molto. Motivo per cui, se in Sicilia un esame passato abbastanza bene è lodevole, in italiano esso rappresenta un risultato mediocre. Insomma, in italiano è preferibile che l’esame vada bene, piuttosto che abbastanza bene.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Volevo chiedervi alcuni consigli per riformulare una frase che vorrei usare in due testi diversi. Io ho provato a riformularla, però non so se  possa risultare un tantino ripetitiva; perciò vi chiedo se posso riscriverla meglio. Inoltre volevo sapere se il termine suddetto e la locuzione [non so se sia giusto definirla così] di cui sopra possano essere utilizzati per far riferimento a quanto descritto in precedenza, o se fossero meglio altri termini, come sopra descritte sopracitate.

1a) Svolgi tutte le azioni di cui sopra in modo disinvolto e deciso, mostrandoti disinteressata e noncurante a tutto ciò che ti sta intorno.
1b) Esegui tutte le suddette azioni con disinvoltura e decisione, mostrandoti distaccata e indifferente a tutto ciò che ti sta attorno.

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi da lei proposte vanno bene, con preferenza per la seconda versione (con disinvoltura è sicuramente più agile, rispetto a in modo disinvolto). Sono però forse proprio quel suddetto e di cui sopra a renderle un po’ troppo burocratiche. Non si potrebbero eliminare? in fondo, se qualcosa è stato già detto non c’è bisogno di sottolinearlo: in quanto già detto, il lettore è in grado da sé di recuperarlo.
Propongo pertanto la seguente versione ulteriormente semplificata della frase:

Svolgi tutte le azioni [oppure: queste azioni] con disinvoltura e decisione, mostrandoti distaccata e indifferente a ciò che ti sta attorno.

Ripeto: suddetto e di cui sopra (sì, è una locuzione aggettivale) sono corretti e vanno bene per esprimere qualcosa che è stato già detto in precedenza, ma si confanno meglio a uno stile burocratico che a uno medio, piano e narrativo. In quest’ultimo caso, possono essere omessi oppure sostituiti con locuzioni più agili quali “di cui abbiamo già parlato”, “di cui s’è già detto”, “già nominate”, “già descritte” e simili.

Fabio Rossi

Parole chiave: Lingua della burocrazia
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QUESITO:

vorrei proporvi queste tre parole: sollecitosolerte e alacre. Per quanto ne so io, sollecito alacre sono sinonimi di velocepronto nell’agire, quindi i termini sopracitati si riferiscono alla prontezza nell’agire e nulla dicono circa la qualità dell’azione, mentre solerte non ha a che fare con la velocità della risposta bensì con la qualità, l’accuratezza dell’azione. Se ciò fosse vero io potrei tranquillamente dire: “Costui ha agito con sollecitudine (o alacremente)” ma “Il lavoro svolto è di scarsa qualità (cioè non è svolto con solerzia)”. Mi capita sempre più spesso però di sentire che il termine solerte è usato come sinonimo di alacre sollecito.

 

RISPOSTA:

La semantica lessicale è l’ambito della lingua più difficile da fissare e più soggetto al cambiamento nel tempo. Un punto fermo nell’individuazione del significato di una parola è fornito dall’etimologia, che, però, deve essere valutata con cautela, proprio perché i significati cambiano nel tempo. Sollecito viene dal latino sollicitus, a sua volta composto di sollus ‘tutto’ e citus ‘agitato’. Questo aggettivo, in linea con la sua etimologia, indica una persona che agisce con velocità, ma anche con cura e diligenza, quindi che non sacrifica la qualità alla velocità. Può essere riferito anche a un’azione o un comportamento. Lo stesso costituente sollus è in solerte, unito ad ars ‘arte’: una persona solerte agisce a regola d’arte, rispettando tutte le regole previste, compresa la velocità di esecuzione; un’azione solerte, a sua volta, è compiuta velocemente e a regola d’arte. Come si può vedere, sollecito e solerte sono vicini nel significato; li distingue una sfumatura, che è quella individuata da lei: sollecito enfatizza l’aspetto della velocità (coerentemente con il costituente citus), mentre solerte quello della diligenza (coerentemente con ars). Alacre è dal latino alacer ‘allegro’, da cui proviene anche allegro, che ne è, quindi, l’allotropo popolare. Il dizionario GRADIT elenca, tra i sinonimi di questo aggettivo, sia solerte sia sollecito; anche questo, però, si distingue dagli altri per una sfumatura specifica: più che al modo di compiere un’azione, si riferisce all’atteggiamento, persino al carattere, di chi la compie. Alacre, insomma, è una persona dal carattere attivo, vivace, operativo, a prescindere dalla singola azione compiuta; non a caso, questo aggettivo, diversamente dagli altri due, non si può associare a un’azione, ma può solo riferirsi a una persona.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Mi sono chiesta spesso se verbi come “aumentare“, “crescere“, “diminuire“ e simili si prestano alla formazioni delle costruzioni correlative.
Ecco due esempi:
“(Tanto) più la materia prima scarseggia, (quanto) più i prezzi al dettaglio crescono“.
“(Tanto) più l’inflazione aumenta, (quanto) più il potere d’acquisto diminuisce“.

 

RISPOSTA:

Sì, si prestano come tutti gli altri verbi, e le frasi da lei portate a esempio sono perfettamente costruite e adatte a tutti gli usi. Sicuramente le costruzioni correlative, specialmente se basate sulla contrapposizione (più A sale, più B scende) richiedono un certo sforzo cognitivo, per essere comprese. Sforzo cognitivo che oggi sembra creare problemi sempre maggiori nei lettori. Il problema, però, sta in quei lettori (o meglio, in un mondo che sembra relegare la lettura, lo studio e la riflessione agli ultimi posti e che pensa che ogni testo debba essere ipersemplificato, addomesticato, reso immediatamente digeribile senza alcuno sforzo, ovvero in una società che a forza di semplificare tutto quello che scrive giungerà presto a instupidire milioni, miliardi di lettori, scrittori, utenti delle lingue), non certo nella lingua italiana, né nei costrutti correlativi, né nel significato di certi verbi.
Mi scuso per la lunghezza della parentesi, volutamente lunga e complicata, per dimostrare come la semplicità non sia sempre un valore: la realtà, il mondo, le lingue sono fatti di pensieri complessi, che se troppo semplificati si svuotano di senso. Viva la complessità, in tutte le sue forme!

Fabio Rossi

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Quale affermazione delle seguenti è corretta?
Piantare in asso.
Piantare in Nasso.
Io penso tutte e due.
La prima si riferisce al gioco della carte.
(l’asso come carta che in molti giochi ha valore “uno”)
La seconda alla mitologia greca

 

RISPOSTA:

L’unica forma corretta è “piantare in asso”, che ha però un’etimologia che non ha nulla a che vedere col gioco delle carte. Essa infatti deriva dal mito di Arianna piantata “in Nasso” da Bacco. L’espressione è state reinterpretata popolarmente, mediante erronea segmentazione di parole, in nasso > in asso. Oggi, tuttavia, la forma originaria ha del tutto perso il suo valore idiomatico, che è rimasto soltanto proprio della seconda (cioè quella originariamente sbagliata).
Quindi, concludendo, oggi NON si può dire “piantare in Nasso”, MA si può dire SOLO “piantare in asso”, sebbene l’origine della seconda espressione sia la prima. L’etimologia spiega l’origine delle parole MA NON ne giustifica l’uso odierno. Se così fosse, oggi il significato di casa sarebbe “baracca” e il significato di duomo sarebbe “casa”, perché questi ultimi, in effetti, erano i significati delle antiche parole latine casa e domum. Le parole e le frasi cambiano, come cambiano i loro significati.

Fabio Rossi

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Vorrei sapere se l’affermazione “è invalso l’uso di dire ecc.” è corretta o meno. Controllando il significato di “invalso” ho notato che vuol dire “entrato nell’uso”, quindi l’affermazione suddetta dovrebbe essere ridondante.

 

RISPOSTA:

Sebbene il solo invalso (cioè ‘diffuso’) sia la forma più usata un tempo, oggi la locuzione “invalso nell’uso” (oppure “è invalso l’uso”) è talmente comune da potersi considerare a tutti gli effetti corretta e identica al solo invalso, come dimostrano autorevoli esempi facilmente reperibili online: lo stesso sito Treccani alterna, nelle varie opere lessicografiche, tra un uso (il primo, maggioritario) e l’altro (minoritario ma pure attestato).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei proporvi questa frase: “Gli chiese di darle delle lezioni, ma lui preferì “dirottarla” verso un altro insegnante”. La mia domanda è: quel dirottarla, posto fra virgolette, è da considerarsi corretto oppure no? 
 

 

RISPOSTA:

Dirottare ha, come accezione metaforica, proprio quella di “convogliare in altra direzione”, quindi va benissimo usarlo senza virgolette, dal momento che si tratta di un uso perfettamente italiano. L’uso delle virgolette, ancorché un po’ ingenuo, non è però da considerarsi scorretto, per segnalare ulteriormente questo scarto semantico rispetto al significato meno figurato.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Retorica
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QUESITO:

È corretto scrivere fuori dal o fuori del?

 

RISPOSTA:

La forma comune è fuori dal (e fuori dallodalla ecc.); fuori di si usa soltanto in alcune espressioni cristallizzate, nelle quali non si mette l’articolo, come fuori di casa e fuori di testa (ed equivalenti, come fuori di zuccadi melone ecc.). Con gli avverbi di luogo quiqua sono possibili sia fuori da sia fuori di.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Avverbio, Preposizione
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QUESITO:

Quale forma è corretta?
Una volta sola
Una volta solo

Marco non era a casa
Marco non c’era a casa

Inoltre ad una donna non sposata anche se ha una età avanzata si può dire ancora signorina?

 

RISPOSTA:

“Una volta sola” (o “Una sola volta”) e “Una volta solo” (o “Solo una volta”) sono entrambe frasi corrette, sebbene la seconda sia meno adatta a un contesto formale. Nella prima, l’aggettivo solo è, come di consueto, accordato con il sostantivo femminile volta. Nella seconda, invece, solo non ha valore di aggettivo bensì di avverbio, ovvero sta per soltanto.
“Marco non era a casa” va bene sempre e in tutte le varietà di italiano, mentre “Marco non c’era a casa” va bene soltanto nel parlato informale o nello scritto che lo imita. Tra l’altro, l’enunciato sarebbe pronunciato con una leggera pausa prima di “a casa”. L’avverbio/pronome locativo ci in questo caso risulta pleonastico per via della presenza del sintagma locativo pieno “a casa”. L’intera frase, dunque, possibile ma informale, si configura come una dislocazione a destra. Può essere utile in un contesto in cui “a casa” sia considerato elemento dato, per es. nel dialogo seguente:
– Ho cercato Marco ma non si trova da nessuna parte.
– Hai cercato a casa?
– Non c’era, a casa!
Una donna non sposata anche se ha un’età avanzata si può dire ancora signorina, anche se l’uso di questa parola è giustamente sempre meno frequente, in quanto fortemente discriminatorio nei confronti delle donne. Perché mai, infatti, di una donna si dovrebbe rilevare lo stato civile mentre di un uomo no? Lei chiamerebbe mai un uomo non sposato signorino?

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei sapere se l’espressione “vuoto a perdere” può essere usata come sinonimo di “cosa inutile”, “cosa che non serve più”. Io l’ho sempre usata in questo senso, ma ho letto recentemente che il significato corretto è “cosa di cui non ci si può disfare, mentre si vorrebbe farlo”. Il significato che ho finora dato  io al termine può essere accettato oppure no?

 

RISPOSTA:

Il significato con cui usa lei l’espressione è quello corrente e va benissimo. Per comprenderlo, bisogna pensare a una vecchia abitudine italiana (io me la ricordo ancora, e ho 55 anni). Essa prevedeva che, in casi di liquidi acquistati in bottiglie di vetro, si potesse optare per due soluzioni: 1) restituire la bottiglia al venditore, avendone indietro una piccola somma di denaro (soluzione detta “vuoto a rendere”); 2) non restituire la bottiglia e dunque non avere indietro alcuna somma di denaro (soluzione detta “vuoto a perdere”). Poteva capitare che i vuoti a perdere (donde il significato metaforico di ‘cosa che non serve a niente’, visto che il vuoto a perdere non comportava alcuna restituzione di denaro) si accumulassero e che ci si trovasse nella fastidiosa condizione di non riuscire a disfarsene, o comunque doversi scomodare per disfarsene, a differenza di quelli a rendere che venivano prontamente restituiti al venditore, col duplice vantaggio del denaro e dello smaltimento. In virtù di quest’ultima considerazione, è anche possibile usare l’espressione nella seconda accezione metaforica da lei segnalata, cioè ‘cosa di cui non ci si può disfare, mentre si vorrebbe farlo’, che però non scalza, semmai direi rafforza, la prima: una cosa talmente inutile da diventare un fastidioso accumulo, che alla fine risulta difficile anche da smaltire e che si finisce dunque per lasciare lì a far ingombro e sporco.
Insomma, la metafora è in ogni caso altamente spregiativa, come si può ben vedere nelle varie attestazioni presenti in Google libri e nella magnifica canzone di Noemi Vuoto a perdere (2011).

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica
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QUESITO:

Volevo sapere se nella seguente frase fosse corretto l’uso di esternarmi, o se è meglio usare esternare

In sostanza: non ti fai problemi a esternarmi il tuo lato rustico e primitivo.

 

RISPOSTA:

Esternarmi, che si distingue da esternare perché ha il pronome mi integrato (esternarmi = esternare a me), è corretto. Alternative pure valide sono manifestarmimostrarmirivelarmisvelarmi.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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QUESITO:

Mi sarebbe gradito sapere se questa frase può essere ritenuta corretta: “Il medico che lo seguiva da tanti anni improvvisamente lo depistò ad un collega”. È possibile usare, in un contesto di questo genere, il verbo depistare (anziché, per esempio, inviare) per marcare il fatto che il medico ha voluto liberarsi del suo paziente? È lecito inoltre usare l’espressione depistare a anziché depistare verso? Ciò può essere considerato un errore?

 

RISPOSTA:

Il verbo depistare è bivalente, quindi richiede il soggetto e l’oggetto diretto (o complemento oggetto); non ammette, invece, un terzo argomento introdotto da (come nella sua frase depistare a un collega). Può accettare espansioni, come un sintagma introdotto da verso; per esempio depistare verso un percorso sbagliato. Bisogna, però, dire che una simile espansione è semanticamente superflua: depistare qualcuno significa, senza l’aggiunta di alcuna specificazione, ‘mandare su una falsa strada, fuorviare, far capire una cosa per un’altra’. Insomma, nella sua frase il verbo depistare non va bene. Potrebbe sostituirlo con sbolognare, che è piuttosto informale e ha una sfumatura negativa (implica, cioè, che il medico voleva liberarsi del paziente), oppure il più neutrale affidare; in alternativa, potrebbe usare una perifrasi come se ne liberò affidandolo
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica, Registri, Verbo
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QUESITO:

Volevo avere una consulenza sui seguenti due termini : “pavido” e “affabile”.
Nello specifico volevo sapere se entrambi i termini  possano essere usati nella stessa frase per esprimere un concetto di senso compiuto. Ad esempio, potrebbe essere corretto scrivere la frase: “Giorgio ha dimostrato,
col suo comportamento, tutta la sua natura pavida e affabile”.

 

RISPOSTA:

La risposta secca è “no, non possono stare insieme perché esprimono concetti quasi opposti, dunque possono semmai essere coordinati da una opposizione (è pavido e non affabile), ma non da una coordinazione affermativa”.
Però la lingua, si sa, è bella perché varia e riesce a esprimere quasi tutto e il contrario di tutto; dunque, per motivi espressivi, si potrebbe trovare anche il modo di giustificare un’accoppiata così insolita: io sono uno che si spaventa di tutto e di tutti (pavido), e dunque, pur di non mettermi nessuno contro, faccio sempre il simpatico e il disponibile con tutti (affabile). 
In quest’ultimo caso, però, affabile non è il termine più appropriato: chi è pavido (che più o meno sta per vile, vigliacco, eccessivamente timoroso ecc.), infatti, è anche molto timido, introverso, e dunque ha la qualità opposta all’affabilità. Invece il termine che esprime il non volersi mettere contro nessuno non è tanto affabile, quanto accondiscendente, con i sinonimi compiacente e conciliante.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei inoltrarvi due quesiti.
Il primo di questi riguarda la negazione “né”.
– La comunicazione potrà essere diffusa entro la fine della settimana, senza però che il suo contenuto sia circolato negli uffici, né (che) abbia subito modifiche.
–  Si può inviare una domanda che non contenga richieste specifiche, né (che) sia stata presentata ad altri uffici?
– Senza essere stato nominato né aver ottenuto riconoscimenti in precedenti competizioni, l’autore è libero di presentare le sue opere?
Le tre costruzioni sono corrette dal punto di vista sintattico? I “che” indicati tra parentesi nelle prime due sono consigliati, errati o a discrezione dello scrivente?

 

RISPOSTA:

 significa letteralmente ‘e non’, quindi si può usare soltanto in frasi che richiederebbero, se non coordinate, un non inziale. Senza non equivale a non, sebbene esprima, ovviamente, l’idea negativa della privazione. Dunque se a senso, e nell’italiano informale, le alternative da lei proposte sono accettabili, non lo sono a rigore secondo l’italiano atteso in un testo formale. Eccone le possibili riscritture, che tengono conto anche della richiesta sull’uso di che e di altri fattori.
– La comunicazione potrà essere diffusa entro la fine della settimana, senza però che il suo contenuto sia circolato prima negli uffici e senza che abbia subito modifiche. In questo caso andrebbe aggiunto un prima, forse: se la notizia può essere diffusa, come potrebbe non circolare? Inoltre, l’intera frase è davvero molto faticosa (anche a causa di quel sia circolato, che tra l’altro andrebbe preferibilmente cambiato in abbia circolato). Eccone una possibile variante più elegante, più chiara e meno burocratica: La comunicazione potrà essere diffusa entro la fine della settimana; prima di allora, non potrà circolare negli uffici né essere modificata.
–  Si può inviare una domanda che non contenga richieste specifiche, né [il che non si ripete quasi mai, in coordinazione a precedente proposizione con che] sia stata presentata ad altri uffici (oppure: e che non sia stata presentata ad altri uffici). Questa frase è davvero strana: perché mai una domanda non dovrebbe contenere richieste specifiche, dal momento che è, per l’appunto, una domanda, cioè una richiesta? Insomma, il primo requisito di un testo è che dica cosa sensate, non senza senso, di là dalla forma in cui è scritto.
– Senza essere stato nominato e senza aver ottenuto riconoscimenti in precedenti competizioni, l’autore è libero di presentare le sue opere? Anche qui si può esprimere lo stesso concetto in modo più chiaro, elegante e meno faticoso: Un autore che non abbia presentato domande ad altre competizioni può presentare le sue opere?

Fabio Rossi 

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QUESITO:

Ma è vero che i verbi come: benedivo e maledivo non sono corretti, anche se usati molto nel modo di parlare? La forma corretta sarebbe benedicevo, maledicevo … ecc..

 

RISPOSTA:

Sì, è vero, essendo composti del verbo dire vanno coniugati come quello.
Anche se vi sono esempi letterari (ma non più ammessi nell’italiano odierno) di quelle forme, il più illustre dei quali è il celeberrimo verso del Rigoletto verdiano “Quel vecchio maledivami”.
Naturalmente, essendo la forma semplificata e analogica (ferire, ferivo = maledire, maledivo) molto comune nel parlato (e nello scritto semicolto) oggi, non escludo che in un prossimo futuro esse possano essere accettate nell’italiano di tutti i registri, ma finché questo non accadrà, cioè finché i parlanti colti continueranno a considerarle scorrette, esse oggi sono parte dell’italiano popolare (o substandard), ma non dello standard.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Volevo sapere se è corretto usare l’espressione un vestito da pipistrello al posto di un costume da pipistrello. Mi è venuto questo dubbio perché lo userei come sostantivo e non come verbo, come potrebbe essere in una frase del tipo un uomo vestito da pipistrello.

 

RISPOSTA:

I nomi vestito e costume possono essere usati con uguale efficacia in questo caso: vestito è un iperonimo di costume, cioè è un nome il cui significato comprende quello dell’altro, che è, a sua volta, iponimo del primo. Si badi che il nome vestito deriva direttamente dal latino vestitus ‘vestito’; non è, come lei ipotizza, il participio passato di vestire sostantivato (vestito nome e vestito participio di vestire sono forme coincidenti, ma con origini diverse, sebbene ovviamente legate). Se anche fosse un participio sostantivato, comunque, potrebbe certamente usarlo come nome: sono molti, infatti, i participi presenti e passati usati comunemente come nomi (comandantecantantegelatocandito ecc.).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Nome, Verbo
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QUESITO:

È normale che alcuni verbi come constatareverificareaccertareappurare reggano ora il congiuntivo ora l’indicativo in funzione dell’azione che veicolano?

a) Ho verificato che la casa fosse vuota.
(Qui il verbo starebbe a indicare un’azione che non ha ancora portato esito: non si sa se la casa sia effettivamente vuota, e determinate operazioni di controllo disposte all’interno sono finalizzate a questo obiettivo).

b) Ho verificato che la casa era vuota.
(Qui il verbo starebbe invece a indicare un’azione dall’esito definitivo: le operazioni di controllo si sono concluse, e la casa è certamente vuota).

Augurandomi di essere stata chiara nell’enunciazione del mio dubbio, vorrei sapere se la mia osservazione sia giusta, oppure se con i verbi summenzionati si possa impiegare o l’uno o l’altro modo a prescindere dalla semantica.

 

RISPOSTA:

La sua osservazione è sostanzialmente corretta: i verbi da lei citati reggono una proposizione completiva (preferenzialmente) al congiuntivo se prendono il significato di ‘controllare che uno stato di cose corrisponda a quello atteso o previsto’; reggono, invece, l’indicativo se prendono il significato di ‘attestare che lo stato di cose corrisponde a quello atteso o previsto’. Si noti che nel primo caso la proposizione retta è una interrogativa indiretta (infatti la congiunzione che può essere sostituita da se); nel secondo è una oggettiva. Si noti anche che se l’interrogativa indiretta è introdotta da se può essere costruita anche all’indicativo: “Va accertato se la malattia di massa costituisce un reato” (da sanita24.ilsole24ore.com, 2015).
Preciso che tra i verbi da lei elencati, che possiamo considerare sinonimi, constatare è quello che più forzatamente ammette il significato di ‘controllare…’, e più forzatamente, quindi, regge l’interrogativa indiretta. Una frase come “Ho constatato che la casa fosse vuota” potrebbe essere facilmente interpretata come una variante più formale, ma del tutto equivalente in quanto al significato, di “Ho constatato che la casa era vuota”. Anche “Ho constatato se la casa fosse vuota”, del resto, mi sembra meno naturale di “Ho verificato / accertato / appurato se la casa fosse vuota”. La ricerca di constatato se in Internet, non a caso, restituisce soltanto esempi proiettati nel futuro, come “La problematica in discussione non può essere analizzata e risolta senza aver preliminarmente constatato se alla base del comportamento posto in essere dall’azienda ricorrente vi sia stato un comportamento…” (fiscooggi.it, 2007), in cui è proprio la proiezione nel futuro a giustificare il significato e la reggenza.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

l’aggettivo “patologico” può essere usato solo a livello scherzoso in questo caso:
“Mario è patologico”.
Bisognerebbe usare: Mario è affetto da patologia.
Quindi “è affetto da patologia” corrisponde ad un predicato nominale?
 

 

RISPOSTA:

Patologico di per sé non ha affatto un significato ironico: vuol dire semplicemente “che si manifesta in condizioni morbose o anomale” e può essere riferito sia a uno stato di salute, sia, per estensione, ad altri stati o condizioni, per es. una timidezza patologica. Non può essere riferito a una persona, in senso proprio, se non nell’espressione caso patologicoMario è un caso patologico = Mario è affetto da patologia = “Mario ha una qualche forma di malattia” ecc. Il senso ironico di patologico riferito anche alle persone deriva per l’appunto dall’espressione caso patologico, che dal significato proprio passa a quello ironico di “essere senza speranza” ecc. Naturalmente, a seconda del contesto, dell’intenzione degli interlocutori, del loro mondo condiviso, dell’intonazione, dell’espressione facciale, dei gesti ecc. ecc. ogni parola e ogni espressione può essere intesa sempre anche in senso ironico. Per cui, ovviamente, anche patologico e anche essere affetto da patologia, sebbene quest’ultima espressione, più tecnica, si presti meno bene di patologico all’impiego ironico.
Quanto all’analisi logica, sia essere patologico, sia essere affetto (da patologia) sono predicati nominali, visto che sono costruiti da copula (essere) + aggettivo. Il secondo caso è più strano perché deriva da un verbo latino (afficere), ma che in italiano si conserva soltanto come aggettivo (affetto) e non come participio passato.
In conclusione: se vuole riferirsi a Mario in senso ironico può dire Mario è patologico; se invece vuol dire semplicemente che il povero Mario è ammalato può dire Mario è affetto da patologia, anche se l’espressione, fuori dal contesto medico, rischierebbe di suonare un po’ troppo pomposa, e quindi, suo malgrado, anche ironica. Meglio limitarsi a Mario è malatoMario ha questa malattia ecc.

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

vi scrivo per chiedervi aiuto per aggiungere qualche dettaglio ulteriore a un testo che ho scritto, senza che questo diventi troppo dispersivo. In più, volevo chiedervi gentilmente se si può eliminare qualche piccola sbavatura o ripetizione. 

Il testo è il seguente:

“Per un po’ mi tieni dentro la tua bocca; poi mi sputi fuori, facendomi finire tra le lenzuola del tuo letto. Poco dopo lasci cadere attorno al mio minuscolo corpicino diverse cascate della tua bianca e densa saliva: in meno di trenta secondi, la pozza della tua bava diventa così grande da sembrarmi un oceano. 

Volevo scriverlo di nuovo aggiungendo che la ragazza alterna momenti in cui lascia colare la saliva mentre tiene le labbra socchiuse e altri mentre tira fuori ed estende la lingua lungo il mento, solo che non so come inserirlo: temo che spendendo 4/5 frasi in più si possa appesantire il periodo. Oltre a ciò, volevo sapere se attorno al mio corpicino fosse posizionato correttamente nella frase, così come conoscere dei sinonimi per dire attorno a me oppure attorno al mio corpicino
Avevo pensato a questa variante, però non so se possa risultare pesante da leggere: 

“Poco dopo lasci cadere diverse cascate della tua saliva attorno al mio minuscolo corpicino, alternando istanti in cui tieni le labbra socchiuse e altri mentre estendi / allunghi [non so quale dei due termini sia più appropriato] la lingua lungo il mento: in meno di trenta secondi, la pozza della tua bava diventa così grande da sembrarmi un oceano”.

 

RISPOSTA:

La seconda versione del testo è ben scritta e non pesante da leggere. Per quanto riguarda attorno al mio corpicino, è ben posizionato e può essere sostituito da varianti come intorno al mio piccolo / minuscolo corpo o simili. Espressioni sostitutive più sofisticate sono sempre possibili (il corpo può essere metaforizzato variamente, oppure al posto del corpo si possono nominare, metonimicamente, le braccia, le gambe, la testa), ma sono scelte che modificano lo stile e in parte anche il significato del testo, per cui sono di pertinenza dell’autore. Anche la scelta tra estendi e allunghi non è decidibile su base grammaticale, ma riguarda la semantica e lo stile: estendere è proprio di ambiti tecnico-specialistici e in questo contesto sembra un po’ forzato, ma potrebbe essere scelto proprio per questo valore lievemente straniante. Per la sintassi, suggerisco la seguente correzione, che elimina la difficoltà del collegamente tra altri e mentre:

“Poco dopo lasci cadere diverse cascate della tua saliva attorno al mio minuscolo corpicino, alternando istanti in cui tieni le labbra socchiuse e altri in cui estendi / allunghi la lingua lungo il mento: in meno di trenta secondi, la pozza della tua bava diventa così grande da sembrarmi un oceano”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Retorica
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QUESITO:

Distinzione precisazione possono essere considerati sinonimi?

 

RISPOSTA:

I due nomi indicano operazioni collegate ma non identiche: distinzione è l’atto di separare due oggetti rilevandone le rispettive caratteristiche distintive. In un contesto in cui ci siano due elementi simili, quindi, operare una distinzione comporta prima precisarne le caratteristiche, poi confrontarli e stabilirne le differenze. Nella frase seguente, per esempio, distinzione implica, appunto, la separazione tra due elementi, sulla base di caratteristiche simili ma non identiche: “I populisti fanno sempre una distinzione morale tra chi appartiene al popolo a giusto titolo e chi ne è escluso”.
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

Traducevo una frase di un libro in lingua inglese.
Questa è la frase originale: “Cheng tried to hide overt function. So one sees that inhaling on posture and exhaling on transition seems to preclude application: this conforms to Cheng’s concealing use so that one remained relaxed throughout the form”.
Io l’ho tradotta in questo modo: “Cheng ha cercato di nascondere la funzione palese. Quindi si vede che l’inalazione sulla postura e l’espirazione durante la transizione sembrano precludere l’applicazione: questo è conforme all’uso occultante di Cheng in modo che si rimanga rilassati per tutta la forma.
In base a quello che si potrà interpretare, le mie domande sono queste: funzione palese si riferisce alla respirazione? Il verbo use si riferisce all’uso del respiro? 
Mi rendo conto sempre più spesso che in tante occasioni per capire quello che una persona scrive si dovrebbe parlare direttamente con l’interessato. A volte tante frasi suonano molto ambigue.

 

RISPOSTA:

L’impossibilità di chiedere spiegazioni allo scrivente è uno dei “difetti” dello scritto. Da questo deriva la necessità di cercare la massima chiarezza nello scritto, per prevenire l’ambiguità.
Nel suo caso, l’espressione overt function sembra riferirsi al meccanismo della respirazione descritto, come da lei ipotizzato. Use, invece, non è un verbo, ma un nome (infatti lei l’ha tradotto l’uso) e va considerato insieme all’aggettivo concealingconcealing use sembra definire un sistema generale all’interno del quale si inserisce anche la tecnica di respirazione descritta (che infatti si conforma a quest’uso, o sistema).
Un piccolo avvertimento sulla traduzione: so that one remained sarebbe ‘così che si rimanesse’ (non rimanga).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Nome, Verbo
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QUESITO:

Leggo e sento spesso frasi del tipo “Mi manca NON poterti abbracciare”, “Mi manca NON poterti sentire”…
A mio avviso il NON non è necessario perché il senso di queste frasi è “vorrei tanto poterti abbracciare/sentire, peccato che non sia possibile!”.
Perché allora c’è chi sbaglia? Come può essere spiegato questo errore?

 

RISPOSTA:

La sua osservazione è corretta: a rigore, le frasi da lei riportate significano il contrario di quello che certamente intendono comunicare. Questa contraddizione, però, è quasi giustificabile, tanto che la considererei un errore veniale (almeno in contesti informali). Il verbo mancare, infatti, contiene due significati combinati: ‘non avere qualcosa’ e ‘soffrire (per la condizione del non avere qualcosa)’. Nelle frasi che lei riporta emerge chiaramente il tratto del soffrire, mentre quello del non avere si ricava per deduzione. L’emittente, evidentemente, sente l’esigenza di esplicitare questo tratto, cioè che allo stato attuale l’evento (dell’abbracciare, del sentire o altro) non si sta verificando attraverso l’avverbio non.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

n

RISPOSTA:

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QUESITO:

Le forme “buona sera” e “buonasera” sono entrambe corrette, ma quale è maggiormente indicata nelle comunicazioni formali?

 

RISPOSTA:

Cominciamo col dire che oggi le due forme sono del tutto equivalenti sul piano diafasico, ovvero entrambe sono perfettamente adatte sia al registro formale, sia a quello informale. E lo stesso valga per le analoghe coppie buon giorno / buongiornobuona notte / buonanotte.

Sicuramente, visto che le forme univerbate nascono da quelle staccate, cioè dalle locuzioni buona sera ecc., è chiaro che oggi le forme staccate siano meno frequenti e d’origine più antica, pertanto abbiano un sapore più ricercato (staserei per dire lezioso, in certi casi).

I dizionari di solito non prendono posizione: per es. né il Gradit di De Mauro (gratuitamente consultabile nel sito del periodico Internazionale.it) né il Sabatini Coletti (gratuitamente consultabile nel sito del Corriere della sera) distinguono tra le due forme, riportate come del tutto equivalenti.

Il Treccani, invece (treccani.it), sostiene che le forme staccate (buona sera ecc.) siano più comuni di quelle univerbate, benché questa valutazione sia smentita dai corpora (come vedremo tra un attimo). Ho il sospetto che, come spesso accade, il tendenziale purismo del vocabolario Treccani dica “più com.” laddove vorrebbe invece dire “più elegante perché più antico e raro”.

E veniamo ai corpora. Grazie alla preziosa funzione di calcolo delle frequenze agganciata a Google libri, denominata N-Gram Viewer (liberamente accessibile in https://books.google.com/ngrams) possiamo appurare quanto segue:

– buonasera sorpassa le frequenze di buona sera nel 1973, e da lì in poi l’impennata della prima forma è progressiva rispetto alla caduta della seconda forma;

– analogamente per buonanotte e buona notte (il sorpasso della prima forma inizia nel 1992) e per buongiorno e buon giorno (il sorpasso della prima forma inizia nel 1961). I dati sono ricavati dall’immensa mole di testi presenti in tutto Google libri dal 1500 al 2019.

Insomma, le forme staccate buona serabuona notte e buon giorno sono destinate a scomparire, così come sono scomparse per cheper ciòsopra tutto ecc. Il suggerimento è di usare, in tutti i contesti, le forme univerbate, per evitare di esporci alla critica di essere troppo retrogradi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Ho l’abitudine di inserire in molte delle mie costruzioni l’aggettivo “eventuale”. 

Dopo anni e anni di impiego largo e sistematico ho iniziato a domandarmi se esso sia stato, e sia, superfluo. Non vorrei che la semantica delle frasi, o la semplice logica, portasse allo stesso risultato finale per il mittente, anche se l’aggettivo fosse espunto.

Ecco un campionario di esempi:  

a) Bisogna controllare l’eventuale buona riuscita dell’esperimento.
b) È opportuno verificare l’eventuale assenza del delegato.
c) Il vincitore dovrà eventualmente partecipare alla premiazione?
d) Gli esaminatori valuteranno i progetti e ne giudicheranno l’eventuale approvazione.
e) Dati aspetti della circolare sono determinanti ai fini di un eventuale stato di agitazione.

 

RISPOSTA:

In effetti  in tutti gli esempi citati eventuale ed eventualmente sono pleonastici, perché l’eventualità del fatto è implicata dal contesto o dal significato del verbo:
a) se bisogna controllarla, vuol dire che che la buona riuscita non è assodata, ma va per l’appunto controllata;
b) idem per verificare;
c) l’eventualità è data dalla domanda stessa;
d) valutare e giudicare sono alla stregua di controllare e verificare;
e) forse è questo l’unico caso in cui eventuale possa agevolare la comprensione dell’enunciato, dal momento che lo stato di agitazione potrebbe essere dato per assodato, se non ci fosse eventuale; anche se dal senso generale dell’enunciato si capisce che essere determinante ai fini di qualcosa ha senso soltanto se questo qualcosa esiste, altrimenti il discorso non avrebbe senso; e dunque direi che eventuale è tranquillamente omissibile anche in questo caso.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Avverbio
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QUESITO:

Ho dei dubbi riguardo alla frase:
“Ma tale adempimento è stato, appunto, compiuto e la contestazione dei ricorrenti circa le modalità di svolgimento di tale ascolto è del tutto apodittica e non autosufficiente essendo stata estrapolata una frase da un contesto ben più ampio.”
La domanda è: la frase è espressa in modo corretto?
La contestazione dei ricorrenti è ritenuta apodittica e non autosufficiente perchè l’adempimento è stato compiuto o perchè è stata estrapolata una frase? Oppure vi è il concorso di entrambe le circostanze?

 

RISPOSTA:

In questa forma, la frase collega le qualità della contestazione soltanto all’estrapolazione della frase. Va detto che la scelta del gerundio passivo non aiuta la comprensione, perché rende ambiguo il riferimento tematico. Suggerisco, pertanto, di riformulare così: 
“Ma tale adempimento è stato, appunto, compiuto e la contestazione dei ricorrenti circa le modalità di svolgimento di tale ascolto è del tutto apodittica e non autosufficiente poiché basata sull’estrapolazione di una frase da un contesto ben più ampio.”
Rilevo, inoltre, una scelta lessicale non felice: apodittico significa ‘autoevidente, logico, che non necessita dimostrazioni’, mentre non autosufficiente significa, in questo contesto, ‘che necessita di ulteriori prove’ (sempre che io interpreti correttamente la frase): sembra, quindi, da una parte che i due aggettivi si contraddicano, dall’altra che soltanto il secondo sia coerente con il rigetto della contestazione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È un errore scrivere che qualcuno è incapace a invece di incapace di?

 

RISPOSTA:

Nella lingua comune incapace regge la preposizione di (incapace a è in astratto possibile, ma raro e da evitare). L’espressione incapace a è tipica del linguaggio giuridico, nel quale indica la condizione di chi non può ottemperare a un compito per un impedimento esterno, non perché privo dell’abilità: incapace a testimoniareincapace a pagare.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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QUESITO:

E’ corretto proporre tra i sinonimi di “sovente” anche “solitamente”, oppure vuol dire solo “spesso”?
 

 

RISPOSTA:

No, il francesismo sovente ha soltanto il significato di “spesso”, oppure, nel raro e arcaico uso come aggettivo, di “frequente”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Avverbio
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QUESITO:

Cari professori, vorrei domandarvi se sia la prima sia la seconda soluzione –
equivalenti, immagino, dal punto di vista semantico – siano adatte anche a un
contesto di formalità media o medio-alta e quale tra le due sia suggerita.
Entrambe nascono dalla necessità di evitare la ripetizione del sostantivo
“settimana/e” nella frase originaria:

A partire della prossima settimana o dalle prossime settimane…

Prima soluzione: A partire dalla prossima o dalle prossime settimane…
Seconda soluzione: A partire dalla prossima settimana, o dalle prossime,…
 

 

RISPOSTA:

Vanno bene entrambe.
Si potrebbero usare anche altre alternative quali:
1. … dalle prossime settimane (chiaramente nel concetto di prossime è inclusa anche la prossima, cioè quella imminente)
2. … dalla prossima settimana o dalle successive
3. … dalla settimana entrante o da quelle prossime (o successive)

Fabio Rossi

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QUESITO:

Nella frase: “sia i lacci che i nodi sono ENTRAMBI…”,
entrambi può essere ritenuto corretto, visto che si riferisce a due categorie e non “a tutti e due”? 
 

RISPOSTA:

Entrambi (= tutti e due) può essere riferito sia a due elementi omogenei, appartenenti alla medesima categoria (“azalee e ibiscus: amo entrambi i tipi di fiore”), sia a elementi eterogenei (“donne e motori: li amo entrambi”).
Forse, se fornisse un contesto più ampio (almeno una frase completa) si capirebbe meglio il senso del suo quesito. Forse lei intendeva dire che se entrambi qui si riferisce soltanto ai lacci (che sono due) e non al nodo tra i lacci (che è uno), allora non andrebbe bene. Giusto, in questo caso ha ragione lei, non andrebbe bene. Entrambi deve per forza riferirsi a due elementi insieme, non a uno soltanto o a tre. Pertanto una frase come “sia i lacci della scarpa sia il nodo (o i nodi) che hai fatto sono entrambi sfilacciati” sarebbe scorretta, sia se si riferisse soltanto ai due lacci (perché nella frase c’è anche uno o più nodi) sia se si riferisse ai lacci e al nodo o ai nodi, perché gli elementi sono più di due.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Pronome
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QUESITO:

è corretto dire “Se non ti ho stufato, vorrei chiederti un’altra cosa”?

 

RISPOSTA:

Sì, è corretto. Naturalmente, il verbo “stufare” è informale, ma è senza dubbio corretto, ancorché più indicato in un contesto familiare che in uno pubblico e formale.
L’uso dell’ipotetica per chiedere scusa (o simili) è tipico dell’italiano, e anche di altre lingue, quasi ad attenuare la “colpa” commessa. In altre parole, si sposta sul piano dell’ipotesi anche ciò che a volte può essere una certezza. Pensi a una frase, normalissima in italiano, come “scusa se ho fatto tardi”: il fatto che io abbia fatto tardi è una certezza, non certo un’ipotesi, ed è proprio per questo che ti chiedo scusa. Però esprimo il concetto, attenuandolo, come se fosse un’ipotesi.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Quanto è difficile per uno che non è un grammatico non fare errori grammaticali? O per uno che ha “solo” delle buone conoscenze di grammatica? Succede che degli scrittori, anche affermati, facciano degli errori?

 

RISPOSTA:

La risposta a questa domanda, solo apparentemente banale, richiede una precisazione preliminare sui concetti di grammatica e di errore. Va distinta la Grammatica (che per convenzione scrivo con l’iniziale maiuscola) dalla grammatica (minuscola). La Grammatica è l’insieme delle regole di funzionamento di una lingua che ogni parlante ha ormai introiettato più o meno pienamente all’età delle scuole elementari. Dopo si arricchiscono il lessico e la sintassi, e magari si evita la maggior parte degli errori di ortografia, ma il grosso della lingua a 10 anni è bell’e imparato. Esistono poi i libri di grammatica, tutti più o meno puristici, che prescrivono cioè una serie di regole. Non tutte queste regole sono sullo stesso piano e non tutti gli errori descritti come tali dalle grammatiche sono veri e propri errori di Grammatica, ma semplicemente opzioni meno formali della lingua, perfettamente corrette nello stile informale ma meno adatte in quello formale. Un tipico esempio è il congiuntivo nelle completive come “penso che è tardi”, forma del tutto corretta secondo la Grammatica ma tacciata d’errore dalle grammatiche solo perché meno formale di “penso che sia tardi”. Di errori veri e propri i parlanti e scriventi adulti ne commettono pochissimi. Per la maggior parte dei casi si tratta di forme meno formali e inadatte alla scrittura ufficiale e colta. Sicuramente, però, oggi sono in pochissimi gli scriventi che riescono a dominare perfettamente tutti i livelli della lingua, e specialmente quelli più formali. Neppure alcuni scrittori odierni, anche affermati, riescono a usare la lingua con consapevolezza in tutte le sue varietà. In questo senso, dunque, se vuole dare a “errore” il significato di “improprietà stilistica” o “povertà lessicale” o “scarsa coesione sintattica e testuale”, allora taluni scrittori commettono errori. Io però non li chiamerei errori ma improprietà. Non bisogna essere grammatici per usare la lingua in tutta la sua ricchezza. Direi che è utile essere lettori umili e curiosi. Essere bacchettoni non aiuta mai, in questi casi, perché ci si arrocca su posizioni indifendibili, sotto il profilo scientifico, come quella di tacciare d’errore l’uso dell’indicativo al posto del congiuntivo. Raramente una forma attestata in migliaia di scriventi può essere considerata errata. Anche molti errori, oltretutto, hanno una loro ragion d’essere, cioè una loro motivazione, sebbene non ritenuta valida dalla maggior parte degli scriventi colti. Ovvero quasi nessun errore è casuale o immotivato. Qual è la motivazione della forma “qual’è” con l’apostrofo, per fare un esempio? Il fatto che nell’italiano d’oggi qual non è quasi mai seguito da consonante (tranne che nell’espressione cristallizzata “qual buon vento ti porta?”). Nel momento in cui le grammatiche, i giornali cartacei e la gran parte degli scrittori colti considereranno normale “qual’è”, essa (che già oggi è maggioritaria online rispetto a “qual è” senza apostrofo) diventerà in tutto e per tutto una forma corretta dell’italiano standard. Morale della favola: gli errori non  sono ontologici e una volta per tutte ma storici e legati alle dinamiche sociali (come tutto nelle lingue, fenomeni storico-sociali per antonomasia). Molte delle forme un tempo normali in italiano oggi sarebbero scorrette, come “opra” per opera o “canoscere” per conoscere.
Per concludere, oggi più che errori veri e propri (cioè forme non previste dalla Grammatica, ovvero dal sistema di una lingua, come gli errori di ortografia o di desinenza: “la sedia si è rotto”) la gran parte degli scriventi mostra un notevole e pericoloso analfabetismo funzionale, ovvero l’incapacità di capire e usare la lingua in tutto l’ampio spettro delle sue varietà. E dunque c’è chi non comprende, e quindi non è in grado di usare, parole dal significato anche molto comune come tuttaviabenché,  acconsentiretollerare ecc. Sembra molto più grave questo fenomeno che non il singolo erroretto d’ortografia, che può sfuggire a chiunque, o lo strafalcione di una parola usata al posto di un’altra, o una caduta nell’uso della consecutio temporum. Mediamente, dunque, una discreta conoscenza della grammatica italiana ci mette sicuramente al riparo da troppi errori di Grammatica, anche se soltanto una regolare esposizione alla lingua formale letta e scritta ci allontana dal rischio di diventare analfabeti funzionali.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Gradirei sapere se la frase “Non posso più osare di chiederglielo” è corretta. Mi riferisco a quel di dopo il verbo osare. Una frase di significato simile che escludesse il verbo potere non richiederebbe quel di. Per esempio: “Non oso più chiederglielo”, ma la presenza di quel potere mi sembra richieda la presenza del di.

 

RISPOSTA:

La presenza del verbo servile potere (o di altri verbi servili) non influisce minimamente sulla reggenza di osare. Piuttosto, questo verbo, che preferisce la reggenza diretta, senza preposizioni (osare chiedere), ammette anche la reggenza con la preposizione di (osare di chiedere), dovuta in parte al modello della maggioranza dei verbi che possono reggere la completiva implicita (pensare / sperare / immaginare… di chiedere), in parte all’influenza del significato latente di osare, ovvero ‘avere il coraggio’: avere il coraggio di chiedere.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione, Verbo
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QUESITO:

Quale affermazione è corretta? Ho indicato in grassetto i dubbi.
Penso che il meglio deve ancora avvenire/venire
Penso che il meglio deva ancora avvenire/venire
Penso che il meglio debba ancora avvenire/venire

 

RISPOSTA:

Cominciamo con il rapporto tra congiuntivo e indicativo: come al solito, in casi analoghi, la soluzione con l’indicativo è sempre corretta, anche se meno formale. Pertanto, in uno stile formale, è sempre meglio debba piuttosto che deve. L’alternativa tra il tema deb- e il tema dev- è pressoché  sempre possibile (nelle persone in cui è ammessa: nella 1a persona singolare e nella 3a persona plurale dell’indicativo e nella 1a, 2a e 3a singolari e nella 3a plurale del congiuntivo presente), anche se deb- è avvertito come più formale, e dunque più appropriato al congiuntivo. Infatti, da una banale ricerca di frequenza in Google, mentre all’indicativo devono è moto più frequente di debbono, al congiuntivo debba e debbano sono molto più frequenti di deva e devano.
Quanto alla scelta tra avvenire e venire, in teoria i due verbi nella frase in questione sono equivalenti, sul piano semantico. Tuttavia la frase è quasi una frase fatta, cioè pressoché immodificabile (quasi fosse una citazione o un proverbio), ormai cristallizzata nella forma venire (e non avvenire).
Quindi, riassumendo, delle sue molte alternative la migliore è: “Penso che il meglio debba ancora venire”

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Mi è capitato recentemente di sentir usare, da parte di una persona di indubbia cultura, il termine regime come sinonimo di dittatura. Per quanto ne so io, il termine regime definisce una struttura di potere di qualunque tipo, non soltanto di natura esplicitamente dittatoriale. Vorrei conoscere il vostro parere al riguardo.

 

RISPOSTA:

Il termine regime indica qualunque forma di governo, tanto che ci possono essere regimi democratici e regimi dittatoriali. Usato assolutamente, però, questo termine è divenuto sinonimo di dittatura. Non a caso, il Fascismo è spesso definito regime, senza aggettivi. Questa accezione del termine è stabile nell’uso, infatti si trova attestata in tutti i dizionari.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La locuzione a quel tempo funziona anche riferita al futuro? Es. “A quel tempo accadrà questo”. Per in quel tempo le grammatiche dicono che può riferirsi sia al passato che al futuro, ma non trovo specifiche riguardo alla forma con a.

 

RISPOSTA:

L’espressione a quel tempo è usata esclusivamente in riferimento al passato, sebbene non ci siano ragioni semantiche o sintattiche a sostegno di questa restrizione. Si tratta di uno dei tanti usi che si impongono per convenzione. Diversamente, l’espressione in quel tempo e l’avverbio allora (si noti, dal latino ad illam horam) possono riferirsi al futuro, sebbene siano quasi sempre diretti al passato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione
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QUESITO:

Autoimporsiautoproclamarsi, solo per citare alcuni dei molti verbi costituiti dal prefisso auto- e costruiti con il clitico -si, non rappresentano un mero pleonasmo? Le forme intransitive pronominali o riflessive, a seconda dei casi, non sono sufficienti per esprimere un concetto che, con il prefisso auto-, si intensifica, senza, a mio giudizio, aggiungere niente dal punto di vista semantico?
1) Il politico esposto al pubblico ludibrio, si (auto)impose un esilio ad altre latitudini.
2) Pur avendo fallito nella sua ultima prestazione agonistica, l’ex campione si (auto)proclamò il migliore di tutti i tempi.
Seconda metà dell’interrogativo.
La funzione sostantivale di parole che abbiano come suffiso -ile o -ole, oppure -arsi-ersi ecc. è sempre possibile, anche quando non vi sia una chiara legittimazione d’uso da parte dei dizionari della lingua italiana?
Esempi:
“Siamo ai limiti dell’invivibile, dell’inconsapevole, dell’irragionevole”, “Ho pensato tutto il pensabile”, “Viviamo nella società del mutevole”; “Il disgregarsi delle coste è un fenomeno geologico”, “Il tuo affannarti non porterà a niente di buono”, e così via.

 

RISPOSTA:

Verbi come autoproclamarsi presentano un rafforzamento del concetto più che un pleonasmo interno. Dal punto di vista del punto di origine dell’azione proclamarsi = autoproclamarsi, ma il prefissoide (prefisso con un chiaro significato lessicale) auto- sottolinea che è il soggetto a prendere l’iniziativa di compiere l’azione. In autoproclamarsi, quindi, è più evidente l’autonomia del soggetto nel processo che porta a compiere l’azione, come se fosse ‘proclamarsi per propria iniziativa’. Non si può dire che in proclamarsi questa autonomia sia esclusa, ma semplicemente non è segnalata.
Tutte le parti del discorso possono essere sostantivate (a prescindere dalla loro forma) mediante l’inserimento dell’articolo; i dizionari riportano soltanto i casi più comuni.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Articolo, Nome, Verbo
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QUESITO:

Ho un dubbio relativamente al significato del termine ontologico. Potrebbe la ricerca ontologica essere l’analisi del necessario, di ciò che deve necessariamente essere affinché la cosa considerata sia, sul piano della concretezza? On, ontos dovrebbe significare ‘l’essere’ e, quindi, riferirsi a qualcosa di  tangibile. Oppure la ricerca ontologica mira a raggiungere l’essenza di qualunque entità, astratta o concreta che sia?

 

RISPOSTA:

In generale, ontologia è lo studio dell’essere in quanto essere, cioè delle sua qualità assolute che prescindono dai fenomeni particolari. In questo senso, ontologia viene a coincidere con metafisica. Questo senso originario è stato declinato in vari modi nei diversi quadri teorici nei quali il termine è stato usato; ognuno dei significati particolari, quindi, può essere colto soltanto all’interno del quadro in cui si inserisce.
Nel linguaggio comune, ontologico è usato nel senso di ‘di per sé, assoluto’; ecco un esempio: “Di questo passo, perfino la terribile Crudelia Demon, se si va indietro nella storia (andando avanti nella scrittura, ovvero inventandole da zero un passato), si capisce che non è una cattiva ‘ontologica’, piatta. Ma che anche lei può accampare le sue buone ragioni, vantare una storia che meriti di essere raccontata”. 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Non avendo trovato sui vari dizionari a mia disposizione una spiegazione che mi abbia convinto pienamente, chiedo aiuto per poter dominare i termini metafisica e metafisico in modo appropriato sia sul piano filosofico che su quello del parlare comune. L’idea che mi sono fatto per metafisica è questa: ‘ricerca di ciò che va all’essenza di un problema, di ciò che deve assolutamente essere presente affinché la cosa considerata sia, esista’. In definitiva metafisico sarebbe sinonimo di necessario. Es.: calciatore: atletico e non biondo. Quest’ultimo dovrebbe rappresentare un dato contingente. Questo per quanto riguarda l’aspetto filosofico. Per quanto riguarda il parlar comune: ‘discorso astratto, poco concreto. 

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda il significato comune la sua proposta è in linea con quello che scrivono i vocabolari. Il significato proprio, invece, è un po’ distante da quello che lei ipotizza, sebbene ‘necessario’ rientri tra le qualità proprie del metafisico. La metafisica è l’ambito del reale che non si può percepire con i sensi, quindi è immutabile, certo e, appunto, necessario. Se la realtà fisica è il regno della mutevolezza, dell’instabilità, della varietà, la realtà metafisica è lo sfondo assoluto che rende possibili le qualità della realtà fisica. Il suo esempio del calciatore, quindi, non ha niente di metafisico, perché sia l’essere atletico sia l’essere biondo sono qualità fisiche, fenomeni. Problemi metafisici sono la natura dell’essere, l’esistenza e la natura di Dio, lo scopo della vita, l’immortalità dell’anima.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gradirei sapere quali di queste espressioni, miranti ad esprimere l’intenzione di valutare una situazione, sono corrette:
1) “Assumere (far propria) una angolatura, un angolo visuale, una prospettiva”.
2) “Porsi in una certa angolatura, angolo visuale o prospettiva”.
3) “Considerare la cosa da un certo angolo visuale, da una certa angolatura, da una certa prospettiva”.
In definitiva, un angolo visuale, una angolatura o prospettiva si assumono? In esse/o ci si pone? Da esse/o si osserva? (il che ovviamente presuppone che ci si ponga).

 

RISPOSTA:

Il problema non è semantico né sintattico, ma d’uso. Nella lingua, infatti, alcuni blocchi di parole si cristallizzano e, con il tempo, diventano persino quasi immodificabili (e prendono il nome di collocazioni). Si pensi a pioggia torrenzialescorrere l’indiceprofondamente ingiusto. Il nome angolatura con il significato di ‘punto di vista’ di solito è usato nell’espressione considerare / esaminare / guardare / osservare / valutare (qualcosa) da una (certa) angolatura; qualsiasi altra espressione suona insolita, a prescindere dalla legittimità semantica e dalla correttezza sintattica. Assumere un’angolatura e porsi in un’angolatura, per esempio, sono semanticamente possibili e sintatticamente corrette, ma mentre la prima è effettivamente usata, per quanto non frequentemente (la ricerca con Google restituisce circa 1.600 risultati, che è un numero piuttosto basso), la seconda è del tutto ignota all’uso. Per angolo visuale valgono le stesse restrizioni di angolatura. Anche prospettiva predilige da una (certa) prospettiva; rispetto alle altre parole qui considerate, però, è certamente quella più comune e quindi ammette più facilmente la composizione con parole diverse: assumere una prospettiva, infatti, restituisce circa 230.000 occorrenze nella ricerca con Google, porsi in una certa prospettiva circa 130.000.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Qual è il genere corretto per l’aggettivo sostantivato live, di ovvia origine anglosassone?

 

RISPOSTA:

Dobbiamo declinare la vostra proposta per mancanza di tempo e risorse. Per qualsiasi curiosità, scrivete pure a DICO e riceverete una risposta.
Per quanto riguarda live bisogna ricordare che in astratto il genere dei nomi (e degli aggettivi sostantivati) presi in prestito da lingue che non hanno a loro volta il genere (come l’inglese) è il maschile; in pratica, però, questi nomi prendono il genere del nome italiano corrispondente, oppure di un nome assonante. Così e-mail è femminile perché corrisponde a posta, e band è femminile perché è assonante con banda (che, però, ha un significato molto diverso). Può capitare che un prestito sia attratto da due o più nomi italiani di generi diversi, con il risultato che il genere di quel prestito in italiano è altalenante. Questo è il caso di ketchup, che è maschile per la regola generale del prestito senza genere di partenza, ma per alcuni è femminile perché è un tipo di salsa. Per live è forte l’assonanza con spettacolo e concerto, che comporta il genere maschile; qualcuno, però, potrebbe associare questo nome a trasmissione, che è femminile. La situazione, come si vede, è simile a quella di ketchup: per quanto non si possa bocciare una delle due forme, si può stabilire che quella più comune, quindi preferita dai parlanti, è quella maschile. In questo ambito, più comune e preferibile è la soluzione più vicina possibile a più corretta. A conforto di questa posizione ci sono anche i vocabolari: lo Zanichelli registra come maschile sia ketchup sia live come sostantivo.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

Desidererei sapere se è corretta l’ espressione lesinare sul denaro o sul centesimo. Alcuni sostengono che è corretto dire lesinare il denaro o il centesimo.

 

RISPOSTA:

Il verbo lesinare può essere transitivo o intransitivo. In questo secondo caso richiede la preposizione su. Quando è transitivo significa ‘spendere con estrema parsimonia’; quando è intransitivo significa ‘risparmiare’. Sebbene i due usi siano vicini, pertanto, con un oggetto come denaro il verbo si costruisce transitivamente: lesinare il denaro = ‘spendere con parsimonia il denaro’; con un oggetto come spese, invece, si costruisce intransitivamente: lesinare sulle spese = ‘risparmiare sulle spese’.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione, Verbo
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QUESITO:

Ho sentito da una persona che si esprime sempre molto correttamente la forma io riappargo. Si tratta di un uso attestato, seppur raro, oppure è un lapsus?

 

RISPOSTA:

La forma è attestata soltanto nell’italiano popolare e in testi molto trascurati; non è, pertanto, considerabile una variante accettabile neanche nel parlato informale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Parlando con uno straniero mi è venuto un dubbio. È meglio dire ero interessato a questa cosa o me ne ero interessato? Gli ho detto che erano due espressioni equivalenti invece ora mi rendo conto che hanno un significato diverso. Lui intendeva dire che una cosa aveva destato interesse in lui per un po’, ma voleva sapere come dirlo senza indicare quella cosa specifica.
Il mio dubbio è questo: posso dire ero interessato a questa cosa senza un pronome indiretto o devo dire
mi interessava questa cosa? Mi ha chiesto se si può usare il ne al posto di questa cosa, ma così mi sembra che cambi il senso. Leggendo sulla Treccani sembra che sia giusto solo interessarsi a, ma a me le frasi ero interessato a lui e mi sono interessata a lui sembrano diverse.

 

RISPOSTA:

Nella sua domanda si sovrappongono due questioni diverse: da una parte la differenza tra il verbo interessarsi e l’espressione essere interessato; dall’altra la possibilità di pronominalizzare (ovvero sostituire con un pronome) il sintagma proposizionale a questa cosa con ne
Per quanto riguarda la prima questione, interessarsi è quasi un sinonimo di essere interessato; contiene, però, una sfumatura di partecipazione emotiva del soggetto non riscontrabile in essere interessato. Con interessarsi, cioè, si descrive l’interesse come attivo, non statico; per questo motivo interessarsi significa anche ‘prendersi cura, occuparsi’, e persino ‘intervenire per la risoluzione di un problema’. 
Oltre alla differenza semantica, tra le due forme c’è una differenza sintattica, perché interessarsi richiede la preposizione a quando è sinonimo di essere interessato, la preposizione di quando significa ‘prendersi cura, occuparsi’ o ‘provvedere per la risoluzione di un problema’; essere interessato, invece, richiede sempre la preposizione a, mai di. Come conseguenza, essere interessato a una cosa è molto simile a interessarsi a una cosainteressarsi di una cosa, invece, significa tutt’altro, ovvero ‘occuparsi di una cosa’, oppure ‘provvedere’ (nel caso in cui la cosa sia una problema da risolvere). 
A rigore, un complemento di termine (come a una cosa) può essere pronominalizzato con gli o le; questi pronomi, però, hanno un chiaro riferimento umano e difficilmente li associamo a oggetti inanimati; in questo caso, inoltre, il complemento di termine non indica una persona a cui viene dato qualcosa, ma soltanto l’oggetto di un interesse (e può essere definito, infatti, complemento oggetto preposizionale), quindi rifiuta a maggior ragione la pronominalizzazione con i pronomi indiretti. Per questo motivo un parlante nativo non direbbe mai esserle interessato (o io le sono interessato), ma preferirà sempre essere interessato a una / quella cosa (e io sono interessato a una / quella cosa). Lo stesso vale per interessarsi: nessun parlante direbbe interessarlesi (o io le mi interesso), ma dirà sempre interessarsi a una / quella cosa (e mi interesso a una / quella cosa). 
Diversamente, un complemento di specificazione o partitivo può essere pronominalizzato quasi sempre con ne, per questo è possibile dire interessarsene. Si badi, però, che non è possibile dire *esserne interessato perché significherebbe *essere interessato di una cosa, che non è corretto. Inoltre, interessarsene non significa essere interessato a una cosa, ma ‘occuparsi di una cosa’ oppure ‘provvedere alla risoluzione di un problema’.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

vorrei sapere se il testo che riporto di seguito è corretto.

Egregio Dirigente Scolastico C. V.,
sono  R. L. ;  docente che ha avuto un giudizio di inidoneità temporanea alla mansione per fragilità. Comunico che mi sono sottoposta alla prima dose del vaccino anti-COVID e il 16 maggio farò la seconda dose. Chiedo la revisione del giudizio da parte del Medico Competente per tornare in servizio in presenza.
Distinti saluti.

 

RISPOSTA:

Nel testo non ci sono errori; suggerisco, però, alcuni aggiustamenti che lo renderebbero più appropriato. La maiuscola di Dirigente è comprensibile, sebbene non necessaria: ingiustificate e da eliminare, invece, sono quelle di ScolasticoMedico e Competente.
Insolito è l’inserimento del nome del destinatario (sempre che C. V. siano le iniziali del nome) dopo il titolo del ruolo; si può senz’altro eliminare il nome, anche perché in questo modo si segnala che ci si rivolge alla funzione, non alla persona. Sempre a proposito del destinatario, l’aggettivo egregio è pomposo e al limite dell’appropriatezza in una comunicazione formale ma tra due persone che, immagino, si conoscano personalmente. Più adatto alla situazione sarebbe Gentile
All’inizio del testo non è necessario presentarsi, come se si parlasse al telefono; è sufficiente a questo scopo inserire la firma in calce. Eliminato il riferimento personale, rimane in primo piano, come è giusto che sia, il motivo della comunicazione, che potrebbe essere formulato così: in relazione al giudizio di inidoneità temporanea alla mansione per fragilità di cui sono stata oggetto, comunico…
Infine, l’aggettivo Distinti associato a saluti è distaccato e asettico; in questo contesto potrebbe essere sostituito da Cordiali.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Mi sono ritrovata a comporre la frase: “Ho semplificato al massimo la questione”. Intendo, con al massimo, ‘il più possibile’. In un secondo momento ho però pensato che se avessi sostituito questa espressione con un’altra, apparentemente antitetica, avrei forse ottenuto lo stesso risultato logico: “Ho semplificato al minimo la questione”, intendendo, con al minimo ‘ai minimi termini’.
A questo punto in me si è creato un grande caos relativo al corretto uso di queste forme.

 

RISPOSTA:

Non c’è niente di caotico nella questione, che è soltanto in apparenza una contraddizione. La locuzione avverbiale al massimo modifica senza dubbio il verbo (la logica esclude che si possa semplificare una questione fino a renderla grandissima), rafforzandone il significato; la locuzione al minimo, invece, può modificare sia il verbo sia il sintagma nominale la questione. Nel primo caso la frase indica che la semplificazione è stata lieve, quindi la questione è rimasta probabilmente quasi invariata; nel secondo caso la questione è descritta come divenuta minima in seguito alla semplificazione. Volendo modificare il sintagma nominale con la locuzione al minimo, comunque, sarebbe preferibile riformulare la frase così: “Ho semplificato la questione al minimo”.  
Abbiamo, quindi, tre possibilità:
Ho semplificato al massimo la questione”;
Ho semplificato al minimo la questione”;
“Ho semplificato al minimo la questione” (ovvero “Ho semplificato la questione al minimo“).
Le prime due hanno significato opposto, la terza ha significato molto simile, anche se non identico, alla prima.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Si dice lesionare una cosa o si dice ledere una cosa?

 

RISPOSTA:

Dipende dalla cosa e da quanto si vuole essere precisi. Lesionare significa ‘danneggiare procurando una lesione’ e può avere come complemento oggetto soltanto cose concrete che possono subire una lesione, ovvero una frattura, come muri, costruzioni, edifici, ma anche ossa e tessuti del corpo, se si intende sottolineare che si siano incrinati o fratturati. Anche ledere significa ‘danneggiare’, ma senza la specificazione della lesione; inoltre si usa raramente con complementi oggetto concreti, che sono perlopiù ossa o organi del corpo. Più frequentemente, invece, questo verbo si usa in riferimento a beni immateriali, come i diritti, la reputazione, la dignità, l’onore, l’interesse, il valore, il benessere, l’orgoglio…
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“Le convinzioni limitanti da cancellare sono le seguenti: io sono…, io ho…”. Se, invece, dico: “Vanno cancellate tutte le convinzioni limitanti” non sono obbligato ad elencarle. Giusto?

 

RISPOSTA:

La sua idea è corretta. Il participio presente seguenti significa letteralmente ‘che seguono’: ci si aspetta, quindi, che effettivamente le convinzioni seguano; l’aggettivo tutte, invece, può anticipare l’elencazione delle convinzioni, rimandare alle convinzioni limitanti che sono state introdotte precedentemente, o riferirsi a tutte le convinzioni in generale, senza richiedere che esse vengano elencate.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale
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QUESITO:

È vero che la frase “a me non me ne frega niente” suona male, ma l’ho trovata in molti libri e volevo sapere se fosse totalmente errata.

 

RISPOSTA:

La frase è molto comune e non si può dire totalmente scorretta, sebbene al suo interno riconosciamo alcune forzature grammaticali. Innanzitutto notiamo la ridondanza pronominale a me… me, dovuta alla dislocazione a sinistra del sintagma preposizionale a me con conseguente enfatizzazione dello stesso. Il sintagma, cioè, risalta, è più “forte”, perché è sistemato all’inizio della frase (a sinistra) e può essere pronunciato con una intonazione particolare e una pausa che lo separa ulteriormente dal resto. Una seconda forzatura riguarda il verbo fregarsene. Questo verbo è formato sulla base di fregare, a cui si aggiungono i pronomi si (nella forma se) e ne. L’unione di queste parti produce un cambiamento non solo della forma, ma anche del significato del verbo base: fregarsene, infatti, ha un significato completamente diverso da fregare. I verbi come fregarsene (andarsenecavarselaintenderseneintenderselavederselamettercivolerci…), detti procomplementari, sono un po’ ai margini della grammatica ufficiale, perché i pronomi che ne fanno parte hanno una funzione non chiara, e perché hanno significati “espressionistici”, nel senso che veicolano forti sfumature emotive (si pensi alla forza espressiva di me ne vado rispetto a vado via o a quella di me la sono cavata rispetto a ho superato quella difficoltà).
Le forzature abbassano il livello di accettabilità della frase, quindi la rendono particolarmente adatta a contesti comunicativi privati, in cui è più importante manifestare le emozioni che seguire passo passo le regole grammaticali standard. Al contrario, in contesti pubblici, specie scritti, si può usare una variante come non sono affatto interessato / interessata o simili.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Pronome, Registri, Verbo
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QUESITO:

Ho letto in un libro questa frase: “Era mezzo morta di paura”. Io direi: “Era mezza morta di paura”, essendo mezza un aggettivo. Mi è stato detto che mezzo può essere usato anche come avverbio e di conseguenza l’espressione mezzo morta potrebbe essere considerata corretta. Lo conferma?

 

RISPOSTA:

Nell’espressione da lei citata mezzo è chiaramente un avverbio, quindi deve rimanere invariato a prescindere dal genere dell’aggettivo che accompagna. Funziona, cioè, come moltomolto buonamolto buone ecc. Che sia un avverbio e non un aggettivo è facilmente dimostrabile: mezza morta, infatti, non funziona né sintatticamente né semanticamente. Dal punto di vista sintattico, due aggettivi predicativi in sequenza non separati da una congiunzione o da una virgola sono molto strani: “- Com’era la macchina che hai visto? – Era rossa veloce”; dal punto di vista semantico, l’aggettivo mezzo significa ‘diviso a metà’, e non credo che la signora soggetto della frase fosse divisa a metà, oltre che morta di paura. Piuttosto, la signora era parzialmente morta di paura, ovvero mezzo = parzialmente
Nella lingua d’uso si possono incontrare espressioni come mezza mortamezza matta o simili perché l’avverbio mezzo è molto più raro dell’aggettivo mezzo, quindi il parlante è indotto a credere che mezzo sia sempre un aggettivo. Signora mezza morta, però, equivale, lo ripeto, a *bicicletta molta vecchia (al posto di molto vecchia).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Avverbio
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QUESITO:

Da vocabolario Treccani: “Retrostante – Di luogo o ambiente, che sta dietro a un altro”. Gli esempi lasciano intendere che il luogo o ambiente si debba trovare dietro un altro, ma sullo stesso piano o livello (es. la stanza R.il prato R. la casa).
Vorrei sapere se si può considerare retrostante un luogo/ambiente che non si trova sullo stesso piano/livello dell’altro luogo/ambiente preso a riferimento (es. un balcone retrostante un altro, ma i due balconi sono su piani differenti).

 

RISPOSTA:

Il significato dell’aggettivo retrostante punta l’attenzione su una sola coordinata spaziale, avanti-dietro, e trascura le altre, quindi non esclude che l’elemento così qualificato si trovi su un piano diverso rispetto all’altro elemento che fa da riferimento. Ovviamente, se la posizione relativa dei due elementi non è ulteriormente chiarita, il ricevente potrebbe presumere che la rappresentazione di tale posizione non richieda altri dettagli, e quindi che questi si trovino sullo stesso piano.
Segnalo, a margine, che retrostante può essere usato assolutamente (la cucina retrostante); quando ha un elemento di riferimento, invece, può essere costruito direttamente (retrostante la casa), ma è più frequente con la preposizione a (retrostante alla casa).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Aggettivo
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QUESITO:

Quale delle tre frasi è corretta?
1. “Gent.le dottore, Le comunico che ieri ho chiamato in Regione per informazioni in merito al vaccino anti COVID, ho anche sentito il sindaco che mi confermato che posso prenotarmi”.
2 “Gent.le dottore, Le comunico che ieri ho chiamato in Regione per informazioni in merito al vaccino anti COVID, ho anche sentito il sindaco, ENTRAMBI (Regione e sindaco) mi hanno confermato che posso prenotarmi”, però la regione non è una persona!?
3. “Gent.le dottore, ieri ho chiamato in Regione in merito al vaccino anti COVID, mi è stato detto (= persona con la quale ho parlato) che posso prenotarmi; ciò mi è stato confermato anche dal sindaco”.

 

RISPOSTA:

Le tre frasi differiscono in diversi punti e sono tutte migliorabili nella composizione, sebbene nessuna contenga errori grammaticali evidenti. 
Nella prima frase si attribuisce l’autorizzazione al solo sindaco (il verbo confermare non è sufficientemente esplicito circa il ruolo della Regione); se, però, la fonte dell’autorizzazione è anche la Regione è consigliabile chiarire questa informazione.
Nella seconda frase il pronome entrambi è effettivamente innaturale se riferito a un’istituzione.
L’espressione chiamare per informazioni, inoltre, è fortemente burocratica: più comune sarebbe chiamare per chiedere / avere / ricevere informazioni.
La terza frase risulta, in conclusione, la migliore; questa può essere, però, migliorata nella punteggiatura: “Gent.le dottore, ieri ho chiamato in Regione in merito al vaccino anti COVID: mi è stato detto che posso prenotarmi; ciò mi è stato confermato anche dal sindaco”.
Un’altra piccola limatura si potrebbe fare sul piano della coesione: “Gent.le dottore, ieri ho chiamato in Regione in merito al vaccino anti COVID e mi è stato detto che posso prenotarmi per la somministrazione. L’informazione mi è stata confermata anche dal sindaco”. In alternativa alla forma impersonale mi è stato detto (che comunque va bene), infine, si può esplicitare il riferimento: la persona con cui ho parlato / il responsabile del servizio mi ha detto o altro.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Recentemente ho pubblicato su facebook un post che diceva: ”Ho la sensazione che stiamo per precipitare in un precipizio”. Sono stata redarguita con la frase: “da un precipizio si puo’ solo cadere”. Effettivamente la mia frase suona davvero male, potevo scrivere: cadere in un precipizio o precipitare in un
baratro, ma non credo sia errata. Precipitare indica un moto a luogo e il precipizio è dove termina l’azione. O sbaglio? Ho 53 anni e i ricordi degli studi di grammatica sono offuscati, ma non mi sembra di aver sbagliato. A meno che il precipizio non si intenda come sinonimo di cornicione, sporgenza, da cui effettivamente il moto può solo partire.

 

RISPOSTA:

La sua frase è correttissima: infatti il precipizio è sia un luogo sporgente dal quale si può cadere o precipitare, sia un luogo profondissimo e scosceso nel quale si può cadere o precipitare. Se si vuole evitare l’effetto cacofonico della ripetizione della radice precipit/z che accomuna precipitare a precipizio, si può, ma non si deve, sostituire precipitare con cadere. Diffidi sempre dell’oltranzismo intollerante dei grammarnazi, ovvero coloro che son convinti che qualcosa nella lingua non si possa dire né scrivere. Raramente le lingue procedono per dogmi si può/non si può, giusto/sbagliato, mentre usualmente si tratta di forme più o meno appropriate a quel determinato contesto.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

La parola colle va considerata come nome derivato da collo

 

RISPOSTA:

Dobbiamo distinguere tra i due omografi (cioè parole che si scrivono allo stesso modo ma hanno origine e significato diversi) colle ‘elevazione del terreno, poggio, altura’ e colle ‘passo, valico montano’. Il primo colle non ha niente a che fare con collo, mentre il secondo sì; anzi, il valico montano era anticamente chiamato anche collo, ma poi, probabilmente per influenza di colle ‘altura’, collo e colle si sono confusi, dando vita a colle ‘valico montano’. La ragione per cui un valico montano sia definito collo / colle è riconducibile alla forma di questi luoghi, corrispondente a un passaggio, spesso stretto, tra due montagne, un po’ come il collo è un restringimento tra due punti più larghi.
Colle ‘valico montano’, quindi, è una variante di collo; tra le due parole non c’è un rapporto di derivazione morfologica: entrambe sono parole primitive. La derivazione, del resto, si realizza con l’aggiunta di affissi, che nella parola colle ovviamente non sono presenti; parole derivate morfologicamente da collo sono, per esempio, colletto e il verbo scollare (da cui, poi, scollatura).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Come bisogna analizzare freddo nella frase “Oggi fa freddo”? È un soggetto oppure un complemento oggetto?
E la frase “Si vendono appartamenti” è impersonale o riflessiva?

 

RISPOSTA:

Le espressioni fa freddofa caldo, come anche fa giorno e fa notte, sono del tutto assimilabili ai verbi atmosferici (piovenevica…); vanno, quindi, analizzate complessivamente come forme verbali impersonali.
Nella frase “Si vendono appartamenti” il verbo non può essere impersonale perché è plurale. Per definizione, infatti, il verbo impersonale è sempre alla terza persona singolare. La frase, pertanto, equivale ad appartamenti sono venduti e il verbo è passivo. Attenzione, passivo, non riflessivo: gli appartamenti, infatti, non vendono sé stessi, ma sono venduti da qualcuno che non è esplicitato. La differenza tra si passivante e impersonalizzante è oggetto di diverse risposte consultabili nell’archivio di DICO usando la parola chiave impersonale. L’ultima risposta sull’argomento in ordine cronologico è la seguente “Riflessivo, passivato o intransitivo pronominale“.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale
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QUESITO:

È più corretto dire una volta solo o una volta sola? So che comunque si dice spesso solo una volta.

 

RISPOSTA:

Solo una volta e una volta sola sono espressioni comuni, corrette e praticamente sinonimiche. Nella prima solo è un avverbio, equivalente a solamente, nella seconda sola è un aggettivo, concordato con voltaUna volta solo è possibile e corretta, al pari di una volta solamente, ma è sfavorita dai parlanti rispetto a una volta sola
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se queste due espressioni sono equivalenti: “Ha commesso un errore ad andare in montagna” (nel senso che sarebbe stato preferibile, per es., se fosse andato al mare) e “Ha commesso un errore andando in montagna”.
Questa seconda formulazione, anche se il significato è facilmente intuibile, fa pensare al fatto che il soggetto abbia commesso un errore non ben precisato mentre si recava in montagna. In ogni caso è corretta anche la seconda espressione?
Desidererei poi sapere se per sinonimo si intende solo una parola che ha lo stesso significato di un’altra o anche, in senso  allargato, un’affermazione che corrisponde a un’altra, per esempio “dannarsi l’anima per ottenere un risultato”  e “fare i salti mortali per ottenere un risultato”.

 

RISPOSTA:

Il gerundio è un modo che può assumere diverse funzioni e per questo a volte necessita di informazioni aggiuntive per essere correttamente interpretato. Nella frase “Ha commesso un errore andando in montagna” il gerundio potrebbe essere causale (‘perché è andato / andata in montagna’) o temporale (‘mentre andava in montagna’). La prima interpretazione avvicina moltissimo la frase alla prima variante, nella quale la proposizione ad andare in montagna è proprio una causale implicita; la seconda, al contrario, presume un significato diverso. Va detto che la seconda interpretazione è piuttosto improbabile, visto che errore fa pensare decisamente a un’anticipazione valutativa dell’evento che sta per essere descritto (andare in montagna): per esprimere il significato di un errore non coincidente con l’andare in montagna qualsiasi parlante opterebbe per una costruzione che separi chiaramente i due eventi, per esempio mentre andava in montagna.
Il sinonimo è una parola, un’unità polirematica (per esempio, carro armato = panzer = tank) o una locuzione che abbia un significato riconducibile a una parola (per esempio dannarsi l’anima = sforzarsi). Nel caso di espressioni, a rigore è preferibile usare non il nome sinonimo, ma l’aggettivo sinonimico, quindi espressioni sinonimiche.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

Il termine compagno deriva dal latino miedevale companio (“cum panis”) come è riportato nell’Etimologico Cortellazzo-Zolli della Zanichelli e in altri dizionari. Tuttavia mi piacerebbe sapere se è noto quando esattamente è stato introdotto nel Medioevo e le eventuali fonti più antiche conosciute dove compare la parola. 

 

RISPOSTA:

Le consiglio di fare lei stesso questa ricerca, usando lo straordinario TLIO, a cui può accedere a questo indirizzo: http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/. Vedrà che la parola è ben attestata già dalla metà del XIII secolo, quindi dagli albori della scrittura in volgare, in testi di varia provenienza. 
Se, invece, a lei interessa non la prima attestazione in un volgare romanzo del territorio italiano della parola compagno, ma la prima attestazione in latino medievale della parola conpanio, il luogo da lei cercato è questo: 
 

Si quis in hoste de conpanio de conpagenses suos hominem occiderit, secundum quod in patria si ipso occidisset conponere debuisset in triplo conponat.

Si tratta di un articolo delle novellae della lex salica, di cui è difficile stabilire il periodo di redazione ma il cui terminus ante quem è l’inizio del IX secolo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei porvi un quesito di natura semantica. La parola chiave può essere usata correttamente in un contesto di questo tipo, nel quale si vogliono descrivere le penose sofferenze di un soggetto in preda ad una crisi di panico?
“Decodificava tutti gli aspetti della realtà, che cadevano sotto il dominio delle sue percezioni, IN CHIAVE di morte”. 
Intendo dire che tutto ciò che vedeva, sentiva, toccava gli evocava l’idea di morte. 

 

RISPOSTA:

Per la precisione, la sua domanda riguarda non la parola chiave, ma l’espressione idiomatica in chiave ‘dal punto di vista, secondo il criterio, in accordo con il quadro di riferimento’. Questa espressione, derivata dalla terminologia musicale (nel pentagramma la chiave indica come devono essere interpretate le note poste in una certa posizione), è quasi sempre seguita da un aggettivo (in chiave umoristicain chiave religiosa) e meno frequentemente da di + nome senza articolo, come nella sua frase. Si noti che proprio quest’ultima costruzione, meno frequente nella lingua comune, coincide con quella originaria musicale (in chiave di sol). I nomi che possono essere aggiunti all’espressione in chiave di (ma anche gli aggettivi che completano l’espressione in chiave) devono indicare un modo di vedere o di fare, un’ideologia, un insieme di principi, altrimenti l’espressione risulta innaturale; nel suo caso, la morte è un fenomeno, non un modo di vedere un fenomeno, quindi l’espressione non è ben formata. Le suggerisco un’alternativa più semplice, ma comunque elegante: come presagi di morte. Se volesse mantenere l’espressione in chiave, invece, potrebbe modificarla in in chiave mortifera. Si potrebbe pensare che mortifero equivalga a di morte, ma non è così; di morte equivale, infatti, a mortale e in chiave mortale sarebbe malformato al pari di in chiave di morteMortifero, invece, significa ‘che porta morte’ o, come in questo caso, ‘che fa pensare alla morte’ (quindi in chiave mortifera ha lo stesso significato di come presagi di morte). 
A margine, le suggerisco anche di eliminare le virgole che racchiudono la proposizione relativa; questa, infatti, è limitativa, non esplicativa (su questo concetto può vedere la risposta n. 2800599 dell’archivio di DICO).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Da sempre – spero a ragione – uso l’aggettivo suo (con le dovute declinazioni di genere e numero) in riferimento al soggetto della proposizione o del complemento, data la versatilità che lo contraddistingue; per contro, proprio nelle mie costruzioni ha avuto – e ha tuttora – un ruolo circoscritto al solo soggetto. Se la premessa è valida, mi sentirei di segnalarvi alcune criticità.
Prendiamo ad esempio la proposizione Paolo era insieme al suo amico e a sua moglie. 
Mettiamo, inoltre, che per ragioni a noi ignote non si possa modificare l’assetto della costruzione (che ci permetterebbe di agevolarne la comprensione). A rigore, la moglie in esame sarebbe quella dell’amico di Paolo. Se invece si fosse trattato della moglie di Paolo, si sarebbe optato per propria
Sviluppando però questa circostanza, per omogenità di stile e di messaggio, a mio avviso, dovremmo sostituire anche l’aggettivo suo in relazione all’amico del soggetto, vale a dire Paolo.
La frase, così rielaborata, avrebbe questo effetto (su cui vorrei interpellarvi): Paolo era insieme al proprio amico e alla propria moglie. 
Per tirare le somme, e aggiungendo una subordinata, vi chiederei se le seguenti chiose sono valide: Paolo parlò al proprio amico, che decise di confidarsi con la propria moglie (in questo caso la moglie è dell’amico di Paolo). 
Paolo parlò al proprio amico, che decise di confidarsi con sua moglie (in questo caso la moglie è di Paolo).

 

RISPOSTA:

La distinzione tra suo e proprio è nei termini da lei indicati: proprio si può usare soltanto in riferimento al soggetto della proposizione, mentre suo può riferire a qualsiasi sintagma della frase (immagino che lei intenda questo quando parla di soggetto del complemento). Detto questo, una frase come “Paolo era insieme al suo amico e alla propria moglie” è ineccepibile; la omogeneità di stile e di messaggio da lei evocata è un fattore del tutto soggettivo, non generalizzabile; al contrario, direi che la variante insieme al proprio amico e alla propria moglie risulterebbe inutilmente farraginosa, sebbene non scorretta. Lo stesso dicasi per la seconda frase: la variante Paolo parlò al suo amico è del tutto legittima, visto che non c’è nella frase un altro referente concorrente di Paolo. La terza frase presenta lo stesso problema della prima: a rigore tanto propria moglie quanto sua moglie possono rimandare alla moglie del soggetto della proposizione, il pronome che, a sua volta coreferente di il proprio amicosua moglie, però, potrebbe essere la moglie di Paolo, per cui, per escludere ogni ambiguità, è preferibile usare propria moglie se la moglie è dell’amico e usare una perifrasi (per esempio con la moglie di Paolo) nel caso in cui la moglie sia di Paolo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Aggettivo
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QUESITO:

Vorrei presentarvi alcune costruzioni per chiedere lumi circa il pronome.
“Poteva anche essere un semplice amico, visto il calore con cui lui / egli / questo l’aveva salutata”. A prescindere dalla scelta tra lui egli questo – che suppongo libera senza tema di incorrere in un errore -, il pronome è consigliato o facoltativo?
“Domandami se io sono/sia d’accordo”. Come sopra. L’inserimento del pronome può avere una funzione enfatica se si opta per l’indicativo presente? Nel caso invece si opti per il congiuntivo, immagino che esso sia obbligatorio per disambiguare il riferimento alla persona.
“Camminando da solo per il parco che lui amava, pensai ai ricordi più vivi di mio padre”. L’anticipazione del pronome è corretta?
Infine, mi piacerebbe conoscere quali sono i contesti sintattici in cui l’inserimento del pronome è non già facoltativo o sconsigliato, ma addirittura errato.

 

RISPOSTA:

Nella prima frase il pronome è superfluo perché il soggetto della proposizione relativa coincide con quello della proposizione reggente. Si può, comunque, inserire per enfatizzare il soggetto (per esempio per esprimere un contrasto: lui diversamente da un altro) o disambiguarne l’identità nel caso in cui ci siano più referenti possibili. La differenza tra lui e egli è diafasica: egli è più formale; questo accentua la distinzione con un quello eventualmente presente nel cotesto più ampio. Per ottenere una sfumatura distintiva si può optare anche per questi costui, pronomi dimostrativi soggetto singolari di sapore letterario.
Nella seconda frase è vero che il pronome è superfluo (ma comunque possibile per le stesse ragioni viste per la prima frase) se si usa l’indicativo; se si usa il congiuntivo, invece, esso non è obbligatorio, ma consigliabile. Per convenzione è obbligatorio soltanto quando il soggetto del congiuntivo presente o imperfetto è di seconda persona (se tu siase tu fossi).
Nella terza frase l’anticipazione, o catafora, è possibile, quindi corretta.
Un pronome può essere superfluo, come nei casi commentati sopra, ma difficilmente il suo inserimento può essere giudicato errato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome
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QUESITO:

Che ruolo sintattico assume da te nella frase “Da te voglio una risposta”?

 

RISPOSTA:

Il sintagma da te dipendente da voglio è un complemento di provenienza. La frase, infatti, può essere parafrasata come voglio una risposta proveniente da te o voglio ricevere una risposta da te
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Come posso spiegare (in modo semplice e non solo teorico) alla mia nipotina di V elementare la differenza tra un verbo riflessivo proprio e intransitivo pronominale? Ha avuto difficoltà (poi superate consultando il dizionario) nello svolgimento di un esercizio in cui occorreva individuare il gruppo di appartenenza di verbi come si diressesi addormentòsi sentiva… 
Inoltre, come spiegare che un verbo come addormentarsi è intransitivo ma addormentare è transitivo?

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda la prima domanda, la rimando alla risposta Riflessivo, passivato o intransitivo pronominale  dell’archivio di DICO. Nell’archivio, inoltre, può trovare altre risposte che ruotano intorno allo stesso argomento inserendo nel motore di ricerca interno le parole pronominaliintransitiviriflessivo e riflessivi. Sintetizzo, comunque, la questione: i verbi riflessivi hanno un soggetto che è anche il complemento oggetto; gli altri verbi che si costruiscono con un pronome sono pronominali transitivi (anche detti riflessivi apparenti) o intransitivi. In altre parole, nella frase Luca si diresse a scuola possiamo dire che Luca diresse sé stesso, cioè diede a sé stesso le indicazioni per andare a scuola? Ovviamente no, quindi dirigersi non è un verbo riflessivo, ma è un verbo pronominale (perché contiene il pronome si). Questo verbo regge il complemento oggetto? No, quindi è un verbo pronominale intransitivo. Lo stesso vale per addormentarsi (il soggetto non addormenta sé stesso) e sentirsi (il soggetto non sente sé stesso). Come si può intuire, i verbi riflessivi non sono molti; molti di più sono i pronominali intransitivi. I pronominali transitivi, dal canto loro, non sono altro che verbi transitivi a cui aggiungiamo un pronome per enfatizzare la partecipazione del soggetto: mi lavo i capelli (= ‘lavo i miei capelli’), mi mangio un panino (= ‘mangio un panino con soddisfazione’) ecc. Alcuni verbi possono essere pronominali transitivi e intransitivi, a seconda della frase: mi sento male (sentirsi è intransitivo) / mi sento la febbre (sentirsi è transitivo).
Molti verbi da transitivi divengono intransitivi quando sono costruiti con un pronome. Possiamo individuare due tipi diversi di questi verbi: nel primo il pronome prende il posto del complemento oggetto, non perché l’azione descritta parta dal soggetto per tornare sul soggetto stesso, ma perché l’azione rimane sul soggetto e non coinvolge nessun altro partecipante. In questo tipo rientra addormentarsi, la cui azione rimane sul soggetto, non viene trasmessa ad altri, neanche al soggetto stesso. Nell’altro tipo il pronome prende sempre il posto del complemento oggetto, ma l’azione non rimane sul soggetto, bensì transita ad altri partecipanti indirettamente, come in rivolgersi a qualcunoscusarsi con qualcunoavvicinarsi a qualcuno ecc. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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QUESITO:

Quando si fa il comparativo con il verbo piacere si usa la preposizione di oppure il pronome che?

 

RISPOSTA:

La parola che introduce il secondo termine di paragone dipende dalla composizione del secondo termine stesso (non da quella del primo termine). Si usa che (che in questo caso è una congiunzione, non un pronome) quando il secondo termine è costituito da un nome o un pronome preceduti da una preposizione, oppure se è un verbo, un aggettivo o un avverbio. In tutti gli altri casi si usa di. Gli aggettivi inferiore e superiore richiedono a (inferiore alla media).
Quindi, per esempio, si dirà piace ad Andrea più che a Luca (il secondo termine di paragone è costituito da un nome preceduto da una preposizione), mi piace più sciare che nuotare (il secondo termine di paragone è costituito da un verbo), quel modello mi piace più rosso che bianco (il secondo termine di paragone è costituito da un aggettivo) ecc. 
Non è escluso che la congiunzione che si usi anche quando il secondo termine di paragone è costituito da un nome senza preposizione: mi piacciono più i leoni dei / che i giaguari
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Se scrivo “Penso che l’ossessione di Carla per Marco sia di gran lunga inferiore DELLA tua per lei (Carla)” è sbagliato?

 

RISPOSTA:

Il secondo termine di paragone è sempre introdotto da di (o che se è costituito da un nome o un pronome preceduti da una preposizione, oppure se è un verbo, un aggettivo o un avverbio), tranne che con gli aggettivi inferiore e superiore, che richiedono a
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Sto preparando un concorso e la banca dati è priva di risposte esatte. Ho qualche dubbio sulle seguenti 10 domande di grammatica.

1) Quale delle seguenti frasi contiene un pronome indefinito?
a) Colui che parla è un buffone qualunque
b) Vado matto per certi tuoi dolci!
c) Riceveremo dei bei regali
d) Qualsiasi mezzo sarà buono per venire al mare
e) Quel tuo amico non mi ha detto niente

2) In quale delle seguenti frasi è presente un pronome personale con funzione di complemento?
a) Io e Giulia frequentiamo un corso di lingua tedesca
b) Credi a me, lo hai punito abbastanza
c) Luca ha preso in prestito tre libri dalla biblioteca
d) Quelle calze colorate potrebbero piacere molto a mia nipote
e) Egli non mi dà alcuna garanzia di riuscita

3) In quale delle seguenti frasi è presente un pronome personale con funzione di complemento?
a) Beati i miei cugini , che vanno tutti gli inverni per due settimane sulla neve!
b) Sono rimasta scioccata all’idea che pure lei, la mia vicina di casa, si è sposata!
c) Persino lui capì che dovevamo cambiare il nostro modo di fare!
d) Voi siete  colleghe dilavoro di mia sorella?
e) Potete contare sempre su di noi, anche se non ci facciamo vivi spesso

4) In quale delle seguenti frasi la particella pronominale “si” svolge la funzione di riflessivo apparente?
a) Prima di uscire Linda si accertò che tutto fosse in ordine come voleva lei
b) Si narrano molte leggende sull’origine di quel lago
c) All’uscita da scuola Nina e Piero si aspettano a vicenda
d) Il raffreddore si attacca molto facilmente
e) Marta si macchiò le mani con il toner della fotocopiatrice

5) In quale delle seguenti frasi è presente un verbo intransitivo pronominale?
a) Mio figlio si agita sempre tanto e ciò succede ogni volta che incontra il tuo 
b) Giulia si impossessò della mia comoda poltrona e lì si addormentò
c) Non appena vi ha visti, lo zio vi ha salutati molto calorosamente
d) Per cucinare in casa mia si usano solo prodotti macrobiotici e di origine vegetale
e) Si inoltrerà la pratica inerente il tuo nuovo contratto di lavoro all’ufficio competente

6) In quale delle seguenti frasi è presente un verbo alla forma passiva?
a) Un abile chirurgo di fama internazionale operò con successo mia zia
b) Durante quell’alluvione andarono perse numerose opere d’arte
c) Quel museo chiuderà per molto tempo al pubblico a causa di ingenti lavori di restauro
d) Studenti di una scuola francese attendono ancora di ricevere una lettera dagli alunni della II E
e) Se continuerà a non studiare non andrà in vacanza durante l’estate

7) In quale delle seguenti frasi è presente una preposizione impropria?
a) A colazione siamo soliti mangiare dei biscotti al cioccolato e bere del latte caldo
b) Potrà presentare le sue rimostranze presso l’ufficio reclami
c) Purtroppo mi si è già rotta la montatura degli occhiali
d) Tutti sono venuti a sapere del coraggio che hai dimostrato in quell’impresa
e) I tuoi genitori desiderano sopra ogni cosa la tua felicità

8) In quale delle seguenti frasi “che” ha funzione di complemento oggetto?
a) Ho appena finito di leggere il libro che mi è stato regalato per Natale
b) Pirro capì che aveva perso molti uomini in battaglia
c) Mio padre non ha compreso una sola parola di ciò che è stato detto
d) Cesare pensò di rendere onore ai nemici che aveva sconfitto
e) Dobbiamo continuare a camminare ora che siamo quasi arrivati

9) Quale delle seguenti frasi contiene un pronome relativo?
a) Non so chi sia la persona alla tua destra
b) Da questo colle vedremo l’orso che esce dalla sua tana
c) Mi chiedo quale sia la data del prossimo colloquio
d) Mario crede che tu sia ancora all’estero
e) Penso che tu comprenda quale sensazione io stia provando

10) Che tipo di proposizione contiene la frase “Resta pure a casa fino all’ora di cena, perché non è importante che tu venga per la riunione”?
a) Consecutiva
b) Temporale
c) Concessiva
d) Finale
e) Soggettiva 

 

RISPOSTA:

Come spesso avviene con questo tipo di domande così puntuali, la risposta può essere non univoca. Alcune delle domande, infatti, ammettono una doppia risposta.
1) = e): il pronome indefinito è niente.
2) = b): il pronome personale complemento è lo, ma anche me si trova all’interno di un complemento.
3) = e): il pronome è noi.
4) = e).
5) = a) e b). Sono verbi intransitivi pronominali agitarsiimpossessarsiaddormentarsi.
6) = b): andarono perse (ovvero furono perse).
7) = b): presso, e e): sopra.
8) = d).
9) = b).
10) = e). La proposizione è che tu venga per la riunione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le alternative al seguente esempio, segnalate con 1a, 1b e 1c, sono equivalenti e, soprattutto, anche in caso di differenze a livello di significato, si qualificano come accettabili dal punto di vista grammaticale?
1) Se fosse bel tempo, andrei al lago. Se fosse brutto tempo, starei a casa.
1a) Se fosse bel tempo, andrei al lago. Se non lo fosse, starei a casa.
1b) Se fosse bel tempo, andrei al lago. In caso contrario, starei a casa.
1c) Se fosse bel tempo, andrei al lago. Diversamente, starei a casa.

 

RISPOSTA:

Si tratta di alternative tutte corrette e semanticamente praticamente equivalenti, tra le quali si può scegliere in base a criteri stilistici soggettivi. Una piccola sfumatura semantica distintiva si nota nelle ultime due, che aggiungono una locuzione avverbiale e un avverbio, quindi dicono qualcosa in più delle altre due. In caso contrario sottolinea l’opposizione delle due situazioni; diversamente non mette le due situazioni in contrapposizione, ma le qualifica, appunto, come diverse. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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QUESITO:

“Non passano né per la mente e nemmeno per il cervello” si può anche esprimere: “Non passano per la mente e nemmeno per il cervello”? Il  si può togliere?

 

RISPOSTA:

Sì, la congiunzione né (che si scrive sempre con l’accento, per distinguerla dal pronome ne) in questo caso rafforza la contrapposizione tra i due elementi correlati, ma non è necessaria.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Congiunzione
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QUESITO:

Andare in pallone è un errore? Soltanto andare nel pallone è corretto?

 

RISPOSTA:

Le espressioni idiomatiche (come andare nel pallone ‘confondersi, perdere l’orientamento’) hanno una forma rigida. Nel caso di andare nel pallone l’unico cambiamento che si può fare (che non è veramente un cambiamento) è coniugare il verbo: io sono andato nel pallonelui andrebbe nel pallonenon andare nel pallone ecc. La parte nel pallone, invece, non si può cambiare, altrimenti si perde il senso della frase idiomatica.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Accordo/concordanza, Nome, Verbo
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QUESITO:

È corretto dire che fotografia fotosintesi sono parole che contengono il prefissoide foto- derivato dal greco, mentre invece fotogenico fotomontaggio sono composti la cui prima parte foto- è una forma nominale abbreviata?

 

RISPOSTA:

È un modo corretto di descrivere la differenza tra i due tipi di parola, nei quali da una parte abbiamo foto- come componente morfologico isolato che entra in composizione con altri morfemi (si ricordi che anche le parole formate con affissoidi sono composte) e dall’altro abbiamo l’accorciamento di fotografia che entra in composizione con altre parole. Da questa descrizione, si badi, emerge che fotogenico deve essere associato a fotografia e fotosintesi, perché è il risultato della unione di due affissoidi, foto- e -genico
La stessa distinzione vige tra parole come automatico, in cui auto- è il prefissoide originario, e automunito, in cui auto- è l’accorciamento di automobile.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

Si dice “Questo verbo regge il dativo della persona che si comanda” oppure bisogna dire “Questo verbo regge il dativo della persona a cui si comanda”?

 

RISPOSTA:

Molti verbi italiani (e anche latini) hanno diverse reggenze. Comandare, In particolare può reggere in italiano:
1. il complemento oggetto della cosa e il complemento di termine della persona (comandare qualcosa a qualcuno); 
2. il complemento oggetto della persona e un complemento che indica una destinazione (comandare qualcuno a un luogo o una mansione);
3. solo il complemento oggetto della persona.
Nel primo caso il verbo prende il significato di ‘dare un ordine’ e la cosa che viene comandata è quasi esclusivamente rappresentata da una proposizione oggettiva all’infinito introdotta da di: “Ho comandato a Luca di star fermo”. 
Nel secondo caso il verbo significa ‘inviare, destinare, spostare’: “Luca è stato comandato a un nuovo ufficio”. Come si vede, questo uso è prettamente burocratico.
Nel terzo caso il verbo significa ‘dirigere, governare’: “Luca comanda suo figlio a bacchetta”; “Il generale comanda l’esercito con fermezza” (ma, per esempio, comanda all’esercito di avanzare).
In conclusione, la risposta alla sua domanda è che si comanda se il verbo significa ‘dirigere, governare, avere il comando di’ (o, ma è meno probabile, se significa ‘inviare’), oppure a cui si comanda se significa ‘dare un ordine’.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

A proposito delle preposizioni che servono a caratterizzare una persona, perché le seguenti espressioni si formano con preposizioni differenti? Mi sembrano avere la stessa struttura. O potrebbero essere intercambiabili?
con una grande umanità;
di bassa statura;
dal cuore d’oro;
dall’intelligenza non comune.
Inoltre, molte volte le preposizioni di / da + articolo segnano il motivo: piangere di gioiadalla gioia. Ma posso usare anche perpiangere dalla / di / per la commozione.
E infine: andare da una stanza all’altra. Perché si dice cosi? Perché non si dice andare da una stanza nell’altra?

 

RISPOSTA:

Le qualità delle persone o delle cose possono essere espresse in modi diversi. Prima di tutto c’è la possibilità di usare un aggettivo qualificativo (una donna di bassa statura una donna bassa). Se si vuole usare un sintagma preposizionale si può scegliere soprattutto tra di e da. La differenza tra le due preposizioni è vaga e la scelta tra l’una e l’altra dipende soprattutto dalla preferenza dei parlanti. Volendo essere precisi, di è piuttosto rara, è seguita preferibilmente da un aggettivo e non vuole l’articolo: di bassa statura (non *della bassa statura), di poco conto (non *del poco conto). Dal punto di vista del significato, di rappresenta la qualità come inseparabile dal possessore: questa preposizione, infatti, indica una relazione stretta tra due elementi (è usata, non a caso, nel complemento di specificazione); da, invece, rappresenta la qualità come caratterizzante, posseduta in modo parziale o temporaneo. Con, infine, introduce una qualità che accompagna una persona o una cosa rimanendo ben distinta dalla persona o la cosa. Introduce anche il modo in cui un’azione è compiuta. Si osservino i seguenti esempi:
Luca è una persona di grande umanità;
Luca è una persona dalla grande umanità;
Luca è una persona con una grande umanità.
Il primo indica che l’umanità è connaturata in Luca, tanto che l’uno e l’altra non sono separabili.
Il secondo indica che Luca è caratterizzato dall’umanità, ma quest’ultima non lo identifica.
Il terzo è un po’ forzato; nell’uso sarebbe costruito con una proposizione relativa (Luca è una persona che ha una grande umanità) oppure con dalla grande umanità. Rispetto a dacon indica che la qualità è associabile a Luca, ma in modo non stabile. Questa preposizione è più comunemente legata a un verbo, per introdurre il modo in cui l’evento descritto dal verbo avviene: “Luca si è comportato con grande umanità” (meno comune con una grande umanità). 
Dida + articolo e per + articolo possono esprimere anche la causa di un evento. Anche in questo caso di è raro e indica una relazione stretta tra i due elementi collegati (in questo caso il verbo e la causa). Piangere di gioia, quindi, è la descrizione di un tipo speciale di pianto, diverso da tutti gli altri. Piangere dalla gioia instaura una relazione meno stretta tra i due elementi, ma ancora speciale, tipica. Piangere per la gioia, infine, indica semplicemente la causa del pianto in una determinata situazione. Si noti che di e da non si possono usare sempre per esprimere la causa, ma descrivono soltato situazioni uniche o tipiche: si può, per esempio, piangere di dolore, ma piangere dal dolore è forzato; si può, invece, piangere dal gran dolore (e, al contrario, non è possibile *piangere di gran dolore). Non si può *piangere di fidanzato, né *piangere dal fidanzato, ma si può piangere per il fidanzato
Infine, andare da un luogo a un altro è preferito ad andare da un luogo in un altro perché il verbo andare non esprime l’ingresso, ma soltanto l’avvicinamento a un luogo. Andare in una stanza, infatti, è un po’ forzato (molto meglio è entrare in una stanza), anche se in un contesto poco sorvegliato è accettabile. 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un dubbio sulla corretta forma scritta di un aggettivo (es. agitato) con i suffissi super-ultra- ecc.
Quali di queste forme sono considerate corrette: superagitatosuper-agitato o super agitato?

 

RISPOSTA:

Super-ultra-extra-mega- e simili non sono suffissi, ma prefissi, perché si aggiungono sempre prima della parola (mentre i suffissi si aggiungono dopo). I prefissi e i suffissi, che raggruppiamo nell’unica categoria degli affissi, non possono essere usati da soli, perché non sono parole, ma solo parti di parole; non a caso, quando li scriviamo isolati li facciamo seguire o precedere da un trattino (super--o), a segnalare che manca una parte di parola. 
Alcuni affissi (detti affissoidi; categoria nella quale possiamo annoverare super- e gli altri dal significato simile) sono speciali, perché hanno un significato più complesso rispetto agli altri, come se fossero parole a tutti gli effetti. La scelta su come scrivere le parole che contengono questi affissoidi dipende da diverse considerazioni: se la parola è acclimata nella sua forma univerbata (extrafondentesupermercatoiperspazio…) non c’è motivo di scriverla diversamente; se, invece, non c’è una tendenza nell’uso comune, è consigliabile usare il trattino. La grafia separata è sicuramente possibile con alcuni affissoidi di questo gruppo, visto che si possono usare anche come aggettivi: una spesa extraun vino super. Per gli altri è discutibile: un concerto mega (?), una cena ultra (?) ecc., ma la vicinanza con gli altri rende giustificabile anche questi casi. 
Su questo stesso argomento si può vedere anche la risposta Come si scrive e di che grado è “extrafondente”? dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

Dopo cento e uno è possibile dire cento e duecento e trecento e tredici eccetera?
Si dice centouno favole / libri (plurale) però cento e una favola / cento e uno libro (singolare)?
E con mille vale la stessa regola? Mille e duemille e tredicimille e trecentodue, e poi milleuno favole, mille e una favola?
Lo stesso vale per un milione e novantunmiladue milioni e centocinquemilaquattrocentoottantottomila e novecentocinquantuno. Dopo milionemiliardomila si mette la e?
Ancora, si scrive anni ’80 o anni 80nel 45 o nel ’45?
E quando si scrivono insieme e attaccati i numeri grandi?

 

RISPOSTA:

I composti con centomille e -mila si possono scrivere attaccati, senza e o staccati, con la congiunzione; sono, quindi, corretti, sia centotredici sia cento e tredici, sia milletredici sia mille e tredici, sia duemila e novantanove sia duemilanovantanove. Molto più comune oggi, comunque, è la forma unita. Si noti che la decina ottanta perde l’iniziale in composizione con centocentottantacentottantuno (oppure cento e ottantacento e ottantuno) ecc. Quindi non quattrocentoottantottomila ma quattrocentottantottomila.
Centouno centouna sono per forza plurali, visto che indicano un gruppo numeroso di elementi. Quando si scrivono separati può sembrare strano concordare uno e una con un nome plurale, ma è ancora possibile: mille e una casecento e un libri. Diviene possibile, però, anche concordarli al singolare: mille e una casacento e un libro.
Milione e miliardo si scrivono sempre separati dalle altre cifre, con la congiunzione eun milione e novantunmila (non un milionenovantunmila), due milioni e centocinquemila (non due milionicentocinquemila).
I decenni e gli anni si scrivono sempre con l’apostrofo quando viene omesso il migliaio corrispondente al secolo: gli anni ’80 (= gli anni 1980), il ’45 (= il 1945). Possibile anche riferirsi a decenni di altri secoli, specificando il secolo: gli anni ’80 dell’Ottocento.
Queste regole coprono tutti i casi possibili.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Nome
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QUESITO:

Mi chiedo da sempre come mai si dice la fine (femminile), la settimana (femminile), ma il fine settimana (maschile). In italiano, il genere delle parole composte non è collegato ai generi delle parole singole che contengono?

 

RISPOSTA:

La questione è effettivamente aperta. Di norma il genere dei composti corrisponde al genere della loro testa, ovvero del costituente che detta le caratteristiche morfologiche e semantiche. Per esempio, un pescecane è maschile e definisce un tipo di pesce perché la testa del composto è pesce.
Nel caso di fine settimana ci si aspetterebbe che il genere fosse femminile, perché fine, che è la testa del composto, è femminile (ma può essere anche maschile, con il significato di ‘obiettivo, scopo’). La ragione della scelta del genere maschile per questo composto è probabilmente che esso è un calco traduzione dell’inglese week end, e quindi è trattato come una parola straniera. Le parole straniere che entrano in italiano provenendo da lingue prive del genere (come è l’inglese) sono di solito maschili, ma possono essere anche femminili se richiamano alla memoria dei parlanti altre parole femminili già esistenti in italiano (per esempio, e-mail è femminile perché richiama posta o lettera). Nel caso di fine settimana i parlanti non hanno sentito l’eco di la fine, ma hanno, invece, assimilato questa parola ai giorni della settimana, che sono tutti maschili tranne uno.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se il verbo esitare possa essere utilizzato transitivamente col significato di ‘dare esito aì  nella terminologia della linguistica e delle materie affini. Esempio: “Le palatali indoeuropee esitano velari o palatali”, col significato di ‘danno esito a velari o palatali’.

 

RISPOSTA:

Il verbo esitare 2 (derivato da esito), diverso da esitare 1 (trasfornazione dal latino haesitare), significa ‘smerciare, vendere al dettaglio’, ‘recapitare’ o ‘risolversi in un certo modo’. Nel primo caso si usa soltano in riferimento a merci, nel secondo in riferimento a posta o simili, ed è un burocratismo, nel terzo riferito a malattie in espressioni come esitare in guarigioneesitare in demenzaesitare in una forma di nanismo (tutti esempi autentici tratti da Internet). Si noti che in quest’ultimo caso il verbo non è transitivo, ma richiede sempre la preposizione in.
Escludo, quindi, che un’espressione come esitare velari o simili sia oggi accettabile.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi sono imbattuto in un problema particolare: 1. le due frasi la decomposizione dà esito alla vita e la decomposizione dà come esito la vita sono entrambe sensate anche se con qualche differenza; 2. le due frasi il calciatore dà esito alla partita e il calciatore dà come esito la partita non sono ugualmente sensate, ma la seconda delle due appare insensata. Mi chiedevo se il groviglio si possa spiegare così: 
– nel caso “x dà esito a y” x è causa efficiente di y; 
– nel caso “x dà come esito y” x è causa materiale di y. 
Se il ragionamento è corretto allora si spiega perché nei primi esempi funzionano entrambe le frasi e perché nei secondi no. Questa spiegazione è corretta?
Mi sorge un ulteriore dubbio, stavolta incontrato in università: dal punto di vista formale e grammaticale è più corretto affermare che le labiovelari indoeuropee danno esito alle velari o che le labiovelari indoeuropee danno come esito le velari? O ancora entrambe le frasi sono ugualmente accettabili?

 

RISPOSTA:

La sua spiegazione della differenza tra dare esito a e dare come esito è troppo sofisticata rispetto alla questione reale.
L’espressione dare esito a significa letteralmente ‘dare sbocco a’, quindi la decomposizione dà esito alla vita = ‘la decomposizione dà sbocco alla vita’, ovvero dà alla vita la possibilità di fuoriuscire, di venire alla luce, di nascere. Il significato ‘dare sbocco a’ passa per facile metafora a ‘produrre, causare, comportare, avere come conseguenza, come effetto’.
L’espressione dare come esito è del tutto simile nel significato a dare esito a, anche se arriva allo stesso significato facendo un percorso diverso; il complemento oggetto di dare è, qui, non esito, ma il sintagma a cui il complemento predicativo come esito si riferisce. Rimanendo al suo esempio abbiamo, dunque, la decomposizione che dà la vita (non che dà esito). La vita è poi qualificata con come esito ‘come conclusione, come effetto’, che definisce meglio che cosa rappresenta la vita per la decomposizione (ne rappresenta l’esito, appunto).
Vista la spiegazione delle due espressioni diviene chiaro che esse sono semanticamente equivalenti, e che, quindi, la frase il calciatore dà esito alla partita è insensata quanto il calciatore dà come esito la partita.
Allo stesso modo, sono sensate ed equivalenti le due frasi finali: danno esito alle velari = ‘producono le velari’; danno come esito le velari = ‘danno come effetto le velari’.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In analisi grammaticale la parola museo è un nome collettivo o individuale?

 

RISPOSTA:

Il nome museo è collettivo se è usato nel senso di ‘raccolta di opere d’arte’; se, invece, è usato (come è comunemente) nel senso di ‘luogo nel quale è conservata una raccolta di opere d’arte’ è individuale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale
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QUESITO:

 

Vorrei chiedere il significato di un modismo: smezziamoci una pizza. Significa che siamo amici?
 

RISPOSTA:

L’espressione “smezzarsi una pizza”, tipicamente romana, è usata abitualmente nel senso letterale, e non idiomatico, di ‘prendere una pizza in due, mangiandone metà per uno’.
Nulla vieta di usare l’espressione in accezione metaforica, e dunque idiomatica, con il significato di ‘siamo amici e quindi condividiamo tutto’.
Quella che invece si usa – sempre perlopiù a Roma e nell’Italia centrale ma per influenza dei media anche nel resto d’Italia – come frase idiomatica è “smezzarsi la torta”, nel senso di ‘fare a metà degli utili di qualcosa’, usata perlopiù in accezione negativa per proventi loschi: “Destra e Sinistra si sono smezzati la torta: se ora il governo cominciasse a far piazza pulita di questo sistema, dovrebbe dare addosso a tantissimi “amici e raccomandati” vicini a QUESTO governo!” (esempio del 2008 colto in Google).

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Spesso sento dire:  “Ho condiviso il documento sul tuo Drive”.  Mi chiedo quale sia la forma  corretta tra “condiviso sul Drive, con Drive, in Drive”.

 

RISPOSTA:

La forma meno comune è quella con concolcon il. Le altre con in/nel, su/sul vanno tutte ugualmente bene. Come tutti gli anglicismi correnti nel linguaggio telematico, non necessariamente compresi da chi non fa parte della comunità degli “smanettoni”, è bene attenersi all’uso più frequente. L’ideale sarebbe trovare un sostituto per drive, che però al momento non sembra essersi stabilizzato in italiano (anche perché è quasi un nome di marchio: Google drive). Anche condividere è un calco semantico dall’inglese to share, ormai talmente diffuso che cambiarlo sembrerebbe davvero impossibile. Proprio in quanto calco semantico, è bene non creare fraintendimenti con l’altro significato italiano di condividere, cioè ‘avere le stesse idee ecc.’. Quindi è da evitare “condividere con il drive”, o simili, che sembrerebbe umanizzare troppo il drive!
Nella scelta tra le preposizioni su e in, entrambe possibili, ormai da vent’anni la telematica opta per su, di solito, perché rende ancora più “fisici” i luoghi virtuali dell’archiviazione e dello scambio dei dati. Stranamente, però, da una ricerca in Google sui due costrutti, prevalgono in questo caso decisamente quelli con in/nel, forse perché in questo caso l’idea del contenitore, piuttosto che del supporto digitale, fa scattare l’idea dell’inserimento espressa meglio da in. Come ripeto, però, sia in/nel sia su/sul vanno benissimo entrambe.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei sapere se è da considerarsi errore l’espressione “più acerrimo” oramai di uso comune e presente anche in opere di Pirandello.

 

RISPOSTA:

La risposta più sintetica è: sì, è ancora da considerarsi errore, perché le grammatiche e i dizionari dell’italiano odierno considerano tuttora acerrimo come superlativo colto (latineggiante) di acre e agro, rispetto al meno colto agrissimo (pure possibile); come tale, non ammette alcuna gradazione (più acerrimomeno acerrimoil più acerrimo ecc.).
Ma, come ben sa, la lingua, la grammatica e la linguistica raramente ammettono risposte semplificate e rassicuranti, come ogni fenomeno umano e sociale. Acerrimo è sempre più spesso avvertito (e da anni: Pirandello: “Il mio più acerrimo nemico”, La rallegrata) come aggettivo autonomo, proprio in virtù della sua natura anomala rispetto al regolare agrissimo, e come tale si presta ad essere usato come aggettivo non superlativo, anche con piùpiù/meno acerrimo.
Secondo quanto osserva il glottologo Salvatore Claudio Sgroi, che sul concetto di errore produce tuttora decine di articoli, potremmo dire che su più acerrimo agiscono due regole:
– regola 1, etimologica: più acerrimo non è ammesso, per via della natura superlativa di acerrimo;
– regola 2, analogica e morfologica: acerrimo si distacca dagli altri superlativi, come tale ha acquisito una sua autonomia, tanto da consentire forme come più/meno acerrimo ecc.
Ciascuno è libero di optare per la regola 1 o 2.
Dato che ogni lingua è fatta non soltanto di regole ed eccezioni ma anche di percezioni (sociali), al momento la situazione è più o meno la seguente: sebbene anche autori colti (Pirandello), del passato e del presente, abbiamo usato più acerrimo, la maggioranza dei parlanti italiani colti attuali ritiene discriminante socialmente (cioè “da ignoranti”) l’uso di una forma come più acerrimo, che quindi ancora oggi è bene evitare nel contesto scritto formale.
Dato che ogni lingua cambia nel tempo, è molto probabile che tra pochi anni acerrimo perda completamente la propria trasparenza etimologica e venga dunque considerato un aggettivo non alterato a tutti gli effetti. A quel punto tutte le grammatiche e tutti i dizionari accoglieranno più acerrimo come forma normale e anche noi “reazionari” della lingua ci arrenderemo all’evidenza e scriveremo più acerrimo senza colpo ferire. Ma, finché ciò non accadrà, suggerisco di continuare a evitare forme quali più acerrimo, con buona pace di Pirandello e di Sgroi.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Si dice i migliori vini d’Italia o dell’Italia?
I jeans robusti sono quelli larghi, non stretti?

 

RISPOSTA:

L’espressione comune è i migliori vini d’Italia. Si userebbe dell’Italia soltanto se l’Italia fosse il secondo termine di un paragone: la Francia ha più vini dell’Italia.
L’aggettivo robusto significa anche ‘adatto a persone robuste’, quindi ‘largo’. Non può significare mai ‘stretto’. Con il significato di ‘largo’, però, non si usa riferito ai capi di abbigliamento, ma soltanto alle taglie; si dice jeans di taglia robusta, non jeans robusti. Ovviamente si può dire jeans robusti, ma solo se si intende ‘jeans forti, resistenti, che non si rompono facilmente’.
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

Se devo chiedere ad una persona se lei, la citata persona, è in possesso di una determinata cosa, un oggetto ad esempio, è corretto dire: “Le chiedo di comunicare il possesso, da parte sua, della documentazione ecc.” oppure basta dire: “Le chiedo di comunicare il possesso della documentazione ecc.”
Si può omettere da parte sua?
Tale omissione potrebbe non chiarire a quale soggetto debba riferirsi il possesso di quella cosa?

 

RISPOSTA:

L’espressione da parte sua può essere omessa senza che si crei ambiguità su questo aspetto della frase: è logico supporre, infatti, che si chieda alla persona di comunicare informazioni che la riguardano, non che riguardano altri. Se fosse quest’ultimo il caso, piuttosto, sarebbe necessario specificare chi sarebbe l’eventuale possessore.
Il problema maggiore della frase, comunque, non è quello da lei prospettato, bensì la soppressione della sfumatura potenziale causata dalla nominalizzazione. Il possesso, infatti, è soltanto possibile, ma questo non si evince dalla frase, che sembra riferirsi al possesso come a un fatto.
In altre parole, comunicare il possesso potrebbe significare tanto comunicare di essere in possesso (fatto), quanto comunicare se lei sia in possesso (possibilità), ed è proprio il primo significato, quello fattuale, a essere preminente. Questo problema si può superare o optando per la forma verbale della frase: le chiedo di comunicare se lei sia in possesso, oppure inserendo un avverbio che esprima la potenzialità: le chiedo di comunicare l’eventuale possesso.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Se Dio è un nome proprio, non è sbagliato se io lo uso senza riferirmi al dio del paradiso e dell’inferno, ma riferendomi a un dio qualunque? Se dico: “Non so se Dio esiste” non mi sto riferendo a UN DIO in particolare. O no?

 

RISPOSTA:

Il nome dio può adattarsi a qualunque divinità. Senza articolo e con lettera maiuscola è usato come nome proprio, riferito al dio di una religione monoteistica, mentre per gli dei che hanno nomi si usa come nome comune, quasi sempre in funzione di apposizione (il dio Apolloil dio Ganesh). In questi casi, quando non accompagna il nome proprio può essere sostituito da la divinità.
Di solito, con Dio senza ulteriori attributi o modificatori si intende il dio cristiano; sebbene questa identificazione non sia giustificata sul piano linguistico, ma dipenda da ragioni sociali e culturali, non si può fingere che non sia attiva. Una frase come quella da lei proposta, pertanto, sarà facilmente interpretata come ‘non so se il dio cristiano esista’, piuttosto che ‘non so se esista alcun dio’. Servirà, quindi, una ulteriore specificazione se con Dio si intende ‘qualsiasi dio’ (a meno che non si ricerchi volutamente l’ambiguità).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Nome
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QUESITO:

Ho un dubbio sull’uso delle negazioni no e non nelle seguenti frasi: “È una risposta sincera non / no ironica”, “L’informazione mi è arrivata tramite la mia mail personale, no / non su quella istituzionale”.

 

RISPOSTA:

No (come anche ) si usa sempre da solo: è una parola olofrastica, cioè che da sola sostituisce una frase: “- Vieni al cinema? – No (= ‘non vengo al cinema’)”. Al contrario, non non può essere usato da solo, ma serve, invece, a negare un sintagma verbale (non vengo), nominale (ho visto Piero, non Arturo), aggettivale, come nel suo primo esempio (non ironica), preposizionale, come nel suo secondo esempio (non su quella istituzionale).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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QUESITO:

Che cosa significano e quando si usano le seguenti espressioni?
1. Dammi un numero, presto!
2. Hai una domanda di riserva?
3. Non ti passa un giorno. 
4. Sono aperti i negozi oggi? 
5. Quando la bagniamo? 
6. Ben gli sta. 
7. Che taglio, complimenti. 
8. Bentrovato!  

 

RISPOSTA:

Le espressioni 1, 3 e 4 non hanno un significato figurato codificato. 
La 2 è un modo ironico per ammettere di non conoscere la risposta a una domanda, oppure di preferire non rispondere a una domanda.
Nella 5 il verbo bagnare è usato probabilmente nel senso di ‘inaugurare’ oppure ‘festeggiare un successo’ (dipende dal referente di la). Il verbo bagnare assume questo significato perché un elemento tipico dei festeggiamenti e delle inaugurazioni è il bere convivialmente.
La 6 si dice per criticare qualcuno che ha fatto un danno a sé stesso per non aver prestato ascolto a un consiglio o per aver fatto un’azione irresponsabile o cattiva. Per esempio quando uno scherzo di cattivo gusto si ritorce contro la persona che lo ha tentato.
La 7 è probabilmente un complimento per una persona che si è appena tagliata i capelli. Ricordo anche che a Roma si dice “Che taglio!” con il significato di ‘che bello!, fantastico!’. Questo, però, è un uso gergale.
Infine, bentrovato è del tutto analogo a bentornato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Retorica
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QUESITO:

“Credo che la tua tesi di rara completezza e profondità”.
Questa frase può apparire ambigua? La collocazione di rara prima o dopo completezza e profondità altererebbe il senso della frase?

 

RISPOSTA:

La posizione dell’aggettivo qualificativo rispetto al nome altera sempre il valore dell’aggettivo. Di norma, gli aggettivi preposti al nome (quindi nella posizione più insolita) servono a qualificare emotivamente l’oggetto designato dal nome. Così rara completezza comunica una certa enfasi emotiva, assente in completezza rara. Non si apprezza, invece, alcun cambiamento nel significato dell’aggettivo raro in ragione della sua posizione rispetto al nome. Questo avviene per altri aggettivi, per esempio grandeun grande artista (‘molto capace’) / un artista grande (‘corpulento’, oppure ‘anziano’).
Per un approfondimento di questo tema rimando alla FAQ  Usi enfatici di aggettivi come “determinato” dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Aggettivo
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QUESITO:

Si può dire “La citta di… ha i piu abitanti / è la citta con i piu abitanti rispetto ad altre citta (cioè con il numero piu alto di abitanti)?

 

RISPOSTA:

Più può essere avverbio o aggettivo. Quando è avverbio è seguito da un aggettivo (più bello) e può essere preceduto dall’articolo determinativo per fare il superlativo relativo (il più bello del mondo); quando è avverbio è seguito da un nome (più abitanti) e non può essere preceduto da un articolo determinativo (*i più abitanti). Per fare il comparativo di maggioranza con un nome, quindi, basta dire “La città di XXX ha più abitanti di XXX”; per fare il superlativo relativo, invece, bisogna sostituire più con una espressione equivalente, per esempio “La città di XXX ha il maggior numero di abitanti della regione”.
Attenzione: nel caso di “La città di XXX ha più abitanti rispetto ad altre città vicine” siamo sempre di fronte a un comparativo di maggioranza (non a un superlativo relativo), perché si confronta un dato con un altro dato, anche se quest’ultimo è composto da più dati. Per questo motivo, come si vede, in questo caso si può dire più abitanti rispetto a… (ovviamente senza l’articolo determinativo).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Articolo, Avverbio
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QUESITO:

Pronti è un verbo (participio presente) oppure un aggettivo? In questa frase sembra un participio presente: “i nuovi personaggi contano veramente: perchè pronti a sacrificare la loro vita per qualcosa di più grande”.
Se è un participio presente, qual è l’infinito? Ho trovato la forma verbale essere promente, che non avevo mai sentito, ma esiste?

 

RISPOSTA:

Pronti è la forma maschile plurale dell’aggettivo pronto. Effettivamente questo aggettivo ha un’origine verbale: continua, infatti, il latino PROMPTUM, participio perfetto del verbo PROMERE. Si badi, comunque, che il participio perfetto latino corrisponde grosso modo al participio passato, non al presente. Un aggettivo (oggi usato quasi esclusivamente come nome) che continua un participio presente latino è, per esempio, presidente, dal latino PRAESIDENTEM, participio presente del verbo PRAESIDERE.
Si ricordi che i participi presenti italiani finiscono soltanto in -ante (amante) o -(i)ente (ardentedormiente). 
Oltre che dalla terminazione simile a quella dei participi presenti, l’idea che pronto potesse essere una forma verbale potrebbe essere stata suggerita dalla sintassi della frase: perché pronti, infatti, è una proposizione nominale, cioè senza verbo. In questo caso, però, è facile riconoscere che il verbo è essere sottinteso: perché sono pronti.
Per quanto riguarda promente, la forma non è attestata, cioè non è stata mai usata, ma è teoricamente esistente. Sarebbe il participio presente di promere, il verbo che continua proprio il latino PROMERE, etimologicamente legato anche a pronto, e che significa ‘manifestare’ o ‘estrarre’. Se fosse usato, quindi, promente significherebbe ‘manifestante’ o ‘estraente’. Va detto, comunque, che promere, oltre a essere un verbo difettivo, perché è stato usato soltanto alla terza persona singolare dell’indicativo presente, è anche molto raro e aulico; non ci sono molte possibilità, quindi, che promente venga mai usato.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quale delle due preposizioni bisogna usare nelle frase seguente: “Non è nato con un cuore da / di leone”?

 

RISPOSTA:

La forma più comune dell’espressione idiomatica è cuor di leone (si ricordi la famosa descrizione di don Abbondio nel primo capitolo dei Promessi sposi: “Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone”, o, al massimo cuore di leone. La variante cuore da leone esiste (ne ho trovato qualche attestazione già nel Seicento) e non si può dire che sia scorretta: è, però, molto più rara dell’altra. Rarissima, infine, è cuor da leone.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua letteraria
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QUESITO:

Qual è il preciso significato della locuzione in epoca storica, presente ad es. nella seguente frase: “Le lingue indoeuropee, diffuse in epoca storica in una vasta area geografica fra l’Irlanda e l’India, comprendono quasi tutte le lingue parlate oggi in Europa”?
Ho fatto varie ricerche sui dizionari, ma quest’espressione non è nemmeno citata. Ho fatto allora questo ragionamento: la Storia vera e propria inizia nel 3000 a.C. ca., quando termina la Preistoria; dunque, in epoca storica potrebbe significare ‘dal 3000 a.C. fino ad oggi’?
 

 

RISPOSTA:

Il suo ragionamento è corretto: in epoca storica si oppone a in epoca preistorica. Nella frase da lei portata ad esempio, si vuole sottolineare che la descrizione data della diffusione delle lingue indoeuropee vale per il periodo storico, mentre per il periodo preistorico la situazione potrebbe essere diversa.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Leggo stamane quanto scrive un quotato giornalista italiano in un articolo pubblicato su un giornale a diffusione nazionale: “La sinistra è insorta indignata e non so dargli torto”. Ora, sinistra è femminile, quindi il giornalista avrebbe dovuto scrivere non so darle torto. A meno che il giornalsta non intendesse non so dare torto a quelli di sinistra. Non saprei altrimenti come giustificare questo strafalcione di un giornalista da tutti considerato un vero intellettuale.

 

RISPOSTA:

La distinzione tra gli ‘a lui’ e le ‘a lei’ è un caposaldo della norma grammaticale italiana contemporanea, sebbene sia molto comune, in contesti informali, usare gli per entrambi i generi. Non c’è dubbio che, in astratto, la sinistra vada pronominalizzato con le, ma, a difesa del giornalista, faccio notare che i pronomi personali luileiglile suonano un po’ male quando sono riferiti a entità non animate. Tra questi pronomi, poi, quelli più stridenti sono proprio quelli femminili, che ci si aspetta rimandino a referenti animati (ci si aspetta, cioè, che il genere coincida con il sesso). Pensi a quanto sia strana una frase come questa: “Non ho visto la porta e le ho dato una testata”. Di solito, il parlante tenta di evitare questa situazione, usando altri pronomi o modificando la frase. Nel mio esempio, potremmo risolvere il problema così: “Non ho visto la porta e ci ho dato una testata”, trattando la porta come un luogo. Con la sinistra non si può usare ci; si potrebbe usare non so dare torto a essa, che, però, suonerebbe artificioso. Ecco, allora, che il giornalista ha optato per quello che gli sembrava il male minore, ovvero gli, che è più accettabile (sebbene non ineccepibile) in riferimento a entità inanimate.
Così facendo, però, ha prodotto un errore per evitare una sbavatura. Per giunta, il referente la sinistra non è del tutto inanimato, quindi non so darle torto non stride troppo.
La sua interpretazione (gli = ‘a loro) è ingegnosa, ma, se anche il giornalista avesse inteso questo, la frase risulterebbe infelice, perché ambigua. Si potrebbe, però, cogliere il suo spunto e superare qualsiasi difficoltà così: “La sinistra è insorta indignata e non so dare torto ai suoi militanti”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Se dico la grande attenzione e passione con l’intento di rivolgere grande sia ad attenzione che a passione la frase è corretta?

 

RISPOSTA:

In un contesto informale la costruzione andrebbe bene; formalmente, però, l’aggettivo al singolare non può riferirsi a due nomi. Si dovrebbe, allora, riformulare l’espressione con le grandi attenzione e passione, oppure la grande attenzione e la grande passionela grande attenzione e l’altrettanto grande passione o simili.
Fabio Ruggiano

 

Parole chiave: Accordo/concordanza, Registri
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QUESITO:

“Lo guardai per svariati minuti e lo studiai attento”: l’uso dell’aggettivo con funzione avverbiale è adatto anche a un tono formale? In un esempio come quello indicato soluzioni quali attentamente o con attenzione sarebbero da favorire?

 

RISPOSTA:

L’uso dell’aggettivo con funzione avverbiale è attestato fin dal Trecento ed è codificato nell’italiano standard. Se osserviamo la distribuzione di questo fenomeno oggi, notiamo che esso è tipico di espressioni idiomatiche o comunque cristallizzate: andare piano (e andarci piano), parlare fortetenere duro… Questo tipo di espressioni sposta di norma il registro verso il basso, al limite dell’informalità (e in casi come andarci piano supera questo limite).
A parte questi casi, però, l’aggettivo con funzione avverbiale è anche sfruttato in testi letterari o che hanno scopi estetici (ad esempio pubblicitari: vota comunistamangia sano…). Anche questi usi, pur rimanendo standard, sono diafasicamente orientati verso l’alto, ovvero verso la varietà letteraria.
Il suo esempio fa parte di questa seconda fenomenologia, nella quale l’aggettivo è scelto come variante libera dell’avverbio, funzionale a un effetto estetico o poetico.
Si noti che tra attento e attentamente si coglie anche una differenza semantica: l’aggettivo è un complemento predicativo, che indica l’atteggiamento del soggetto (= ‘lo studiai rimanendo attento’); l’avverbio è un complemento di modo, che indica il modo in cui è svolta l’azione (= ‘lo studiai in modo attento’).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Spesso, specie durante la compilazione di richieste di chiarimenti e simili, ci si imbatte in costruzioni del tipo se sì in luogo di in caso di risposta affermativa. La scelta è corretta? E poi, per enunciare la condizione opposta, si può scrivere se no?
Ad esempio: “Sarebbe possibile parlare con la direzione? Se sì, la pregherei di indicarmi un referente. Se no, la pregherei comunque di segnalarmi una modalità per inoltrarvi il reclamo”.

 

RISPOSTA:

Le parole  e no sono definite profrasi, perché possono da sole sostituire intere frasi (come i pronomi sostituiscono i nomi):
– Vieni al cinema?
– Sì (= “Vengo al cinema”).
Le profrasi possono essere precedute da una congiunzione, ma con molte limitazioni: 
– le uniche congiunzioni ammesse sono se e perché (ricordo la canzone di Enzo Jannacci “Vengo anch’io / no, tu no / ma perché? / perché no”);
– se no è più comune di se sì (tanto che esiste la variante univerbata sennò, mentre non esiste *sessì).
Quando sono usate con una congiunzione, le profrasi, in quanto singole parole che sostituiscono intere frasi, diminuiscono la precisione espressiva e aumentano il rischio di ambiguità, quindi sono più adatte a contesti informali (come anche quando sono usate da sole). Nello stesso tempo, però, permettono di velocizzare la comunicazione, quindi sono apprezzate in contesti burocratici poco curati, come per esempio i contratti standard, i moduli di richiesta di informazioni da lei descritti e simili. Non si può dire, insomma, che sia scorretto usare se sì e se no in contesti come questi, ma è senz’altro una scelta trascurata. Nella frase da lei proposta, per esempio, espliciterei il primo caso, eliminando la domanda iniziale, e sostituirei se no con un’alternativa anche in questo caso più esplicita: “Se fosse possibile parlare con la direzione, la pregherei di indicarmi un referente. Se non fosse possibile, la pregherei comunque di segnalarmi una modalità per inoltrarvi il reclamo”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

In un libro sulla tecnica di meditazione ho letto: “Non appena vi accorgete che state pensando, dovete dire tra voi pensiero“.
La domanda è questa: in questo contesto dire tra voi significa ‘nella vostra mente’ o ‘in silenzio’? Cioè per dire a sé stessi una parola, non è necessario dirlo esternamente quindi facendo sentire la parola ad altri?

 

RISPOSTA:

Il verbo dire può ben indicare l’atto del pensiero esplicito, nel quale la persona formula pensieri ben definiti, ma senza esternarli né vocalmente né per iscritto. Questo atto avviene sia nella propria mente, sia in silenzio.
Nell’espressione dite tra voi c’è un’altra possibile ambiguità. I pronomi personali sono tutti anche riflessivi, tranne lui / lei e loro, che diventano  nella forma riflessiva. Per questa ragione, i sintagmi tra noi e tra voi possono essere interpretati come reciproci o come riflessivi. Nel primo caso, una frase come dite tra voi “pensiero” significa ‘dite pensiero l’uno all’altro’ (evidentemente ad alta voce); nel secondo caso, la stessa frase significa ‘dite pensiero ognuno nella propria mente’ (evidentemente in silenzio).
In presenza di più di una persona, tra voi risulterebbe ambiguo tra queste due interpretazioni, ma nel caso specifico, relativo alla meditazione, l’interpretazione riflessiva è senz’altro quella corretta.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Pronome
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QUESITO:

Esiste un equivalente italiano del proverbio latino sub pondere crescit palma?

 

RISPOSTA:

Il proverbio latino, più comune nella forma palma sub pondere crescit, può essere tradotto ‘la palma cresce sotto il suo peso’ o ‘la palma cresce sotto il peso’. Descrive metaforicamente l’idea che le difficoltà della vita rendono più forti.
In italiano molti proverbi o frasi celebri latine sono mantenuti e usati in originale, come parte del patrimonio culturale: ad impossibilia nemo teneturbeati monoculi in terra caecorumcarpe diemest modus in rebusrisus abundat in ore stultorum e decine di altri; potremmo dire, quindi, che le frasi latine non hanno quasi mai bisogno di un equivalente in italiano. Ironicamente, un equivalente di questa frase potrebbe essere quest’altra, ugualmente latina, che però circola anche in traduzione: ignis aurum probat, miseria fortes viros ‘il fuoco prova l’oro, la sventura gli uomini forti’. L’originale proviene dal De Providentia di Seneca (V, 10).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Qualche giorno fa ho sentito durante un servizio televisivo, questa frase: “Le nostre abitudini devono continuare come se niente fosse, anche se in un momento come questo ci fanno stare PIÙ MALE del solito”.
Vorrei sapere se l’espressione in lettere maiuscole è corretta; io avrei utilizzato PEGGIO del solito, ma vorrei capire se e perché è corretta la forma utilizzata dalla giornalista.

 

RISPOSTA:

Troviamo esempi letterari di più male almeno dal Cinquecento: “E li franchi che stavano alla corte venivano alla nostra tenda, e ne dicevano che li grandi della corte n’erano contrari, e che questo frate aveva lor messo in testa che consigliassero il Prete che non gli lasciasse tornar né uscire delli suoi regni, perché dicevamo male della terra, e che molto più male diremmo quando fossimo fuor di quella” (Giovan Battista Ramusio, Viaggio in Etiopia di Francesco Alvarez, ca. 1557). Si noti che, comunque, qui più male si giustifica perché riprende anaforicamente male appena precedente.
Quasi tutti gli esempi di più male fino a oggi figurano all’interno delle espressioni sentirsi più malefare e farsi più male. Queste espressioni sono parzialmente cristallizzate, come delle unità polirematiche (sentirsi male = soffrire), per cui è innaturale, ma non per questo sbagliato, modificarle sostituendone una parte, male, con un’altra del tutto diversa, peggio. Nel caso di sentire male ‘provare dolore’, invece, male è un sostantivo, quindi non può essere graduato (non si può dire *sento peggio).
Di là da queste espressioni, non ho trovato esempi diastraticamente alti di più male. Non si può escludere che ce ne siano, ma si tratta comunque di un uso marginale.
Parzialmente significativi sono gli esempi, pure rari (per esempio in Pasolini), di stare sempre più male, perché qui più si confonde tra i sintagmi sempre più e più male. Il solo stare più male, senza sempre, del resto, appare spesso in espressioni come non voglio stare più male, nelle quali più è certamente unito a stare, non a male. Esiste ovviamente anche stare più male con il significato di ‘stare peggio’, ma si tratta di un uso informale.
In conclusione, nelle espressioni sentirsi più malefare e farsi più male la forma più male è accettabile anche in contesti di media formalità. In stare più male va considerata poco formale; in altri casi, va considerata trascurata.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Storia della lingua
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QUESITO:

Vorrei chiedere dove e come potrei attingere informazioni per capire quando è possibile usare l’espressione e non, come nella frase “Si è servito di strumenti tecnologici e non”.

 

RISPOSTA:

L’avverbio non si usa davanti al sintagma o la frase negata dall’avverbio stesso. In alternativa, può essere usato davanti a un inciso, seguito dal sintagma o la frase negata: “Mario ha 40 anni e non, come lui sostiene, 36”.
Quando, invece, la negazione riguarda il sintagma precedente si usa no
L’espressione e non è usata comunemente, nel parlato e nello scritto, anche al posto di e no. La ragione di questo uso è che il parlante suppone che non sia comunque seguito dal sintagma precedente sottinteso; per esempio: tecnologici e non (tecnologici). Si tratta di una possibilità non necessaria, vista la presenza di e no, ma, visto che è di uso comune, può essere accettata in contesti informali; in contesti formali e ufficiali, invece, è preferibile la forma normale.
Si consideri che la sostituzione di e no con e non è impossibile quando a essere negata è una frase o un verbo: “Vieni o no al cinema?” (*”Vieni o non al cinema?”); “Quello lo conosco, quell’altro no” (*”Quello lo conosco, quell’altro non”).
Una breve illustrazione dell’alternanza tra no e non è nel volume Italiano di Luca Serianni, Milano, Garzanti, 1997, p. 352.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La forma nulla ha che vedere è scorretta giusto? Si dice nulla a che vedere?

 

RISPOSTA:

L’espressione comune è nulla a che vedere, che, tra l’altro, richiede il verbo avere, per esempio: non ha nulla a che vedere con me
In caso di dubbi sulla distinzione tra la preposizione a e il verbo ha, un trucco risolutivo è cambiare il tempo del verbo, per esempio: nulla aveva che vedere. In questo modo si capisce se l’espressione ha senso con il verbo oppure no (come in questo caso) e quindi la parola da inserire è la preposizione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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QUESITO:

Potrebbe cortesemente chiarirmi se in analisi grammaticale il nome solitudine è astratto o concreto e se è derivato da solo?

 

RISPOSTA:

Premetto che la distinzione tra concreto e astratto è spesso vaga e ambigua e, per quanto tradizionalmente sfruttata nelle grammatiche scolastiche, non aggiunge niente alla conoscenza del lessico. Ferma restando questa premessa, il nome solitudine è astratto, perché la sensazione descritta con questo nome non si può percepire attraverso i sensi. Certo, si può obiettare che il concetto stesso di sensazione è legato alla percezione dei sensi, quindi solitudine sarebbe concreto, ma è appunto in questa contraddizione che si fonda l’idea della vaghezza della distinzione.
Il collegamento tra la radice di solitudine e quella di solo è evidente, ma bisogna fare una precisazione. Il nome solitudine si è formato sulla base del nome latino solitudinem, mentre l’aggettivo solo si è formato sulla base del latino solum. In latino solitudinem deriva da solum, ma le due parole italiane solitudine e solo sono nate autonomamente. Non possiamo dire, quindi, che solitudine derivi da solo, perché le due parole in italiano hanno una storia separata; è chiaro, però, che le due parole sono corradicali.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase “Ha seguito un percorso di alfabetizzazione della lingua italiana (,) conseguendo buoni risultati” è necessario inserire la virgola prima del gerundio?

 

RISPOSTA:

La virgola è facoltativa e influisce sul senso generale della frase. Senza la virgola, la frase risulta un’unità informativa unica, con il focus sul conseguimento di buoni risultati; con la virgola, l’unità informativa viene separata in due focus, la frequenza del corso, con una sua importanza autonoma, e il conseguimento di buoni risultati, ugualmente rilevante.
Sottolineo che il sintagma alfabetizzazione della lingua italiana non è ben formato, sebbene sia piuttosto diffuso nello “scolastichese”. La diffusione di questa espressione è dovuta al suo depotenziamento semantico, che la assimila a insegnamento della lingua italiana o, in modo ancora più approssimativo, a apprendimento della lingua italiana.
Ovviamente, c’è una sostanziale differenza tra insegnamento e alfabetizzazione, mentre davvero impossibile è confondere l’alfabetizzazione, che procede dall’insegnante verso l’apprendente, con l’apprendimento, che procede al contrario.
Soprattutto, però, il nome alfabetizzazione ha un comportamento sintattico particolare. Come il verbo alfabetizzare non può reggere il complemento oggetto dell’ambito del processo (nessuno direbbe mai *alfabetizzare la lingua italiana), ma può reggere il complemento oggetto del destinatario del processo (alfabetizzare gli stranieri), così il nome derivato dal verbo, alfabetizzazione, non ammette il complemento di specificazione dell’ambito, della lingua italiana, mentre ammette il complemento di specificazione del destinatario: “La scuola deve farsi carico dell’alfabetizzazione degli stranieri”.
Questa restrizione riguarda tutti i verbi in -izzare e i nomi in -izzazione con base nominale:
– sponsorizzare una squadra (non *sponsorizzare un contributo per le magliette) e sponsorizzazione di una squadra (non *sponsorizzazione di un contributo per le magliette); 
– parcellizzare gli sforzi (non *parcellizzare le piccole quantità) e parcellizzazione degli sforzi (non *parcellizzazione delle piccole quantità); 
– categorizzare i propri amici ‘dividere in categorie’ (non *categorizzare le classificazioni) e categorizzazione dei propri amici (non *categorizzazione delle classificazioni);
ecc.
Come si vede, questi verbi indicano la realizzazione della propria base: alfabetizzare ‘insegnare l’alfabeto’, sponsorizzare ‘attribuire un finanziamento’ ecc.; non possono, quindi, ammettere un complemento oggetto che ribadisca la base: *alfabetizzare la lingua italiana ‘insegnare l’alfabeto la lingua italiana’. I nomi derivati da questi verbi, come appunto alfabetizzazione, trasferiscono al complemento di specificazione questa restrizione relativa al complemento oggetto.
I verbi in -izzare e i nomi in -izzazione con base aggettivale si comportano esattamente al contrario, perché indicano la qualità che apportano al complemento oggetto: estremizzare la tensione ‘far diventare la tensione estrema’ (estremizzazione della tensione), realizzare un progetto ‘far diventare un progetto reale’ (realizzazione di un progetto), concretizzare le idee ‘far diventare le idee concrete’ (concretizzazione delle idee), ufficializzare una decisione ‘far diventare una decisione ufficiale’ (ufficializzazione di una decisione) ecc.
Alfabetizzazione della lingua italiana deve essere, quindi, evitato. Alfabetizzazione si può tranquillamente lasciare senza specificazione, oppure accompagnare con l’aggettivo linguistica (alfabetizzazione linguistica) o, al limite, con un complemento di limitazione: alfabetizzazione in lingua italiana
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome, Tema e rema, Verbo
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QUESITO:

È corretto e leggibile questo brano?

Già! Il famoso sesto senso delle madri. Carmela a volte vi faceva ricorso, in altre circostanze ne era vittima e questo la rendeva un’anima sempre in pena, tormentata dalla sua stessa sensibilità; frutto anche del forte vincolo naturale che la univa ai suoi grandi amori, che nemmeno il taglio del cordone ombelicale era riuscito a spezzare. Acuta osservatrice di ogni variazione nell’umore, nello sguardo, nell’espressione del volto e nel linguaggio del corpo delle figlie, Carmela viveva con ansia anche il più piccolo segnale d’allarme. Quando le attività extrasensoriali e il dialogo non le bastavano a calmare ansia, sensazioni negative e stato di massima allerta, si lasciava tentare da metodi che, in altro contesto, sarebbero stati giudicati deprecabili: come origliare quando i figli parlano con gli amici di persona o al telefono, oppure cercare affannosamente un diario dove trovare risposte che potrebbero dissipare ogni dubbio. Metodi da considerare pericolosi se scoperti; non certo ortodossi e consigliabili ma classificabili fra le cose sbagliate messe in atto a fin di bene. Così Carmela viveva i suoi giorni, scossa da strane sensazioni e ne aveva ben donde; a breve avrebbe capito il perché.

 

RISPOSTA:

Il brano è certamente leggibile e corretto. Un punto debole potrebbe essere il contrasto tra il condizionale passato sarebbero stati giudicati e la scelta del presente nella porzione successiva: “come origliare quando i figli parlano con gli amici di persona o al telefono, oppure cercare affannosamente un diario dove trovare risposte che potrebbero dissipare ogni dubbio”. Il condizionale passato lascia credere che i metodi siano stati effettivamente messi in pratica dal personaggio, quindi ci si aspetta che costei origliasse quando i figli parlavano e cercasse risposte che avrebbero potuto dissipare i dubbi. Il passaggio al presente, invece, descrive i metodi in generale. Consiglio di sostituire sarebbero stati giudicati con sarebbero giudicati se il personaggio non mette in pratica i metodi, oppure i presenti evidenziati con i passati indicati sopra se, invece, i metodi sono stati messi in pratica.
Un’altra sbavatura riguarda alcune scelte lessicali: l’aggettivo pericoloso non va bene se collegato alla condizionale se scoperti. Il pericolo, infatti, coincide con la possibilità di essere scoperti e cessa di esistere se si viene scoperti. I metodi potrebbero essere dannosidalle conseguenze terribilicontroproducenti (o simili) se scoperti. Eviterei anche l’uso della parola generica cose in un contesto linguisticamente formale come questo. 
Nell’ultima frase, infine, bisogna inserire una virgola prima di e ne aveva ben donde, che introduce una informazione sullo stesso piano di viveva i suoi giorni, scossa da strane sensazioni. Senza la virgola, invece, sembra che e ne aveva ben donde si unisca al sintagma strane sensazioni.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Verbo
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QUESITO:

Mi è sorto un dubbio relativamente alla parola gelato. È un nome primitivo o derivato da gelo? In quest’ultimo caso come vanno considerati i nomi gelataiogelateriagelatiera ecc.: derivati anch’essi da gelo o da gelato?

 

RISPOSTA:

Gelato è il participio passato del verbo gelare ed è usato comunemente come aggettivo. È usato anche come nome, soltanto con il significato di ‘cono gelato’.
Etimologicamente, si potrebbe pensare che gelare derivi da gelo per suffissazione, ma il dizionario GRADIT ci ricorda che il verbo è stato accolto in italiano già formato, direttamente dal latino GELARE, indipendentemente da gelo, che continua il latino GELUM (o GELU). Esso è, pertanto, una parola primitiva. Una volta entrato in italiano, però, i parlanti lo hanno interpretato come derivato di gelo, tanto che ne hanno costruito la coniugazione sul modello dei verbi regolari della prima classe a partire dalla base (o tema) gel(o)-. Definirlo derivato di gelo, pertanto, non sarebbe un errore. Più precisamente si potrebbe definire pseudoderivato.
Per quanto riguarda gelataiogelatiera e gelatieregelateria, essi sono derivati di gelato, che infatti si riconosce alla base di tutte questa parole (gelat(o)-aio ecc.). Dalla base gelat(a)-, invece (femminile di gelato nel senso di ‘formazione di ghiaccio’), deriva gelatina. Da quest’ultima parola abbiamo avuto gelatinaregelatinizzaregelatinoso.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Nome
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QUESITO:

Vorrei sapere se nel seguente testo le congiunzioni all’inizio delle frasi sono corrette. Inoltre, è preferibile scrivere che quando ARRIVI il momento dei saluti?

Mi piacerebbe scrivere che è tutta la vita che dico addio alle persone, perché amo le frasi ad effetto, ma sarebbe un po’ esagerato. E fa un po’ ridere ma è allo stesso tempo un po’ triste che quando arriva il momento dei saluti io me ne esca con un semplice “ciao”, come se fosse un giorno qualunque, come se fosse tutto a posto. Ma a volte non ci si saluta nemmeno. Nemmeno con un semplice ciao. E allora lo scrivo qui, per quelli a cui capiterà di leggerlo: ciao.

 

RISPOSTA:

Le congiunzioni a inizio frase sono legittime: hanno la funzione di collegare logicamente il pezzo di testo successivo al precedente, in un’ottica transfrastica, cioè che guarda non alle singole frasi come se fossero isolate, ma alla loro cooperazione nell’architettura del testo. In particolare, la e di e fa un po’ ridere… indica che l’enunciato successivo aggiunge una nuova considerazione a quella dell’enunciato precedente. La congiunzione ma di ma a volte capita, a sua volta, ha un significato concessivo; significa, cioè, ‘anche se è vero quanto ho detto finora, è anche vero quello che sto per dire adesso’. Nemmeno è considerato da molte grammatiche una congiunzione, ma è, piuttosto, un avverbio. Il collegamento tra l’enunciato nemmeno con un semplice ciao e il precedente è implicito, ed è di tipo esemplificativo: il nuovo enunciato, cioè, fornisce un esempio di come non ci si saluta. Infine, il significato della e di e allora lo scrivo qui… è chiarito dall’avverbio allora: la relazione tra i due enunciati è di consecuzione.
Per quanto riguarda il congiuntivo nella temporale quando arriva il momento, è un’alternativa possibile. Avrebbe come conseguenza l’innalzamento del livello di formalità (forse in modo eccessivo rispetto allo scopo del testo).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Congiunzione, Registri
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QUESITO:

È preferibile usare ugualmente o parimenti?

 

RISPOSTA:

Sono parole quasi equivalenti dal punto di vista linguistico: dal punto di vista semantico, ugualmente è indicato in riferimento tanto a qualità (come la forma di un oggetto) quanto a quantità, cioè a dimensioni graduabili (ugualmente alto), mentre parimenti fa riferimento soprattutto a quantità ed è meno indicato per le qualità. Si tratta, però, di una differenza sfumata, che può essere anche trascurata. 
Da rilevare è anche la percezione diastratica dei due avverbi: ugualmente è più comune, parimenti (anche perché ha un significato leggermente più specializzato) più ricercato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Vorrei sapere se è più corretto dire:
“Non so se la segreteria le abbia già comunicato che in data… rientrerò in servizio”, 
oppure
“Non so se sia a conoscenza che in data… rientrerò in servizio”

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette. La scelta dipenderà, quindi, dalle circostanze. In generale, la seconda versione è più distaccata, tanto che potrebbe essere percepita come fredda (ma potrebbe anche essere preferita in un contesto effettivamente molto formale), perché usa un’espressione astratta come essere a conoscenza, mentre nella prima versione viene chiamata in causa la fonte dell’informazione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Si dice appassionarsi a o appassionarsi di?
È corretto dire: “Ci può portare a trascurare noi stessi e ad appassionarci di cose che non ci riguardano”?  
Non si può usare la preposizione a?

 

RISPOSTA:

La preposizione a è molto più comune, ma di non è esclusa; per esempio: “Studiò al Liceo classico di Formia e cominciò ad appassionarsi di letteratura” (dalla scheda Pietro Ingrao del Dizionario biografico degli italiani Treccani, 2017). Possibile, ma uscito dall’uso, anche appassionarsi per; per esempio: “Un grande desiderio della cultura […] lo portò ad appassionarsi per le questioni religiose del suo tempo” (dalla scheda Fanino Fanini, sempre dal Dizionario biografico degli italiani Treccani, 1932).
La scelta tra le tre opzioni dipenderà dallo stile personale.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La locuzione prima di allora può essere riferita a un momento futuro? Ad esempio: “Il primo appuntamento libero è per il prossimo mese. Non ho trovato niente prima di allora”.

 

RISPOSTA:

Sì, l’avverbio allora può indicare un momento nel passato o nel futuro. Basti pensare alla sua etimologia: ad illam horam ‘in quel momento’, che non specifica se nel passato o nel futuro. Conseguentemente, prima di allora può ben indicare un momento che precede un altro momento futuro.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Etimologia
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QUESITO:

In italiano esiste la dicitura affermazione negativa? O si chiama negazione? Perché ad esempio se dico un sì si chiama risposta affermativa e quindi affermazione negativa sembra un po’ un paradosso.

 

RISPOSTA:

Nella lingua comune, affermareaffermazioneaffermativo e il resto della famiglia sono collegati al polo positivo, tanto che affermativo può essere usato come sinonimo di . In teoria, però, il significato radicale di questa famiglia lessicale non propende verso una polarità, ma indica soltanto la decisione con cui un’opinione è dichiarata (infatti affermare è legato a fermo). Non è, pertanto, impossibile affermare negativamente, o fare un’affermazione negativa. Vista la comune deriva del significato di questa famiglia di parole verso il polo positivo, comunque, l’opportunità di associare uno dei suoi componenti al polo negativo è da valutare caso per caso in relazione al contesto, per non ingenerare confusione. Ovviamente, tale associazione è tanto più accettabile quanto più ci si sposta verso i registri alti, come in questo esempio, tratto da un libro di filosofia: “Se stiamo sostenendo la legittimità morale di certe procedure, ad esempio della libertà e dello scambio, perché il fatto di godere di questi diritti non costituisce un’affermazione positiva, così come il fatto che altri non possano impedirci di godere di tali diritti costituisce un’affermazione negativa?”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Sono uno psicologo e ho un dubbio su una risposta di un paziente in merito ad un test di wais r sul vocabolario. il test in questione è composto da 35 domande, e noi dobbiamo attribuire un punteggio di 2, 1 o 0 a seconda della pertinenza della risposta. Alla domanda riparare si considera giusta la riposta ‘fare sì che ritorni come nuovo’. Alla domanda sproloquiare il paziente ha dato la risposta: ‘sparlare (parlare a sproposito) senza malizia’. La risposta è pertinente?

 

RISPOSTA:

La risposta si colloca più o meno nel mezzo, a mio giudizio, tra una risposta del tutto pertinente e una del tutto sbagliata.
Nel concetto di sproloquiare rientra sicuramente il parlare a sproposito e sconclusionatamente e, in effetti, questo raramente si concilia con la malizia che, all’opposto, implica una buona dose di oculatezza, di programmazione (che è il contrario dell’essere sconclusionati). Diciamo, però, che non si può escludere a priori che uno sproloquio sia anche malizioso. Quel che è un po’ strano (poco appropriato secondo il lessico e la semantica italiani) è l’uso del termine sparlare, il quale, invece, implica esattamente e necessariamente la malizia, la maldicenza, il malanimo.
Morale della favola: o il suo informatore presenta qualche lacuna nell’uso dell’italiano (ignorando, cioè, il significato esatto del termine sparlare, piuttosto che di sproloquiare), oppure sembrerebbe questo un classico caso interessante di lapsus freudiano (ma non vorrei certo rubarle il mestiere…), poiché, nel momento stesso in cui il paziente nega esplicitamente la malizia, cacciandola dalla porta, ecco che questa rientra dalla finestra (inconscia) del significato di sparlare.
Fabio Rossi

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QUESITO:

Dopo il termine compresenza si deve usare la preposizione con o di?
Per esempio, quale delle due alternative è corretta?
1. Lezioni svolte in compresenza con il docente di cattedra.
2. Lezioni svolte in compresenza del docente di cattedra.

 

RISPOSTA:

La locuzione in compresenza, che può essere tanto aggettivale (la lezione in compresenza è stata interessante) quanto avverbiale (la lezione si svolgerà in compresenza), preferisce non essere completata sintatticamente. Il completamento è, però, spesso necessario semanticamente, perché bisogna specificare quali soggetti o elementi siano compresenti.
Una soluzione possibile è realizzare il completamento testualmente, per esempio: la lezione si svolgerà in compresenza. Sarà guidata dai docenti di italiano e di storia; oppure la lezione si svolgerà in compresenza, con i docenti di italiano e di storia (la virgola separa le due unità informative).
Il completamento sintattico, comunque, è ben attestato, sia con di, sia con con; la distribuzione delle due preposizioni, inoltre, non sembra avere una regola precisa. Qualche esempio ricavato da Google Books: 
diventa metafora del vivere e del produrre da parte di più persone in compresenza di interessi diversi.
Un lavoro interdisciplinare e multidisciplinare in compresenza di più docenti.
La varietà che si esprime in compresenza di generi e sottogeneri poetici diversi.
La maggiore diffusione dei VS rispetto ai VM sinonimi parrebbe dunque limitata […] al numero di occorrenze dei tipi di forme impiegati in alternativa e non in compresenza con i corrispondenti monorematici.
Non scompare, ma si mantiene vitale, seppure in compresenza con l’italiano e con le altre lingue
.
Riferiscono di non insegnare mai in compresenza con altri colleghi.
La locuzione, del resto, è attratta tanto da in presenza di (e da la compresenza di) quanto da in concomitanza con: non è possibile, quindi, individuare una forma unica. Bisognerà aspettare che emerga con nettezza nell’uso vivo.
Una ulteriore possibiltà, limitata ai casi in cui la frase lo consenta, è sostituire in compresenza con con la compresenza, che è sicuramente seguita da dila lezione sarà realizzata con la compresenza dei docenti di italiano e di storia.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Sono uno psicologo e ho svolto il test wais r ad un mio paziente. il test è formato anche da una parte di comprensione lessicale, a cui bisogna attribuire un punteggio.
Alla parola sproloquio il paziente ha risposto così: “Chi parla in modo prolisso e inconcludente”; poi ha detto: “Parlare a lungo senza arrivare al dunque”, aggiungendo che loqui vuol dire ‘parlare’.
Secondo lei entrambe le risposte sono giuste?

 

RISPOSTA:

Dipende da quanto bisogna essere fini nella valutazione. In entrambe le risposte c’è un difetto di fondo, che, però, forse potrebbe essere trascurato: di fronte alla domanda su un nomen rei actae (l’atto dello sproloquio), la prima descrive un nomen agentis (colui che produce uno sproloquio), la seconda un verbo (sproloquiare). Un errore di questo genere è comunissimo, tanto negli studenti quanto negli adulti, e dipende quasi sempre dalla scarsa abitudine a fare riflessione metalinguistica, cioè a riflettere analiticamente sulla lingua. Non saprei, quindi, quanto sia utile tenerne conto per i suoi fini.
Per quanto riguarda il contenuto delle risposte, mi sembra che siano entrambe equivalenti e sostanzialmente corrette.
Le consiglio anche di rileggere le risposte già date sull’argomento pubblicate nell’archivio di DICO. Le troverà facilmente usando la parola chiave sproloquio.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È corretto definire le intenzioni egoistiche?

 

RISPOSTA:

Sì: l’espressione è corretta e se ne trovano diverse attestazioni nell’uso. Ne ho trovata una nel Corriere della sera del 30 gennaio 2017 (“Le intenzioni sono egoistiche, è chiaro”) e qualche decina in Google Books con restrizione al Novecento. 
Non si tratta, come rivela la quantità di attestazioni, di un’espressione molto comune. Più comuni, stando alle stesse risorse usate per intenzioni, sono le combinazioni fini egoistici e scopi egoistici.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella correzione di un testo scritto va bene quanto segue?
– INDICATORE: Completezza delle informazioni.
Il contenuto è completo/abbastanza completo/essenziale, ecc.
– INDICATORE: Organizzazione nella successione logica e nell’ordine crono-spaziale.
L’esposizione risulta articolata/ lineare/frammentaria, ecc.
– INDICATORE: Correttezza ortografica, morfo-sintattica, punteggiatura, coesione.
La forma presenta lievi errori/pochi errori/ gravi errori.
– INDICATORE: Uso del lessico
Il lessico utilizzato è appropriato/ adeguato/semplice, ecc.

 

RISPOSTA:

La domanda esula dal nostro campo specifico, ma proverò comunque a fare qualche osservazione. Il primo indicatore è ben costruito, sia nella descrizione, sia nei livelli, tranne che per ecc., che in generale va evitato, proprio perché gli indicatori servono a dare chiarezza. Si può, semmai, aggiungere un quarto livello:

– INDICATORE: Completezza delle informazioni.
Il contenuto è completo / quasi completo / essenziale / quasi assente

Nel secondo indicatore non si capisce come si possano associare successione logica e ordine crono-spaziale. Ma soprattutto, non è chiaro che cosa si intenda con ordine crono-spaziale (o meglio spaziotemporale). Forse intendeva riferirsi alla successione degli eventi di una storia? In questo caso, si consideri che se per la successione logica si può individuare un modello migliore di un altro, per la successione degli eventi in una storia esistono tante possibilità (quelle che in narratologia sono definite intreccio) tra le quali è difficile stabilire la migliore.
I livelli, inoltre, non sembrano adatti a definire una gradualità di valore: perché, infatti, una organizzazione articolata sarebbe migliore di una lineare?
Ammesso che ordine crono-spaziale abbia il significato che io ho inteso, le propongo, per questo indicatore, questa scala di valore: articolata e lineare / lineare / a tratti imprecisa / fortemente imprecisa.
Il terzo indicatore raccoglie troppi aspetti. Si potrebbe dividere in almeno due indicatori, uno per l’ortografia e uno per la coesione (nel quale si può far rientrare anche la punteggiatura e la morfosintassi). Volendo, però, coesione e punteggiatura potrebbero essere separati da morfosintassi.
I livelli non vanno bene neanche in questo indicatore: lievi e gravi sono indicazioni di qualità, peraltro piuttosto arbitarie (quale errore ortografico è più grave o lieve di altri?), mentre pochi indica una quantità ed è, quindi, incongruente con gli altri. Ritengo che la strada migliore nel caso dell’ortografia sia proprio quella della quantità, quindi una scala come molti errori / pochi errori / quasi nessun errore / nessun errore.
Per quanto riguarda la coesione, invece, si può propendere per la qualità, quindi per una scala come pienamente adeguata (allo scopo) / parzialmente adeguata (allo scopo) / appena adeguata (allo scopo) / del tutto inadeguata (allo scopo).
Anche per l’uso del lessico i livelli sono incongruenti: intanto appropriato e adeguato sono quasi sinonimi, quindi non rappresentano una distinzione chiara. Semplice, inoltre, non individua per forza un difetto, quindi non è adatto a rappresentare il grado più basso del giudizio. Potrebbe usare per questo indicatore la stessa scala che ho proposto per la coesione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi piacerebbe sapere se nei testi scritti la forma comprende solo gli aspetti grammaticali (punteggiatura, ortografia, morfosintassi) oppure anche il lessico.
Inoltre vorrei sapere se la coerenza riguarda il modo di esporre l’argomento, mentre la coesione ha la funzione di collegare bene le parti.

 

RISPOSTA:

Il lessico fa certamente parte della forma di un testo nella sua parte significante, fatta di suoni, grafemi e morfemi. Nella parte del significato, invece, fa parte del contenuto del testo stesso.
In linguistica testuale, la coerenza è la qualità imprescindibile dei testi. Rappresenta la capacità del testo di comunicare qualcosa, che dipende dalla sua non contraddittorietà rispetto al co-testo, al contesto, all’enciclopedia del ricevente. Per esempio, il testo che ho scritto finora è coerente rispetto a sé stesso (ovvero rispetto al co-testo), perché non contiene informazioni che contraddicono altre informazioni fornite in precedenza, ma è anche coerente rispetto al contesto, cioè alla sede che lo ospita e alla domanda a cui cerca di rispondere. Potrebbe, però, essere incoerente rispetto all’enciclopedia del ricevente, ovvero rispetto alle sue conoscenze, se lei non conosce i fondamenti della linguistica testuale. In questo caso, questo testo sarebbe incoerente e non potrebbe comunicare niente. Se lei, invece, conosce i fondamenti della linguistica testuale, questo testo le sembrerà sensato e quindi potrà considerarsi coerente. Questo esempio mostra che la coerenza di un testo non è assoluta, ma è relativa al contesto e agli attori coinvolti nella comunicazione. 
La coesione non è imprescindibile per un testo, e riguarda il corretto uso dei legami logici (i connettivi) e referenziali (i coesivi) previsti dalla lingua, ma anche dei segnali discorsivi, della punteggiatura, della consecutio temporum, della concordanza, della deissi (diversi accenni a queste categorie di parole e forme sono contenuti nell’archivio di DICO, a cui la rimando per approfondimenti). 
Sebbene un testo possa essere coeso senza essere coerente (pensi al caso fatto sopra), e possa essere coerente senza essere coeso (si pensi a una richiesta di informazioni da parte di uno straniero con una conoscenza limitata della lingua), è vero anche che la coesione possa incidere sulla coerenza. Un connettivo, o un segnale discorsivo al posto sbagliato, per esempio, può rendere incomprensibile un testo o cambiarne il senso. Ad esempio, una frase come “Mi piace il vino rosso, quindi questa sera ordinerò un bicchiere di vino bianco” potrebbe risultare incoerente a causa della scelta sbagliata del segnale discorsivo; mentre più prevedibile sarebbe “Mi piace il vino rosso, ma questa sera ordinerò un bicchiere di vino bianco”. Attenzione, la prima frase non è per forza incoerente; potrebbe, infatti, essere coerente nel contesto giusto (come si è detto prima, infatti, la coerenza testuale è una qualità relativa). In un ristorante in cui servono del vino rosso di pessima qualità, per esempio, la persona a cui piace il vino rosso potrebbe decidere, proprio perché le piace il vino rosso, di non ordinarne.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione
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QUESITO:

Spesso, nei dizionari, taluni termini (solitamente, verbi e aggettivi) sono associati, per così dire, a limitazioni d’uso che ne riducono i contesti di applicazione. Per esemplificare: sardonico (detto di viso o risata), flebile (detto di voce o suono), effluire (detto di gas o liquido). La letteratura (e non solo) ci insegna che ogni sistema linguistico, nel tempo, si è modificato, allargando tanto la disponibilità di vocaboli quanto le accezioni a essi ascrivibili. Mi viene in mente l’aneddoto legato alla parola bagnasciuga intesa come sinonimo di ‘battigia’ o ‘bàttima’. Fu Benito Mussolini, se non sbaglio, a impiegarla per la prima volta con questo significato (che, adesso, mi risulta essere il più diffuso, a discapito di quello originario).
Tornando all’oggetto dell’interrogativo, vi domando se in un periodo – tendenzialmente fantasioso – quale
 

Vidi quell’uomo misterioso, cupo: il suo approccio sardonico mi inquietava, anche per la circospezione con cui si muoveva nella stanza. Sentii effluire dal mio corpo l’energia che avevo raccolto fino a quel momento: e la già flebile speranza che la situazione potesse volgere a mio favore si esaurì all’istante…

i tre termini citati in precedenza (sardonicoflebileeffluire), che si allontanano dalle limitazioni d’uso indicate dai vocabolari, sono inaccettabili se sviluppati in tali accezioni, oppure le costruzioni che determinano possono dirsi corrette, anche in un’ottica metalinguistica, all’interno di uno scritto di stampo narrativo.

 

RISPOSTA:

Il cambiamento semantico delle parole è un fenomeno tanto ineluttabile quanto imprevedibile. Una delle cause possibili di cambiamento semantico è la paretimologia, ovvero la convinzione errata dei parlanti che una parola abbia una certa etimologia, da cui derivi un certo significato. Il caso di bagnasciuga si può interpretare proprio come un caso di paretimologia. La parola, infatti, sembra perfetta per descrivere la zona in cui la terra incontra il mare, soggetta al continuo andare e venire delle onde. Sappiamo che la parola ha un’origine diversa, perché nacque nel Settecento per designare la linea di galleggiamento delle navi, ma ben presto (certamente prima del famoso discorso del bagnasciuga del 1943 di Mussolini) fu usata con il significato ancora oggi corrente.
Un altro principio che muove il cambiamento semantico è l’assonanza, probabilmente alla base dell’evoluzione di flebile. Originato dal latino FLEBILEM (a sua volta dal verbo FLEO ‘piangere’), ha significato storicamente ‘piagnucoloso, lamentoso, che induce al pianto’, ma oggi significa anche  ‘debole, leggero, evanescente, appena percepibile’. A mio parere, l’assonanza con fiato e afflato, ma anche con fioco e persino fioresfiorare e simili, ha promosso questo spostamento, ulteriormente favorito dalla tipica associazione di questo aggettivo con oggetti effettivamente appena percepibili come il canto degli uccelli.  Addirittura, se flebile ancora conserva anche il significato originario, il suo allotropo popolare fievole ha soltanto il significato secondario. 
Anche l’uso figurato di un termine ne può determinare l’ampliamento semantico, fino a far dimenticare il significato originario. Un caso del genere è l’aggettivo cattivo, che deriva il suo significato attuale dall’uso figurato nell’espressione captivus diaboli ‘prigioniero del diavolo’, diffusosi nella Chiesa delle origini. In latino, infatti, CAPTIVUS significa ‘prigioniero’ (mentre cattivo si dice MALUS o IMPRŎBUS) e mai sarebbe potuto passare al significato di ‘cattivo’ senza il tramite dell’espressione figurata. Un uso figurato è anche alla base del caso di palinsesto di cui ci siamo occupati nella risposta n. 2800425 dell’archivio di DICO. Qui, addirittura, abbiamo un ampliamento del significato sulla base di un significato già figurato, legato alla programmazione televisiva. Se risaliamo indietro al significato originario del nome palinsesto, infatti, scopriamo che è ‘antico manoscritto di pergamena, il cui primo testo è stato raschiato via e sovrascritto’. 
Venendo alla sua proposta, nel caso di flebile non ci sono difficoltà, visto che flebile speranza è un’espressione già comunissima. Neanche approccio sardonico è originale. In rete se ne trova qualche decina di esempi, letterari ma anche di contesto medio, come questo: “L’inviato cult Valerio Staffelli, con il suo consueto approccio sardonico e dissacrante, ha consegnato nelle mani del rapper, come da rituale, il famigerato Tapiro d’oro” (ilgiornale.it, 2019). Effluire è effettivamente usato tipicamente in relazione a gas o liquidi, ma la rappresentazione figurata dell’energia come una sostanza fluida è piuttosto credibile, tanto da giustificare, sulla scorta del principio dell’uso figurato, questo ampliamento di ambito.
In conclusione, i suoi tre esempi di ampliamento di ambito d’uso lessicale, con conseguente cambiamento del significato, sono perfettamente accettabili, tanto che due su tre sono già usati. Il cambiamento semantico è davvero tumultuoso, accade sotto i nostri occhi senza che ce ne accorgiamo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Posso dire che si studia molto alla scuola
Si usa in italiano l’espressione il serial televisivo?

 

RISPOSTA:

Alla scuola non è corretto: questo sintagma è fortemente cristallizzato nella forma a scuola (come a casa). Si può usare la preposizione articolata se scuola è accompagnato da un aggettivo o un complemento di specificazione: alla scuola mediaalla scuola di Giulia. Anche in questi casi, comunque, si può usare a scuola.
Serial televisivo si può usare, ma suona un po’ antiquato. Oggi si preferisce serie (televisiva).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Se scrivo “Devo superare le difficoltà per raggiungere lo stato dell’anima in cui possiedo perfettamente Dio”, se questo stato può essere sintetizzato con la parola Paradiso Beatitudine, si può intendere tutta la frase su espressa dicendo “Devo conquistare il paradiso”? Volevo sapere se il significato su espresso può essere mantenuto anche con quest’ultima frase più sintetica e più efficace, a parer mio.

 

RISPOSTA:

Le parole paradiso beatitudine non riassumono bene lo stato di perfezione spirituale e divina a cui si riferisce la frase. Nella concezione cristiana, la prima, oltre a designare il luogo, indica una condizione di eterna felicità come ricompensa per aver agito in modo giusto durante la vita terrena; la seconda, invece, descrive uno stato di perfetta felicità che consiste nella visione beatifica di Dio. Il termine che dal punto di vista teologico sintetizza lo stato di perfezione spirituale attribuito all’essenza stessa di Dio, ma anche alle persone che riproducono in parte la perfezione divina, è santità. La frase si potrebbe quindi riassumere così: “Devo superare le difficoltà per raggiungere la santità”, anche se (dal punto di vista teologico) il superamento delle difficoltà non implica necessariamente come conseguenza il raggiungimento della santità, bensì il raggiungimento del paradiso. Insomma, riassumere un concetto così complesso con una sola parola, per quanto semanticamente vicina al concetto ricercato, è rischioso e se da una parte produce un effetto di maggiore incisività per via della brevità, dall’altra esclude le sfumature che una frase intera può veicolare.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Sono il segretario di una Associazione nazionale di professionisti di una disciplina del benessere denominata Wa… Il nome è un marchio registrato, ma identifica ormai comunemente la nostra professione e disciplina. Stiamo realizzando il nuovo logo dell’associazione sotto il quale dobbiamo usare la parola Professionisti Wa… È stato proposto Professionisti del Wa…, ma alcuni lo ritengono grammaticalmente scorretto perché prima di un nome proprio, come ritengono essere Wa…, andrebbe semmai la preposizione di. Suggeriscono, quindi, Professionisti di Wa… Altri invece ritengono Wa… il nome comune della disciplina e utilizzerebbero senza problemi la preposizione articolata. 
Anche l’articolo da utilizzare crea dubbi. Dobbiamo scrivere il Wa… o lo Wa…?

 

RISPOSTA:

Il nome della disciplina dovrebbe essere allineato con altri nomi di sport come calciotennisaquagym ecc. Dovrebbe, quindi, essere comune, non proprio. Detto questo, ricordiamo che anche i nomi comuni singolari, che di norma sono preceduti da un articolo, possono non avere l’articolo; ma solo ad alcune condizioni. Rimanendo nell’ambito dei nomi di sport, notiamo che essi sono spesso senza articolo quando sono preceduti dalle preposizioni di o da, a loro volta rette da alcuni nomi o aggettivi (esperto di calciotifoso di calciosquadra di calcioscarpette da calcio…). La caduta dell’articolo si può avere anche dopo a retta da alcuni verbi: giocare a calcio.
Dopo professionisti di di solito l’articolo è mantenuto (professionisti del calciodel tennisdella pallavolo); molto forte, però, è l’attrazione di esperti di, che, invece, di solito non ha l’articolo (esperti di calcio): ne deriva la possibilità di scegliere liberamente tra le due varianti, considerando, però, che quella con l’articolo è la più regolare.
L’articolo da scegliere è anche una questione aperta. In italiano il suono [w] (corrispondente alla vocale u seguita da un’altra vocale) è preceduto da lo, che, però, è sempre apostrofato: l’uomol’uovo (molto innaturale lo uomo ecc.). Davanti alle parole straniere inizianti per w, però, è invalsa l’abitudine di usare il (il würstelil wasabi), sebbene il suono della lettera w coincida perfettamente con [w]. Paradossalmente, la scelta più corretta, l’w-, è percepita come scorretta dalla maggioranza dei parlanti, che propende per il w- (ma l’u-). Chiaramente, la ragione per cui i parlanti non accettano l’wasabi è che graficamente il nome comincia per consonante (sebbene foneticamente, che è ciò che conta, cominci per vocale). A dimostrazione di questo, il nome di un gruppo musicale famoso qualche anno fa, One direction, era quasi sempre preceduto da gli, sebbene one si pronunci [wa-] (come wasabi).
In conclusione, il mio consiglio è professionisti del Watsu®, ma tutte le altre opzioni sono più o meno valide. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Nome, Preposizione
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QUESITO:

In un confronto tra due alternative, nessuna delle quali errata, si può usare l’espressione è più corretto per indicare l’opzione che si ritiene più adeguata, quindi preferibile?

 

RISPOSTA:

Certo, in un ambito in cui la correttezza non sia netta, ma graduale, è possibile che un uso sia più corretto di un altro. Nel campo della lingua, per esempio, molte volte le scelte dipendono dai vari gradi di formalità e dai contesti; un uso più corretto di un altro indica, quindi, che entrambe le soluzioni esistono e che una è preferibile all’altra. Riallacciandomi alle sue parole, più corretto equivale a più adeguato o preferibile
Raphael Merida

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Mi è sorto un dubbio: è giusto dire io personalmente? Non è una ripetizione? Non basterebbe dire solo personalmente? L’io non è sottinteso?
 

RISPOSTA:

Più che una ripetizione è un rafforzamento del concetto. In contesti comuni è chiaramente sufficiente dire io oppure personalmente. In un contesto scritto burocratico, come un documento, invece, tale rafforzamento si giustifica maggiormente, nel caso in cui io voglia sottolineare che l’atto è compiuto da me personalmente, non attraverso un’altra persona che mi rappresenta.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Si dice vestito di oppure a tinta unita?

 

RISPOSTA:

Esistono entrambe le forme, anzi se ne può aggiungere una terza: in tinta unita. La locuzione tinta unita infatti non richiede una determinata preposizione, ma, a seconda dei contesti, è adattabile, senza che il significato dell’espressione cambi. Il vocabolario Devoto-Oli offre alcuni esempi d’uso: alla voce Unito registra la locuzione in tinta unita ‘tutto di un colore’, mentre alle voci Lidite (il nome di una roccia) troviamo: “Varietà di diaspro di tinta unita nera”, e alla voce Operato (una lavorazione del tessuto): “Di qualsiasi tessuto o altro materiale a disegni (contrapposto a quelli a tinta unita)”. 
Raphael Merida 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione
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QUESITO:

Si può dire mi sono divorziato?

 

RISPOSTA:

Divorziare è, nell’italiano contemporaneo, un verbo intransitivo che esige l’ausiliare avere; l’espressione da usare è quindi ho divorziato. Dato che il divorzio prevede lo scioglimento di un vincolo creato tra due persone, è previsto l’uso della preposizione da, che veicola l’idea di allontanamento: “Ho divorziato da mia moglie”. 
L’uso di divorziarsi è attualmente attestato pochissimo, ma potrebbe anche prendere piede, grazie all’analogia con alcuni verbi dello stesso ambito dell’esperienza, come sposarsi e separarsi.
Raphael Merida

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Ho un dubbio semantico quando scrivo questa frase: “Devo conquistare il Paradiso”. Conquistare significa ‘ottenere qualcosa con fatica, andando contro ostacoli’. Ma è risaputo, per i cristiani, che queste fatiche scompaiono facendo posto alla gioia, in vista del fine gioioso del Paradiso. Scomparendo la fatica, ho l’impressione che scompare anche il senso stesso del termine conquistare (il quale prevede fatica nell’ottenimento di qualcosa). Ho pensato che sia più adatto a questo punto usare il termine conseguire, ma non ha lo stesso carico di significato che voglio dare alla frase (cioè far capire che vi sono ostacoli e fatiche, ma queste scompaiono, facendo posto alla gioia in vista del fine). Quindi, chiedo se sia opportuno cambiare il termine oppure se possa rimanere. Nel caso sia possibile mantenere il termine, chiedo se si debba inserire tra virgolette o se possa essere inserito anche senza virgolette (una sorta di significato sottinteso che non so in grammatica come si chiama).

 

RISPOSTA:

Le sue riflessioni semantiche su conquistare sono soggettive e non toccano il significato codificato del verbo. Incidono, piuttosto, sul senso che lei vuole veicolare nel suo testo particolare. Per veicolare la sfumatura da lei ricercata, dovrebbe esplicitarla in modo più disteso, piuttosto che affidarla al significato di un singolo verbo. Va sottolineato che proprio il significato dei due verbi modifica la rappresentazione degli oggetti a essi legati. Conquistare si lega a oggetti (in senso lato) raggiungibili attraverso il superamento di ostacoli; conseguire ha in sé il tratto del ‘seguire’ e per questo raffigura l’oggetto come l’esito di un processo (tacendo delle qualità di questo processo). Tanto per chiarire la differenza, si può conquistare una coppa, ma non si può conseguire una coppa, perché comunemente la coppa è considerato il simbolo di una vittoria, quindi allude al superamento di una prova. Anche con vittoria, il verbo conquistare sottolinea la difficoltà, conseguire solamente il risultato. Tipicamente, non a caso, l’oggetto che si consegue è proprio un risultato; molto innaturale, invece, è conquistare un risultato, perché il significato di risultato non è facilmente associabile ‘difficoltà’. E, per fare un ultimo esempio, si può conquistare la vetta di una montagna, ma non si può conseguire lo stesso oggetto. 
Conquistare, insomma, rimane, tra i due, il verbo più adatto a un oggetto come il Paradiso, ferma restando la possibilità di sottolineare la natura del tutto particolare delle difficoltà da superare.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi scrivo per risolvere un dubbio di retorica relativo in particolare a due casi in cui la ripetizione di una parola si carica di un significato diverso tra un’occorrenza e l’altra. Cito dal prologo dell’Aminta, pronunciato da Amore: “questo io so certo almen, che i baci miei / saran sempre più cari a le fanciulle, / se io, che son l’Amor, d’amor m’intendo”; e “e se mia madre, / che si sdegna vedermi errar fra’ boschi, / ciò non conosce, è cieca ella, e non io, / cui cieco a torto il cieco vulgo appella”.
Nel primo caso, la ripetizione di amore, prima come nome proprio, poi come nome comune, oltre alla variazione poliptotica, è corretto parlare di aequivocatio? Oppure quale altra figura retorica potrebbe descrivere adeguatamente l’artificio? Nel secondo caso invece, in cui si passa dall’uso proprio a quello figurato dell’aggettivo cieco, quale figura viene utilizzata?
Potrebbe essere appropriato parlare di diafora in casi come questi? 

 

RISPOSTA:

I due casi sono riconducibili alla stessa figura, la diafora, ovvero la ripetizione dello stesso termine a breve distanza con un significato diverso. Lo scarto tra il nome proprio e il nome comune ricorda l’uso che della figura fa Manzoni nei Promessi sposi: “La mattina seguente Don Rodrigo si destò Don Rodrigo”, in cui il secondo Don Rodrigo funge più da sintagma nominale comune che da nome proprio e si interpreta come ‘la solita persona’, ‘la persona che era sempre stata’. Nel secondo caso, il significato dell’aggettivo passa da quello figurato (cieca) a quello proprio (cieco detto di Amore) nuovamente a quello figurato (cieco detto del popolo).
La aequivocatio è un caso estremo di paronomasia, nel quale due parole omografe sono usate nella stessa frase, ad esempio: “L’uomo è solito amare le cose amare”, o “Salutare le persone cordialmente è salutare (‘giovevole alla salute’)”.
​Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua letteraria, Retorica
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QUESITO:

In una frase come restare a / al fianco di un nazista è meglio usare a oppure al prima della parola fianco?

 

RISPOSTA:

Al fianco di e a fianco di sono usate oggi in modo intercambiabile, un po’ come al livello di e a livello di. La perdita dell’articolo è una conseguenza della solidarizzazione a cui è soggetta l’espressione, cioè del fatto che i parlanti la percepiscano sempre più come un’unica parola, perché è molto frequente nell’uso. A volte, questo fenomeno produce una vera e propria univerbazione, come è successo a soprattutto (sopra + tutto) e come sta succedendo a avvolte (a + volte), che, però, è ancora da considerare sbagliata. 
Al fianco è preferito quando è usato come locuzione avverbiale, in casi come questo: “Lei si sforzò di leggere la scena, e con trepidazione vide sua madre sorridere a qualcuno che le stava al fianco” (Ugo Riccarelli, Il dolore perfetto, 2004). È, inoltre, l’unica forma possibile quando ha significato letterale: “Ecco che mi solleva la maglietta, e comincia una tortuosa marcia di avvicinamento fatta di baci e di succhiotti, dal petto fino al fianco” (Sandro Veronesi, Caos calmo, 2006).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Preposizione
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QUESITO:

Nel codice deontologico degli assistenti sociali si legge: “l’assistente sociale non esprime giudizi di valore sulle persone in base ai loro comportamenti”. Vorrei sapere cosa si intende con il termine giudizi di valore e se potete cortesemente citare alcuni esempi. 

 

RISPOSTA:

​I giudizi di valore sono pronunciamenti circa la bontà, giustezza, validità di un certo comportamento o modo di essere. Ogni volta che qualifichiamo direttamente o indirettamente uno stato di cose come giusto o ingiustocorretto o scorrettoaccettabile o inaccettabile e simili, costruiamo giudizi di valore, che classificano la realtà osservata secondo la nostra personale ideologia.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Da quello che so, sproloquiare ha come sinonimo ‘parlare a vanvera o a sproposito, straparlare’. Volevo sapere se ‘parlare in maniera spropositata’ rientra nello sproloquiare.
Da una ricerca che ho fatto sul dizionario Treccani, spropositato significa ‘pieno di spropositi, di gravi errori: un tema s., anche se non privo di idee; un discorso s. e confuso; per cui dire che una persona che fa un discorso spropositato sproloquia è corretto? C’è sinonimia tra sproloquiare parlare in maniera spropositata (intendendo ‘fare discorso pieno di spropositi’)?

 

RISPOSTA:

Uno sproloquio è una introduzione (in latino proloquium) che degenera (come indica il prefisso s-) in un discorso. Chi sproloquia, quindi, fa un discorso troppo lungo rispetto al dovuto e, nonostante questo, non arriva a nessuna conclusione, perché il suo discorso non è altro che l’introduzione di un altro discorso. Nella parola sproloquio, come si vede, è contenuta sia l’idea dell’eccesso verbale, sia quella della inanità, che, in effetti, spesso accompagna l’eccesso. Non è contenuta, invece, l’idea della scorrettezza grammaticale. 
Di conseguenza, uno sproloquio è per sua natura spropositato, cioè ‘fuori da ciò che è proposto’ (suffisso s- + il latino propositum ‘proposto’), nel senso di ‘diverso da quello che si propone di essere’. Si badi che spropositato si riferisce sempre alla quantità, non alla qualità, quindi non allude a possibili errori, sebbene sproposito, invece, indichi tipicamente l’errore grave. C’è, quindi, uno scarto semantico tra sproposito ‘errore grave’ e spropositato ‘eccessivamente grande o lungo’. Se, quindi, uno sproloquio è certamente un discorso spropositato, non è altrettanto certamente (ma non si può escludere che lo sia) un discorso pieno di spropositi.
Si tratta di una distinzione sottile: spesso, infatti, si considera l’eccesso verbale come automaticamente comprensivo di una buona dose di errori. Non a caso, il verbo straparlare, che si riferisce a persone che non sono pienamente in possesso delle proprie capacità mentali, contiene entrambe le idee presenti in sproloquiare, quella dell’eccesso e quella dell’inutilità, ma allude anche alla presenza di errori nel discorso. A straparlare si avvicina l’espressione (parlare) a vanvera ‘senza riflettere, a caso’, che sottolinea, però, più che la perdita della ragione da parte di una persona solitamente savia, lo sforzo di parlare a proposito da parte di una persona che è momentaneamente o congenitamente incapace di farlo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Verbo
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QUESITO:

Vi chiedo se è possibile accettare in uno scritto la forma “stramegafantastico”

 

RISPOSTA:

Dipende dal contesto. Dal punto di vista dello standard, la parola presenta due difetti: l’aggettivo fantastico è considerato già semanticamente superlativo e non accetta, di conseguenza, la forma superlativa; il raddoppiamento del prefisso (stra- + mega) è superfluo. In un contesto “brillante” o giocoso, però, censurarla sarebbe una reazione logicistica e fuori luogo: è evidente, infatti, che la parola sia formata allo scopo di suscitare sorpresa e guadagnare la simpatia dell’interlocutore. Queste funzioni, in alcuni casi, sono importanti tanto quanto la trasmissione lineare di informazioni. 
Per maggiori dettagli sui prefissi (o prefissoidi) stra-mega-maxi- ecc. la rimando alla risposta Come si scrive e di che grado è “extrafondente”?dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Neologismi
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QUESITO:

Ho difficoltà a capire le sigle e gli acronimi. Gli acronimi sono quasi sempre sigle e si leggono per esteso. Mi sono chiesto: come mai STA si legge distaccato, visto che è un nome leggibile? Non dovrebbe essere un acronimo? Queste parole sono da considerare acronimi? As, us, mi, ez, arm e gil. Queste, invece, no? ASH,USC,UGL, UGN.
Se scrivessi un nickname strambo del tipo ngnmlo, si potrebbe tranquillamente leggere, nonostante le posizioni delle consonanti sballate? Inoltre, l’acronimo Ngnmlo non è leggibile di vera regola per via dell’eccesso di consonanti? Ngenmlo e Nginmlo invece sì? Una sigla senza puntini non si potrebbe confondere con un nome? Per esempio, se scrivessi MLIC, una persona non potrebbe pensare che possa essere una sigla e quindi pronunciarlo distaccato e non come un nome (sempre il caso del nickname).
Il numero di consonanti che possono stare insieme è 3? In italiano ci sono dei criteri per capire se una consonante può stare con un’altra? Cso è impronunciabile perché cs è all’inizio, questo vale anche per la n iniziale seguita da consonante. Ci sono coppie di consonanti che a fine di parola sono pronunciabili (tipo ansasling)  e coppie che non lo sono (amdazt ecc.). Come riconoscerle?

RISPOSTA:

Gli acronimi, o sigle, possono essere costituiti sia da singole lettere, ciascuna corrispondente all’iniziale di una parola (USAONU ecc.), sia da sillabe, sia da altri insiemi di lettere, sillabe, parti di parola e parole intere talora imprevedibili (per es. Confcommercio = Confederazione del Commercio). Il fatto che un acronimo venga letto una lettera alla volta, oppure come fosse una parola autonoma (come USAONU ecc.) è anch’esso poco prevedibile e dipende sostanzialmente da tre fattori: la facile (o difficile) leggibilità dell’insieme delle componenti (agevole in STA, decisamente scarsa in CGIL), la frequenza (e dunque la facile riconoscibilità) dell’acronimo, la possibilità di equivoci con omofoni: in effetti, se STA può essere confuso con la terza persona del verbo stare, sarebbe meglio pronunciarlo Esse Ti A.
Anche l’uso maiuscolo o minuscolo delle componenti è imprevedibile: di solito, se un acronimo è d’uso molto comune, può essere scritto con la sola prima lettera maiuscola e le altre minuscole (UsaOnu), ma le versione con tutte le lettere maiuscole è comunque sempre adeguata (USAONU).
Anche il fatto che un acronimo si scriva con o senza puntini è difficilmente prevedibile: in angloamericano, in cui si abusa di acronimi, raramente le componenti dell’acronimo sono separate da puntini, in italiano di solito si usano i puntini per gli acronimi meno frequenti, non si usano per quelli più frequenti, ma, come ribadisco, non c’è una regola ferrea.
Tutti quelli da Lei citati possono essere considerati acronimi, se sono effettivamente sigle, cioè se a ciascuna lettera, o gruppo di lettere, corrisponde un nome proprio o comune. Se rientra in quest’ultima tipologia, anche quello da lei proposto (Ngnmlo) potrebbe essere un acronimo, sebbene non possa essere pronunciato come parola se non a costo di notevoli forzature fonetiche: potrebbe, per esempio, essere pronunciato come Ngenmlo o Nginmlo.
MLIC può essere facilmente pronunciato sia lettera per lettera, sia come parola autonoma, ma, ripeto, è un acronimo solo a condizione che le lettere, o i gruppi di lettere, che lo costituiscano siano associate a singole parole: per esempio (inventato), Misura Lineare Cubana (o mille altri significati reali che quest’acronimo ha in inglese, come appurerà facilmente on line). Se si vuole evitare l’equivoco tra acronimo e nomignolo, allora è bene chiarire sempre il valore dell’acronimo, per esempio sciogliendone il significato tra parentesi.
Le consonanti possono essere tre o quattro di seguito, se una è r o l, che resistono meglio di altre alla pronuncia non appoggiata a vocali. Per cui, per es., si pronuncia bene ARST, ma per il suo Ngnmlo è necessario un appoggio vocalico, magari realizzato diversamente rispetto a quanto proposto da me: che so, gnemmelo sarebbe carino, ancorché un po’ infedele.
La casistica fonetica italiana è in realtà molto complessa e controversa. Per un prospetto completo si invita a consultare manuali di fonetica specializzati, quali quelli di Marina Nespor, Luciano Canepari o Pietro Maturi, tra gli altri. Va detto però che le restrizioni fonetiche delle parole italiane possono essere infrante dagli acronimi pronunciati come fossero una parola. Per esempio, nessuna parola italiana può terminare nella sequenza affricata più occlusiva, per esempio azt, ma nulla vieta che l’acronimo azt venga pronunciato come se fosse una parola. 
Sarebbe bene non abusare di acronimi (sempre che non siano sciolti tra parentesi, come appena detto), a meno che non usuali e comprensibili ai più, se non si vuole escludere gli interlocutori. Sarà capitato anche a Lei, come a ciascuno di noi, immagino, di sentirsi frustrato, parlando specialmente con angloamericani, nel sentire una raffica di acronimi di cui ignorava il significato.
Fabio Rossi
Raphael Merida

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QUESITO:

Mi è capitato di entrare in più palestre della mia città e trovare il termine palinsesto per indicare il programma annuale di tutte le attività di fitness. Vorrei sapere se l’uso è improprio o no. visto che dovrebbe riferirsi al campo radiotelevisivo.

 

RISPOSTA:

​L’uso di una parola tende a cambiare nel tempo, accumulando, talvolta, alcune estensioni semantiche. La parola palinsesto nasce in àmbito filologico per indicare un manoscritto in cui la scrittura è stata sovrapposta a un’altra precedente raschiata o cancellata. L’idea di cancellare per sovrascrivere è connessa ad altri contesti d’uso: come già osservato da lei, palinsesto è normalmente associato alla sfera radiotelevisiva per indicare lo schema grafico delle trasmissioni previste in programmazione (che vengono modificate di giorno in giorno). È del tutto prevedibile, quindi, che la parola sia usata per identificare anche altri tipi di programmi che cambiano molto spesso, come quello di un’attività sportiva; non a caso, il dizionario Zingarelli 2020 attribuisce alla parola anche il significato di ‘programma, catalogo’, senza specificare il contenuto dello stesso.
Raphael Merida

Parole chiave: Storia della lingua
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QUESITO:

Leggevo che l’avverbio più può determinare un verbo. In frasi come queste: “la città merita di più”, l’avverbio più non ha un valore comparativo? Cioè, ci sono situazioni in cui più è solamente un avverbio di quantità senza essere comparativo o superlativo?

 

RISPOSTA:

​Come avverbio, o anche aggettivo (in frasi come “ho bisogno di più tempo”), più è sempre comparativo o superlativo. Instaura, cioè, un rapporto tra due termini o tra un termine e un gruppo di riferimento, anche quando l’altro termine del rapporto, o il gruppo di riferimento, siano sottintesi: “la città meria di più (di quanto abbia avuto finora)”, “Luca è il più forte (tra tutte le persone del mondo)”.
Anche quando è usato in espressioni negative, per indicare un evento che cessa di avvenire, in realtà stabilisce un rapporto tra due termini, in questo caso un prima e un dopo: “non lo faccio più” = ‘non aggiungo altro rispetto a quanto già fatto’, quindi ‘da ora il mio agire in questo modo sarà meno (= non sarà di più) di quello precedente’.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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QUESITO:

È possibile utilizzare il termine  discorsivo nell’ambito di un attività dove la percezione del tempo risulta discorsiva( nel senso di scorrevole)? esempio: una coda discorsiva.

 

RISPOSTA:

Nell’italiano antico, il termine discorso (da dis-correre, cioè ‘correre qua e là, muoversi, spostarsi’ e simili) aveva una quantità di significati anche non legati al parlare, cioè al significato moderno, bensì agli spostamenti nel tempo e nello spazio. Pertanto, erano possibili espressioni quali “in discorso di tempo”, cioè ‘con il passar del tempo’; “in discorso d’anni” (Ariosto) ecc. (citazioni tratte dal Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Garzanti).
L’aggettivo discorsivo, che è termine un po’ meno antico, è più legato al discorso come lo intendiamo noi, per cui i riferimenti all’etimo originario dello spostarsi nel tempo o nello spazio sono più difficili, ma comunque sempre possibili, a patto di evitare le ambiguità. In assenza di un contesto maggiore, per esempio, io non potrei che interpretare il suo coda discorsiva come ‘fine di un discorso, in coda a un discorso’. Ma, come ripeto, nulla vieta, magari per amor d’arcaismo e di significati peregrini, di intenderlo, nel dovuto contesto, come ‘la fine dello scorrere del tempo’ e simili.
 
Fabio Rossi

Parole chiave: Storia della lingua
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QUESITO:

Il mio dubbio riguarda le forme di saluto nello scritto. Si può chiudere una lettera informale con Cordiali saluti? Oppure iniziare una elaborato con Salve? Nel ringraziare, sempre a livello informale, è possibile usare la forma Grazie mille

 

RISPOSTA:

​La rimando a questa risposta  dell’archivio di DICO, data qualche tempo fa, ma sempre valida, dal prof. Rossi a un altro utente riguardo alle formule da usare nelle e-mail. Potrebbe anche trovare utile questa nota, sempre del prof. Rossi, pubblicata in DICO, nella rubrica Lo sapevate che? ciao-arrivederci-e-salve-non-sono-del-tutto-intercambiabili/.
Infine, per quanto riguarda grazie mille, va benissimo in una lettera, o e-mail, informale di ringraziamento. L’informalità dipende dalla posposizione dell’aggettivo, che lo rende più enfatico, e dall’iperbolicità di mille; la variante più formale, non a caso, è molte grazie.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Potrebbe aiutarmi a chiarire il significato dell’espressione “curare la traduzione”. Il Treccani dice: “C. l’edizione di un’opera (d’altro autore), prepararne il testo per la pubblicazione, per lo più attraverso l’esame comparativo della tradizione a stampa e, quando si risalga a manoscritti, mediante le varie operazioni della critica testuale”. Penso, forse erroneamente, che possa significare anche ‘tradurre’. Che cosa si evince dalla frase: “Egli curò la prima traduzione mondiale”?

 

RISPOSTA:

Curare e a cura di sono spesso usati in modo improprio o quantomeno allargato. Nel caso da lei segnalato, è evidente che “curò la traduzione” è semplicemente un modo avvertito come più formale e ricercato di dire ‘tradusse’. A me è capitato recentemente di vedere articoli scritti da autori che però figuravano sotto la dizione a cura di.
Non v’è dubbio che il significato più preciso sia quello segnalato dalla Treccani, e che dunque il curatore sia diverso dall’autore. Tuttavia, usi in cui con a cura di si intenda in realtà l’autore (o il traduttore) sono assai frequenti.
Dietro serpeggia la solita paura, brillantemente diagnostica da Italo Calvino come antilingua, di chiamare le cose col loro nome e la volontà di nobilitarle a tutti i costi, spesso in modo ridicolo. Come se un semplice traduttore si prendesse cura del proprio lavoro meno di un più generico, professionale (e meno materiale) curatore.
Fabio Rossi
 

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QUESITO:

“La dichiarazione è sottoscritta e presentata unitamente a copia fotostatica di un documento di identità in corso di validità del sottoscrittore ai sensi degli articoli 35 e 38 del D.P.R. n. 445/2000.
Esenta da imposta di bollo ai sensi dell’art. 37 D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445″.

 

RISPOSTA:

La voce esenta in questione potrebbe anche rappresentare, come da lei suggerito, un caso di verbo con soggetto sottinteso (e anche con oggetto sottinteso: esenta il sottoscrittore), ma sarebbe assai strano, in un testo burocratico che tende, semmai, all’iperspecificazione piuttosto che all’omissione. Sarebbe corretto ma comunque non comune, anche in un testo non burocratico, dal momento che il verbo esentare richiede di norma tutti i suoi argomenti: chi esenta chi da che cosa. È dunque più plausibile pensare a un refuso per esente, in una frase nominale, tipica dello stile burocratico. Vale a dire che la dichiarazione non richiede l’imposta di bollo, ma può esser fatta in carta semplice.
Purtroppo, quello da lei sottopostoci è un ennesimo esempio delle falle dei testi burocratici, che riescono a rendere criptici anche i concetti più semplici. Fosse per me, lo riscriverei così: 
 

“La dichiarazione deve essere firmata ed essere presentata insieme alla fotocopia di un documento di identità valido ai sensi degli articoli 35 e 38 del D.P.R. n. 445/2000.
La dichiarazione va presentata in carta semplice, senza imposta di bollo ai sensi dell’art. 37 D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445″.

Fabio Rossi

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QUESITO:

È più corretto dire a mare o al mare? Comunemente ho notato che si usa al mare quando si risiede in una città lontana da esso o ci si stabilisce in una casa strategicamente vicina, ma queste sfumature non possono avere senso, grammaticalmente. Altra questione annosa: la e negli anni (almeno oralmente) è un errore o solo una mia mortale antipatia?

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda le espressioni al mare e a mare, può leggere il quesito Al mare/a mare/in spiaggia/a spiaggia nell’archivio di DICO.
Sulla congiunzione e nelle date, immagino si riferisca a quella che unisce il mille iniziale alle cifre seguenti, ad es. in mille e novecentodue. Sia nel parlato che nello scritto, sono considerate accettabili, ed effettivamente usate, tanto le forme univerbate (ad es. millenovecentodue) quanto quelle con la congiunzione (che si scriveranno separate, appunto: mille e novecentodue).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In un contesto di discussione, con la frase “Se loro non trascendono da ciò che vogliono fare” volevo intendere la possibilità che su alcune cosa non si possa fare diversamente da quanto loro stessi vogliono. Mi è stato puntualizzato che il significato era sostanzialmente diverso. Chi è in errore?

 

RISPOSTA:

Stando al GRADIT, il dizionario dell’uso più esteso in circolazione, il verbo trascendere può essere transitivo e intransitivo. Tralasciando le accezioni tecnico-specialistiche e quelle letterarie, come intransitivo, il verbo ha il significato di ‘dare in escandescenze’ e può avere come ausiliare essere o avere : “Non capisco perché hai/sei trasceso in quella discussione”. Il verbo ha anche il significato di ‘oltrepassare, andare oltre’, che si avvicina (sebbene non coincida) a quello che lei intendeva. Sempre secondo il GRADIT, però, con questo significato il verbo deve essere costruito transitivamente, quindi non “se loro non trascendono da ciò che vogliono fare”, ma “se loro non trascendono ciò che vogliono fare”. Così costruita, la frase significa, grosso modo,’se loro non finiscono con il fare più di quanto era loro intenzione’.

A dispetto della regola, per la verità, è invalso l’uso intransitivo del verbo anche con il significato di ‘oltrepassare’. Una veloce ricerca in Internet mostra frasi come “qualità che trascendono da un mero discorso tecnico”, “i leader trascendono da un ruolo meramente manageriale”, “i tradizionali strumenti normativi trascendono da una dimensione territoriale ben definita”, “interessi che trascendono da quelli inerenti alla soluzione della controversia” ecc.

In conclusione, trascendere non può significare ‘fare diversamente’, ma può significare ‘oltrepassare, superare, andare oltre’. Con questo significato, secondo i dizionari andrebbe costruito transitivamente, quindi con il complemento oggetto, ma l’uso intransitivo, con la preposizione da, è comune nell’uso, anche in testi mediamente e altamente formali.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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QUESITO:

Mi chiedo se i termini utilizzati ormai universalmente dai ragazzi italiani negli SMS o nelle chat (ad esempio xke in luogo di perché) possano essere ritenuti italiano o no. 

 

RISPOSTA:

Le abbreviazioni come quelle usate negli SMS non sono esattamente delle parole nuove, ma sono degli adattamenti di parole già presenti nel sistema della lingua ad un tipo di comunicazione molto veloce. Questi adattamenti sono utili quando il messaggio deve essere scritto in breve tempo e risparmiando spazio, come, appunto, negli SMS. Nella storia della comunicazione, più volte la lingua è stata sottoposta a simili adattamenti al mezzo, ad esempio nelle iscrizioni murarie latine (tanto per fare un esempio: “LEG AVG PR PR” significa ‘Legatus Augusti pro praetore’), nei telegrammi, nella stenografia. 
Simili usi devono, però, essere limitati – e questa è una regola generale che riguarda tutte le scelte linguistiche – ai contesti nei quali sono funzionali. Le abbreviazioni, cioè, sono accettabili (sebbene non obbligatorie: il gusto personale è sempre esercitabile) negli SMS e nelle chat, meno in altri tipi di messaggi, come le e-mail, per niente in scritti dalla struttura distesa (i compiti in classe di italiano, per esempio). E non è solamente il tipo di testo che ammette o esclude queste abbreviazioni, ma anche il livello di formalità atteso per la comunicazione in corso: un SMS ad un amico è diverso rispetto ad uno ad un professore, o ad un superiore con cui non si ha confidenza.
In conclusione, le abbreviazioni, come altre “licenze” diffuse negli SMS, sono paragonabili alla scrittura di getto, utile quando si compila la lista della spesa, ma inadatta a contesti di comunicazione mediamente formali o anche solamente non confidenziali.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È più corretto dire: “Se vuoi vengo prima a casa tua” o “Se vuoi raggiungo prima casa tua”?

 

RISPOSTA:

Venire e raggiungere sono parzialmente sinonimi, cioè condividono parte del loro significato; difficilmente, però, possono essere usati in modo interscambiabile. Nella frase da lei proposta, per esempio, “raggiungere casa tua” non ha lo stesso significato di “venire a casa tua”, perché raggiungere indica che nel processo di avvicinamento ci sia stato uno sforzo o una gradazione: infatti si dice raggiungere un obiettivo (non *venire a un obiettivo), raggiungere la vetta, “finalmente ti ho raggiunto”, “la temperatura ha raggiunto i 40 gradi” ecc. Più vicino a raggiungere è arrivare, che, però, enfatizza meno la gradualità del processo e concentra più l’attenzione sul traguardo. Venire, invece, ha un significato più ampio, senza tratti semantici secondari.
“Se vuoi, raggiungo prima casa tua”, quindi, fa pensare che la casa dell’interlocutore sia lontana o difficile da, appunto, raggiungere.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In aula, durante una lezione in cui si commentavano i versi finali del coro del quarto atto dell’Adelchi di Manzoni, nel termine colono (v. 119) uno studente coglieva una connotazione “ideologica”, estranea invece al termine contadino: colono, diceva, è chi lavora alle dipendenze di un padrone, coltivando terreni non di proprietà. Ne è nata una vivace discussione…
C’è del vero in quanto affermava? E qual è in realtà la sfumatura che diversifica i due sostantivi?

 

RISPOSTA:

Lo studente mostra una sottile conoscenza del lessico contemporaneo, nel quale, in effetti, con colono si designa un contadino dipendente, cioè un coltivatore di un fondo non suo. Diversa la natura del lessico poetico, spesso rivolto al passato, e in particolare al significato che le parole avevano in latino.
Qui Manzoni (il quale nella prosa si mostra ben più moderno che in poesia, dal punto di vista linguistico) utilizza colono nel significato originario di ‘agricoltore’ (dal verbo còlere ‘coltivare’). Si tratta dunque, nel caso dell’Adelchi, di un latinismo semantico, vale a dire di una parola italiana usata tuttavia nel significato della corrispondente parola latina.
Un dibattito siffatto, peraltro, mostra una bella vivacità sia degli studenti coinvolti sia del docente, in quanto stimola proprio l’arricchimento lessicale e l’approfondimento diacronico della lingua, colta nelle sue sfumature dagli usi poetici a quelli in  prosa, dallo scritto al parlato, dagli usi arcaici a quelli contemporanei.
Fabio Rossi

Parole chiave: Lingua letteraria
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QUESITO:

Qual è l’origine della parola buzzo e del modo di dire di buzzo buono?

 

RISPOSTA:

L’etimologia precisa del termine buzzo (attestato anche, in diverse forme, in varie regioni, sia al Nord sia al Centro) è controversa. Parrebbe però connessa con una radice germanica dal significato di ‘stomaco, ventre’, da cui anche il milanese buseca ‘trippa’, italianizzato in busecca e busecchia (attestato anche in Boccaccio), e il toscano e romanesco buzzurro ‘cafone’ (ma letteralmente ‘uomo panciuto’). L’espressione di buzzo buono, cioè ‘con impegno’, varrebbe dunque, alla lettera: ‘con tutto lo stomaco, con tutte le interiora, con tutto lo sforzo e l’energia possibili’.
Fabio Rossi

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Perché secondo i più si dovrebbe dire “vado al mare” e non “vado a mare”?

 

RISPOSTA:

Andare al mare significa “andare in una località che si trova nei pressi del mare”. Se ci si trova in città, e si va verso una località del genere, allora si sta andando al mare; se, invece, ci si trova già in spiaggia, e semplicemente ci si avvicina al mare, non si sta andando al mare, ma piuttosto in acqua.

La forma “(andare) a mare” sembra essere non standard, ma diffusa solamente nel Sud Italia. Tra le ragioni che hanno portato alla sua diffusione possiamo immaginare che essa funzioni da compromesso tra al mare e in acqua nel caso in cui ci si trovi in una località marittima o balneare, ma non in prossimità del mare, e ci si stia dirigendo verso il mare. Questa condizione è tipica, ma non esclusiva, del Meridione (nella Liguria di Ponente esiste l’espressione “andare a spiaggia”, che sembra rispondere alla stessa esigenza di rappresentare la condizione di andare al mare pur essendo già molto vicini ad esso); su “andare a mare” deve aver influito anche il fenomeno linguistico dell’assimilazione, marcatamente meridionale, per cui al mare si pronuncia [am’mare] e da qui viene reinterpretato nello scritto come a mare.

A mare non è del tutto estraneo all’italiano: è accettato nello standard in pochissimi casi, come “buttare/buttarsi a mare”, “tuffarsi a mare” e simili; oppure nel senso di ‘sul mare’, come in “porta a mare”, usato da Guicciardini, “tira vento di greco a mare” (D’Annunzio), “passeggiata a mare”; e in alcuni toponimi, non a caso quasi tutti meridionali, Praia a Mare, Castello a Mare, ma anche Gatteo a Mare e, nell’Ottocento, Bologna a Mare, italianizzazione di Boulogne-sur-Mer.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Desidererei sapere se esiste e nel caso il significato della parola antipomeridiano.

 

RISPOSTA:

Da un certo punto di vista, la parola antipomeridiano non esiste, dal momento che non è attestata nei vocabolari. Esiste antimeridiano (dal latino meridies ‘mezzogiorno’), con due significati: 1) mattutino, ciò che accade prima di mezzogiorno; 2) la metà di un meridiano (per es. quello di Greenwich).
Ovviamente ogni lingua è creativa e può avere un numero di parole ben più elevato rispetto a quanto registrato dai dizionari. Basti pensare ai meccanismi di derivazione e composizione di parole a partire da una forma data: dalla parola pomeriggio, per es., io posso ben creare antipomeriggiopomerigginopomeriggiaccio ecc., e il fatto che non compaiano nei dizionari non le rende parole impossibili né scorrette. Sono, per dir così, parole virtuali, vale a dire possibili, anche se non attestate, secondo il sistema fonomorfologico (cioè delle regole di pronuncia, di grafia e di formazione delle parole) della lingua italiana.
Pertanto, possiamo anche coniare antipomeridiano, in certi contesti. Non certo nel significato di ‘mattutino’, visto che antimeridiano già assolve perfettamente a quella funzione; ma magari nel senso di ‘contrario alle attività del pomeriggio’, Per es. in un testo del genere: “io odio lavorare o studiare il pomeriggio, perché dopo pranzo mi viene una gran sonnolenza e tutto quel che riesco a fare è dormire almeno dalle 3 alle 6. In questo senso mi definirei un antipomeridiano”.
Se proprio vogliamo segnalare la natura neologica (cioè di parola nuova) di antipomeridiano, possiamo, eventualmente, scriverlo tra virgolette. Ma non è obbligatorio.
La creatività delle lingue, anche nella formazione delle parole nuove, è una risorsa straordinaria e una delle principali cause dell’arricchimento e dell’evoluzione lessicale. È anche il motivo per cui non è possibile rispondere con certezza alla domanda: “quante parole esistono in una determinata lingua”?
Come sempre, tuttavia, negli usi linguistici, l’importante è la consapevolezza. Se usassimo antipomeridiano nel significato di antimeridiano, perché ignoriamo quest’ultimo termine, commetteremmo un errore. Mentre, se il neologismo antipomeridiano è consapevolmente usato con il valore di ‘contrario alle attività pomeridiane’ (o, perché no, in altri possibili significati), non soltanto non commettiamo nessun errore, ma mostriamo addirittura una vivacità e un’originalità (sempre salutari) nell’uso linguistico, allontanandoci da triti stereotipi.
Molti neologismi nascono proprio così e, con un po’ di fortuna, attecchiscono stabilmente nel sistema lessicale. Basti pensare a regista o autista, coniati, nel 1932, dal linguista Bruno Migliorini, quali (fortunatissimi) sostituti dei termini francesi régisseur e chauffeur.
Fabio Rossi

Parole chiave: Neologismi
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QUESITO:
Con un collega tempo fa c’era una diatriba su questo termine. Io, vedendo l’etimologia e cercando su un vocabolario on line dicevo che era altamente offensivo fare sarcasmo su altri. La sua fonte era Wikipedia 😉

 

RISPOSTA:
In effetti, l’etimologia della parola sarcasmo (il verbo greco sarkazo ‘dilanio’) lascia intendere che il termine indichi un atteggiamento estremamente negativo nei confronti di chi ne è fatto oggetto. Una considerazione generale, però, è che l’etimologia non esaurisce il significato delle parole (tanto per fare un esempio evidente, pupilla non significa in italiano ‘bambolina’, come in latino), ma ne rappresenta un nucleo che si arricchisce nel tempo e negli usi. Prendiamo un esempio come il seguente, di una famosa scrittrice del Novecento, Maria Bellonci (dal romanzo Rinascimento privato, 1986):

“Federico ha fatto anche questo” rispose con sarcasmo Alfonso, “ha sottoscritto il contratto nuziale sotto gli occhi dell’imperatore. E mai Carlo abdicherà alla sua maestà di ordinatore del mondo.”

È indubbio l’intento offensivo espresso dal termine; anche se, come si evince dall’esempio, l’offesa è indiretta e non particolarmente violenta. Il sarcasmo, infatti, sfuma spesso nell’ironia e nella beffa, di cui rappresenta quasi un sinonimo.
Fabio Rossi e Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Ho sentito diverse volte questa frase: “Fa tutta la differenza del mondo”. Con essa si intende che al mondo ci sono tantissime differenze in ogni campo, quindi vorrebbe dire che fa una differenza enorme?

 

RISPOSTA:

​Il senso dell’espressione idiomatica, chiaramente iperbolica, è che fare una scelta rispetto a un’altra, pure possibile, rappresenta la distanza maggiore possibile tra due opposti. Tra le due scelte, cioè, si pone tutta la differenza che si può trovare nel mondo, quindi tutta la differenza possibile. 
Il mondo è usato in molte espressioni di vario genere, per definire il massimo grado di qualcosa; lo troviamo come termine in relazione al quale esprimere una qualità superlativa: “La più bella del mondo”, oppure per definire una quantità enorme: “Ti voglio un mondo di bene”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“Perot, un uomo che si era fatto da sé e dalla povertà era assurto a diventare uno degli uomini più ricchi d’America…”. È corretto l’uso del verbo assurgere che ho trovato nella precedente citazione tratta da un articolo giornalistico? Normalmente i vocabolari forniscono esempi in cui il verbo è seguito solo ed esclusivamente da sostantivi: “assurgere a modello”, “assurgere a simbolo” ecc… Può il verbo assurgere essere seguito da un altro verbo?

 

RISPOSTA:

Il verbo assurgere ‘elevarsi a un ruolo, a una funzione’ è effettivamente seguito solitamente dal nome che definisce il ruolo o la funzione assunta. La reggenza proposizionale, però, non è esclusa: l’indagine on line rivela più di 10. 000 attestazioni del solo “assurgere a diventare” (qualcuna in meno di “assurge a diventare”). Sono numeri molto alti, se si considera che il verbo non è di largo uso. Tale costruzione si trova in contesti di formalità media e medio-bassa (molti esempi vengono da giornali locali, blog di vario genere e siti informativi anche specialistici) ; se ne trova una traccia trascurabile, invece, in pubblicazioni monografiche (almeno tra quelle censite da Google Books).

La costruzione deriva probabilmente dalla forte restrizione operata dal verbo nei confronti dei possibili collocati; i sintagmi nominali che seguono tipicamente (quasi esclusivamente) assurgere a, cioè, sono pochi: le combinazioni possibili si limitano a “assurgere a modello”, “assurgere a simbolo”, “assurgere al ruolo di, alla funzione di, alla carica di” e “assurgere al trono”. Anzi, se facessimo una ricerca sull’uso reale, potremmo scoprire che l’elenco è anche più limitato; la restrizione operata da questo verbo, quindi, è probabilmente ancora più forte. In ogni caso, la costruzione “assurgere a uno degli uomini più ricchi d’America”, che sarebbe la variante nominale della frase del suo esempio, per quanto grammaticalmente corretta e preferibile da tutti i punti di vista, potrebbe suonare alle orecchie del parlante medio come non tipica, quindi potenzialmente malformata. Da qui la scelta di inserire un verbo copulativo a completamento; una scelta che non produce un errore sintattico, ma rende la frase meno felice perché in parte ridondante, visto che l’idea di diventare è già contenuta nel significato di assurgere.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Ho un dubbio che riguarda queste espressioni: a chiazzea striscea pallinia buchia disegnia fumettia fioria stellea strappi. Possono essere utilizzate anche sugli esseri viventi e non solo sugli oggetti? Se una persona fosse coperta da macchie cutanee, tatuaggi e disegni, si potrebbe utilizzare la costruzione nome + macchie cutaneetatuaggi e disegni?
Di solito, quando vedo  i termini a fioria strisce ecc., li associo a immagini sparpagliate, ma nel caso di a buchi mi è capitato che si associasse non tanto a immagini di buchi, ma a effettivi buchi. Altri esempi come a buchi sono: pantaloni a strappi e quaderno ad anelli
Mi è capitato di leggere ghepardo dal mantello a chiazze e capelli a strisce: sono da considerare errori? 
Il termine colori ha lo stesso significato dei termini a strisce e a fiori? Se sì, vuol dire che si utilizza solo p’er gli oggetti?
Queste espressioni si possono utilizzare anche per le piante e i liquidi, come, per esempio, pianta a strisce e mare a chiazze? Oltre ad avere il significato di ‘immagini sparpagliate su una superficie’, inoltre, possono avere il significato di a pezzia cubettia fettine; con questo significato, sarebbe corretto adoperarle per gli esseri viventi? Esempio: “Sono a pezzi”, “Sono a strisce” (‘fatto di strisce’).

 

RISPOSTA:

Tutte le espressioni che indicano un certo tipo di colorazione o, in generale, di aspetto di una superficie si usano, appunto, in riferimento a superfici: è il caso di a chiazzea striscea pallinia poisa puntinia macchiea fiori e simili. L’espressione a colori è quella più generica, che racchiude tutte le altre: si suppone, infatti, che le chiazze, le strisce, i pallini ecc. siano di colori diversi dallo sfondo, quindi qualunque superficie a chiazze o altro è anche a colori, nel senso che presenta almeno due colori.
Quando sono riferite a oggetti inanimati è automatico associare queste espressioni alla superficie degli oggetti, come per mare a chiazze = ‘superficie del mare a chiazze’. Alcune di queste espressioni, con una piccola forzatura, possono riferirsi non all’aspetto della superficie, ma alla forma dell’oggetto. Penso a foglia a strisce (o, meno precisamente, pianta a strisce), che descrive primariamente la colorazione variegata della superficie della foglia, e che, in modo un po’ vago, può essere usata anche per descrivere la forma della foglia. Le espressioni costruite con a + nome plurale che si riferiscono alla forma di un oggetto, però, sono tipicamente diverse: a cubettia fettea blocchi, oppure a forma di…
Gli esempi che lei porta di possibile confusione tra la superficie e la forma sono poco significativi: in pantaloni a strappi la forma dell’oggetto e la sua superficie coincidono, quindi non si può decidere se a strappi sia associato alla superficie o alla forma dell’oggetto. Si tratta, inoltre, di una espressione bizzarra: lascia credere che gli strappi siano connaturati ai pantaloni, e non applicati ad essi. Non a caso essa è pressoché assente on line, e dovrebbe essere sostituita da pantaloni con strappi, o pantaloni strappatiQuaderno ad anelli, invece, è del tutto fuori luogo, perché gli anelli non indicano né un aspetto della superficie del quaderno né una sua forma, ma sono oggetti a parte uniti al quaderno. Esistono, invece, i fogli a buchi, che sono quelli nei quali si infilano gli anelli del quaderno ad anelli. In questo caso succede lo stesso che per pantaloni a strappi: la superficie del foglio coincide con la sua forma.
Le persone sono più complesse degli oggetti e ci aspettiamo che vengano descritte distinguendo l’apparenza dalla sostanza. Per questo motivo un’espressione come *persona a strisce è insensata (a meno che non sia ironica; ma anche in quel caso andrebbe ben contestualizzata), perché dà l’idea di una persona costituita da strisce. Possiamo, però, dire persona con la pelle a strisce, o al limite persona con il corpo a strisce, specificando che le strisce sono visibili sulla superficie del corpo della persona stessa (per esempio perché la persona in questione si è abbronzata in modo disomogeneo). In alternativa, si può dire che la persona è coperta di…ricoperta di…piena di… Quanto detto per a strisce vale per a chiazzea macchiea puntini e simili; ma per la verità non sono molte le espressioni del genere che possono essere associate a una persona, perché la pelle umana può assumere una varietà limitata di configurazioni. Come si può intuire, quello che vale per la pelle vale anche per i capelli, che coprono la testa, quindi ne rappresentano la superficie.
Per quanto riguarda a pezzi, difficilmente l’espressione può riferirsi all’aspetto di una persona (come può la pelle di una persona essere a pezzi?), ma, invece, descrive tipicamente uno stato d’animo.
Gli animali stanno a metà strada tra gli esseri umani e gli oggetti: “La tigre è un animale a strisce” è accettabile, sebbene più preciso e formale sia “La tigre è un animale con la pelle / il mantello a strisce”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei chiedere che differenza c’è tra le parole. spesso usate da sole come interiezioni, auguricomplimenticongratulazioni. Magari tra auguri e le altre e più facile, perché auguri guarda al futuro; ma le altre due a volte sono intercambiabili, a volte no. Me ne può spiegare l’uso?

 

RISPOSTA:

La parola auguri è stata oggetto di un approfondimento etimologico nella rubrica di DICO “La parola che non ti aspetti”. Trova l’articolo qui: http://www.dico.unime.it/2015/12/28/tanti-buoni-presagi-da-dico/.
Complimenti è un prestito adattato antico, dallo spagnolo cumplimiento ‘completamento, compimento di un compito’. Quando si fa un complimento a qualcuno, o si esclama “Complimenti!”, quindi, si compie il proprio dovere di dimostrare il proprio favore a quella persona. Come si può immaginare, questo dovere è virtuale, convenzionale, non ha niente di concreto; i complimenti, infatti, sono spesso vuoti e possono addirittura servire a mascherare sentimenti opposti. Non a caso, fare complimenti indica l’atteggiamento di chi rifiuta ostentatamente offerte o favori, anche se vorrebbe accettarli (un atteggiamento che è definito complimentoso); spesso, inoltre, l’esclamazione “Complimenti (per…)!” è fatta con un intento dichiaratamente ironico, per “onorare” un insuccesso.
Le congratulazioni, invece, sono tipicamente sincere e raramente ironiche. L’etimologia della parola congratulazioni rimanda al latino CONGRATULOR ‘rallegrarsi insieme’ e rivela, quindi, che l’atto riguarda i sentimenti, e in particolare la gioia che si prova per il successo di qualcuno a cui si vuole bene. Il nome congratulazioni è imparentato con grazie, che a sua volta può essere usato come interiezione. Di questo ci siamo occupati in un’altra risposta, che può leggere qui.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Interiezione
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QUESITO:

Mi son venuti dei dubbi leggendo un libro di esercizi. Leggo:
1. Tradurre dall’italiano al tedesco.
2. Tradurre Platone in italiano.
3. Tradurre le parole nella tua lingua.

A me sembrano la stessa struttura: “tradurre a una lingua”. Ma perché si usa una volta a e altre volte in? O sono intercambiabili?

 

RISPOSTA:

L’uso delle preposizioni è legato a fattori solo in parte logici. A volte a pesare è la storia della lingua o anche altre ragioni difficili da riconoscere. Si pensi, per fare un esempio tra mille, alla preposizione di, che è richiesta tanto da un aggettivo come degno (“Degno di lode”) quanto dal secondo termine di paragone (“Meglio di niente”), può esprimere provenienza se segue il verbo essere (“Sono di Atene” = “Vengo da Atene”), ma anche un certo momento della giornata in alcune espressioni (“Ci vediamo di pomeriggio”).
Il verbo tradurre regge di norma la preposizione in, come dimostrano le sue frasi 2 e 3. L’assenza dell’articolo nella 2 è dovuta alla idiomaticità dell’espressione in italiano (che si comporta come in casain bancain classe…). Nella frase 1, la presenza della lingua di provenienza, introdotta dalla preposizione da, configura l’azione del tradurre come uno spostamento fisico di un corpo da un luogo a un altro: questo favorisce l’uso, altrimenti sbagliato (non si può *”tradurre a una lingua”) della preposizione a. Rimane comunque possibile usare in anche quando sia esplicitata la lingua da cui si traduce: “Tradurre dall’italiano in tedesco” è corretto, sebbene meno comune.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Riflettevo nei giorni scorsi circa l’esistenza in italiano del verbo riflessivo masterizzarsi per indicare il conseguimento del titolo di master universitario. Una frase esemplificativa a riguardo potrebbe essere la seguente: “Mi sono masterizzata l’anno scorso all’Università di Trento”.

 

RISPOSTA:

​Il verbo non è registrato né nello Zingarelli 2019, né nel Devoto-Oli 2019, i due dizionari dell’uso più diffusi e sensibili all’aggiornamento lessicale. Non si trova neanche nella banca dati dell’Osservatorio neologico della lingua italiana (http://www.iliesi.cnr.it/ONLI/), né nella aggiornatissima pagina del sito Treccani dedicata ai neologismi (http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/neologismi/).
La ricerca on line attraverso il motore di ricerca Google restituisce circa millecinquecento risultati, decisamente pochi (molti sono, per giunta, falsi positivi). Alcune attestazioni, però, risalgono anche a 15 anni fa, e si trovano in blog, giornali, persino libri specialistici di case editrici di rilevanza nazionale; ecco un esempio giornalistico del 2006, dalla pagina http://www.ilgiornale.it/news/aaa-laureato-cercasi-purch-senza-master.html: “Molti di questi corsi post-laurea sono semplicemente dei parcheggi per signorini viziati che pensano di «masterizzarsi» per poi entrare con più titoli nel mondo del lavoro ed evitare la gavetta in azienda”.
Dal punto di vista morfologico, masterizzarsi ‘conseguire un master’ è formato sul modello di diplomarsi ‘conseguire un diploma’, laurearsi ‘conseguire una laurea’, addottorarsi ‘conseguire un dottorato’, specializzarsi ‘conseguire una specializzazione’. È un verbo di cui il sistema ha bisogno, per designare un’esperienza sempre più diffusa anche in Italia. In teoria, quindi, ha piena legittimità d’uso; a scoraggiarne la diffusione, però, malgrado la sua coniazione risalga a più di dieci anni fa, è la coincidenza con il verbo masterizzare ‘copiare dati su un CD’ (da master ‘registrazione originale digitale da cui derivano le copie’), che lo rende semanticamente ambiguo.
È possibile che, con il progressivo tramonto della tecnologia dei CD, l’ambiguità tra masterizzare e masterizzarsi venga meno, i parlanti abbandonino le remore a usare il verbo e, di conseguenza, i dizionari lo accolgano. Fino a quel momento, il verbo rimane rischioso da usare (non a caso, nelle attestazioni rinvenute nel Web, il termine è spesso virgolettato, perché sentito come non ufficiale), perché non pienamente autorizzato né dall’uso vivo né dalla lessicografia: un buon compromesso è usarlo, anche senza virgolette, in contesti specialistici sul tema dell’istruzione; metterlo tra virgolette altrove.
A margine, sottolineo che masterizzarsi, al pari di laurearsi ecc., rientra nella categoria dei verbi intransitivi pronominali (come innamorarsi o accorgersi), non in quella dei verbi riflessivi, perché indica non un’azione che il soggetto compie su sé stesso (il soggetto non laurea, masterizza ecc. sé stesso), bensì l’ottenimento o il raggiungimento di uno stato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Neologismi, Verbo
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QUESITO:

Mi piacerebbe avere dei chiarimenti in merito all’uso di piuttosto che con valore disgiuntivo al posto di oppure. Ad esempio: “Sono stata al mercato e non sapevo se comprare pomodori piuttosto che cipolle, piuttosto che dell’aglio”. Potreste fornirmi delle delucidazioni in merito a questo strano uso?
Il significato di piuttosto che a cui sono abituata è quello di invece di, come in questo esempio: “Piuttosto che sgridarmi, spiegami dove ho sbagliato”.

 

RISPOSTA:

Il significato di piuttosto che a cui lei è abituata, cioè di ‘invece di’ o ‘anziché’, è l’unico appartenente all’italiano standard (quello codificato dalle grammatiche e dai dizionari). Con questo significato, il connettivo ha valore comparativo ed eccettuativo; l’esempio da lei fornito, infatti, può essere trasformato nel seguente modo: “Spiegami dove ho sbagliato, invece di sgridarmi”.
Da più di un decennio, e specialmente nell’italiano centrosettentrionale, piuttosto che ha assunto il significato proprio della congiunzione disgiuntiva o. Le ragioni di questa moda sono da ricercarsi nella percezione di piuttosto che come nobilitante rispetto a da parte dei ceti medio-alti del Settentrione che, poi, hanno influenzato gli altri parlanti. Sono gli stessi motivi, per esempio, che inducono a pronunciare rùbrica invece di rubrìcamòllica piuttosto che mollìca.
L’uso disgiuntivo di piuttosto che è ancora da considerare scorretto e non è consigliabile in nessun contesto; non solo perché in contrasto con la grammatica e con la storia etimologica del sintagma, ma anche perché può creare importanti ambiguità nella comunicazione, rischiando di compromettere la funzione del linguaggio. Una frase come “Stasera vado al cinema piuttosto che al teatro” indica una preferenza (‘Stasera vado al cinema, non al teatro’) e non un’alternativa (‘Stasera vado al cinema o al teatro’). L’uso disgiuntivo è, comunque, tipico di catene di alternative, come nell’esempio da lei proposto “pomodori piuttosto che cipolle, piuttosto che dell’aglio”. Si noti che la frase, se interpretata con il valore standard di piuttosto che, significherebbe: ‘[compro] i pomodori e non le cipolle, né dell’aglio”.
Già nel 2002 la linguista Ornella Castellani Pollidori ipotizzava che alla base dell’uso di piuttosto che con valore disgiuntivo ci fossero frasi come “Andiamo a Vienna in treno o piuttosto in aereo” (in cui piuttosto dà maggiore plausibilità al secondo elemento della coppia disgiuntiva).
Raphael Merida

Parole chiave: Lingua e società
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QUESITO:

Vorrei sapere se le seguenti frasi sono corrette:

1. Proporrei di fargli direttamente un bonifico di €…… Incluse le eventuali spese per motivi aggiunti.

2. È come se gli stessimo dicendo:”non fare più nulla perché siamo disposti ad aderire al ricorso”

RISPOSTA:

Le frasi sono sintatticamente ben formate. Ho sostituito aggiunti con aggiuntivi e qualche altro dettaglio grafico. Per quanto riguarda € …, infine, la sequenza “ + importo” è di stampo burocratico, quindi adatta a comunicazioni istituzionali; in una comunicazione ufficiosa come quella qui considerata, è preferibile “importo + “, o anche “importo + euro“.
Ecco il risultato:

1. Proporrei di fargli direttamente un bonifico di … euro / €, incluse le eventuali spese per motivi aggiuntivi.

2. È come se gli stessimo dicendo: “Non fare più nulla perché siamo disposti ad aderire al ricorso”.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Come si chiama la vegetazione che cresce spontanea sull’asfalto?

 

RISPOSTA:

Le piante che crescono nelle crepe dei muri o delle strade appartengono a molte specie. Sono, comunemente, designate con espressioni collettive come vegetazione spontanea, visto che crescono senza essere coltivate, oppure infestante, con riferimento alla loro dannosità per i fabbricati (sebbene questo aggettivo si adatti più propriamente alle piante che insidiano le loro concorrenti coltivate, come la gramigna, la zizzania e le piante parassite). .Si può distinguere tra erba, che ha un fusto non legnoso, piante, che sono dotate di fusto legnoso o fibroso, arbusti, che sono bassi, legnosi o fibrosi e ramificati fin dalla base, alberelli e persino alberi, se la pianta ha fusto legnoso, rami, foglie, fiori e frutti. Le piante, poi, possono essere isolate o raggruppate in cespugli, se presentano un intrico grossolanamente globulare di molti rami, rovi, se i cespugli sono anche spinosi (il rovo è anche una pianta specifica: quella che ha i frutti detti more), siepi (con una punta di ironia, visto che queste formazioni sono spesso, ma non sempre, curate e modellate per delimitare confini), che sono cespugli con una certa estensione lineare, filari (con ironia più marcata, visto che il termine si associa di solito agli alberi), che si presentano in file più o meno regolari e non intricate.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho fatto una ricerca sui sinonimi di moderazione e ho trovato su diversi dizionari di sinonimi e contrari i termini ponderatezza e ponderazione. Posso considerarli validi? Lo stesso vale per i verbi ponderare e moderare?

 

RISPOSTA:

In astratto tanto ponderatezza quanto ponderazione possono essere usati come sinonimi di moderatezza. Bisogna, però, ricordare che non c’è mai identità di significato tra le parole: bisogna valutare di volta in volta qual è il significato attribuito nel testo specifico alla parola. Non a caso, infatti, i dizionari propongono quasi sempre più di un sinonimo, ognuno dei quali riflette uno dei significati possibili della parola che vogliamo sostituire. Nel suo caso particolare, consideri che moderazione è, in generale, la qualità di chi agisce rimanendo all’intero dei limiti comunemente ritenuti normali. Ponderatezza, invece, è la capacità di soppesare le conseguenze, che di solito porta alla moderazione, ma può portare anche all’inattività, oppure, al contrario, a un comportamento consapevolmente non moderato. Ponderazione, infine, è l’atto di ponderare, ovvero l’applicazione a una situazione specifica della capacità della ponderatezza.
La vicinanza semantica individuata tra ponderazione e moderazione si rispecchia nella relazione tra ponderare e moderarsi (non moderare). Bisogna, però, considerare che ponderare richiede un complemento oggetto (si può anche usare in modo assoluto, ma con il significato generico di ‘pensare, riflettere’), mentre moderarsi no.
Moderarsi indica l’atteggiamento di chi controlla i propri impulsi per mantenere il proprio comportamento all’interno dei limiti considerati normali. Alla base di moderarsi c’è, ovviamente, moderare, che significa ‘mantenere qualcosa entro i limiti considerati normali’ e si usa con parole che indicano oggetti quantitativamente variabili, come la velocità o le spese, oppure con termini che indicano moti psicologici potenzialmente eccessivi, come l’ira o l’entusiasmo, o ancora con le parole, nel senso, figurato, di ‘esprimere in modo indiretto concetti che potrebbero offendere’. Si usa spesso anche con riferimento a convegni, dibattiti o simili, per definire l’attività del moderatore, ovvero dare la parola ai relatori, stabilire i tempi degli interventi, evitare che il botta e risposta degeneri in rissa ecc.
Ponderare, al contrario, è accompagnato da parole che hanno a che fare con valutazioni da cui dovrebbero scaturire decisioni: si possono ponderare le opzionile alternativei pro e i contro e simili.
Per moderarsi è spesso necessario ponderare le alternative e valutare le conseguenze delle proprie azioni. Ma è anche possibile ponderare le alternative e poi decidere di non moderarsi affatto.
Ponderare e moderare possono avere come oggetto le paroleModerare le parole e ponderare le parole, però, non descrivono la stessa azione: la prima espressione significa ‘parlare in modo indiretto per non provocare l’interlocutore’; la seconda ‘riflettere sulle possibili parole adatte al contesto per scegliere quelle più adatte’. Potremmo dire, semplificando, che prima si ponderano le parole per poterle, poi, moderare. Ma è anche possibile che le parole vengano ponderate proprio per non moderarle, ma per esprimere con chiarezza il proprio pensiero.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Potreste dirmi quale delle due alternative è corretta nei punti segnalati della seguente lettera?
 Volevo dirle che, in questo periodo ho trovato molto difficile seguire XXX per le sue numerose assenze, mi sono ritrovata il giorno prima per il seguente con tutto il lavoro da svolgere e interrogazioni da preparare, inoltre mi è dispiaciuto non seguire XXX in modo ottimale, ma anche lui mi ha fatto / mi fece presente di queste sue difficoltà il giorno precedente all’esposizione della relazione, quando nelle settimane precedenti ho chiesto / chiesi alla classe di chiedermi aiuto se qualcuno ne aveva bisogno /  avesse avuto bisogno.

 

RISPOSTA:

Il passato remoto nel primo caso risulta fuori luogo per via degli altri passati prossimi che lo precedono (ho trovatomi sono ritrovatami è dispiaciuto); nel secondo caso è richiesto il trapassato prossimo, perché l’azione espressa precede un’altra azione, già passata (la richiesta di aiuto del bambino). Nel terzo punto, le possibilità sono tre: avesse bisognoavesse avuto bisognoaveva bisogno; tra queste ritengo la migliore avesse bisogno, perché il congiuntivo imperfetto (più formale dell’indicativo imperfetto) esprime l’evento come possibile, mentre il trapassato lascia intendere che l’emittente lo ritenga improbabile.
A parte i tre dubbi da lei segnalati, però, ci sono altri punti deboli nella nota (relativi alla punteggiatura, alla sintassi e al lessico), che mi permetto di aggiustare nella seguente riscrittura.

Volevo dirle che in questo periodo ho trovato molto difficile seguire Tommy: a causa delle numerose assenze, mi sono ritrovata il giorno prima per il seguente con tutto il lavoro da svolgere e interrogazioni da preparare. Inoltre, mi è dispiaciuto non seguire Cristian in modo ottimale; ma anche lui mi ha parlato di queste sue difficoltà il giorno precedente all’esposizione della relazione, quando nelle settimane precedenti avevo invitato la classe a chiedermi aiuto se qualcuno ne avesse bisogno.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Quando si dice giocare a qualcose quando con qualcosa? Per esempio giocare a o con un gioco di società?

 

RISPOSTA:

Si gioca a un gioco di società. In generale, si gioca a qualcosa quando si partecipa a un’attività  organizzata e con un regolamento: giocare a calcioa cartea scacchia Monopoli. Si gioca con qualcosa, invece, quando si usa un oggetto per divertirsi: giocare con il pallone ‘giocare usando un pallone’ (mentre giocare a pallone significa ‘giocare a calcio’), con il frisbeecon le bambole ecc.

Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

Ho il seguente dubbio: è più corretto dire costruzioni in calcestruzzo o di calcestruzzo? Struttura in legno o di legno? Nella mia attività di ingegnere civile ho potuto notare che nei testi normativi (es. Norme Tecniche per le Costruzioni, 2018) prevale l’uso della preposizione di, mentre nei manuali e nel linguaggio parlato è molto più diffusa la preposizione in. La mia domanda è: sono corrette entrambe? Se sì, qual è la differenza?

 

RISPOSTA:

​Nell’uso comune è difficile individuare una distinzione funzionale tra le preposizioni di e in nel complemento di materia. Una differenza di fondo, però, c’è e dipende dalla semantica delle due preposizioni. Il complemento di materia è costruito con di quando la materia è intesa come una delle qualità di un oggetto; diversamente, può essere costruito con in quando si vuole attirare l’attenzione sulla materia usata per costruire l’oggetto. Così, ad esempio, una statua di legno è una statua che, tra le altre qualità, possiede quella di essere fatta di legno; una statua in legno è una statua di cui si vuole sottolineare che è stata scolpita nel legno. Non a caso, la preposizione in è preferibilmente preceduta dall’azione che indica il processo usato per realizzare l’oggetto (statua scolpita in legno (ma non *statua scolpita di legno), e, anche quando non lo sia, lo sottintende.
La preposizione in, di conseguenza, è preferita nei cataloghi d’arte, nei registri, negli inventari, che hanno interesse a enfatizzare il materiale costitutivo degli oggetti, in quanto distintivo; è ovvio, inoltre, che è tipica degli oggetti realizzati con materiali preziosi. Quando si tratta di strutture edili, nelle quali i materiali sono standard e persino obbligati dalla normativa, l’uso di in non è quasi mai giustificato; lo diventa nel caso in cui si voglia enfatizzare il materiale con cui una struttura è stata costruita: costruzioni in calcestruzzo, ad esempio, equivale a costruzioni realizzate in calcestruzzo (e non in acciaio o altro).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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QUESITO:

Buongiorno, sono straniera e ho un dubbio: vorrei sapere se è un pleonasmo dire: “sono sicuro e certo”. Secondo me sì, perché è una esagerazione: chi è sicuro è certo! Comunque una mia amica italiana dice di no, dice che è una endiadi. Non sono d’accordo perché sono due aggettivi e non due sostantivi.
Grazie!

RISPOSTA:

Il pleonasmo e l’endiadi non si escludono a vicenda, anzi possono coincidere: l’ampliamento di un concetto attraverso l’uso coordinato di due sinonimi può essere inquadrato in entrambe le categorie.  La scelta dell’una o dell’altra dipende dall’intenzione del parlante: se la costruzione coordinata è fatta per ottenere una sfumatura di significato o anche solamente per far suonare la frase in un certo modo, si parlerà di endiadi, se, invece, la costruzione è frutto di distrazione o trascuratezza si interpreterà come pleonasmo. Entrambe le funzioni, semantica (ottenere un certo significato) e “poetica” (ottenere un certo suono), sono presenti nelle endiadi cristallizzate nell’uso, come sano e salvofuoco e fiammecasta e pura. Dagli esempi appena fatti si nota, tra l’altro, che l’endiadi si può fare con i nomi, gli aggettivi, come anche con i verbi e gli avverbi.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho cercato un sinonimo di una parola sul Dizionario dei sinonimi e dei contrari della lingua Italiana di Michele Giocondi e ho trovato come risposta dei sinonimi che però ho trovato solo in alcuni vocabolari ma non in altri. È possibile che alcuni dizionari non contengano tutti i sinonimi di una parola, ma solo alcuni?
E se trovo un sinonimo di una parola in alcuni dizionari ma non in tutti, posso considerare valido questo sinonimo?

 

RISPOSTA:

Non deve sorprendere che i dizionari differiscano tra loro. Ognuno offre risposte ispirate a una certa visione della lingua e al tipo pubblico a cui è indirizzato. Se non ci fossero differenze del genere, del resto, non avrebbe senso pubblicare tanti dizionari diversi. Ne consegue che è utile fare una ricerca più ampia, usando più di uno strumento, sia cartaceo sia on line. Un ottimo dizionario dei sinonimi disponibile gratuitamente in Internet, ad esempio, è quello Treccani.
Ci si può, in genere, fidare dei dizionari, anche se differiscono tra loro. Un sinonimo registrato in uno o in alcuni, e non in altri, può essere considerato valido; solo in astratto, però; bisogna sempre assicurarsi che quel sinonimo sia adatto al contesto nel quale serve, perché i sinonimi non coincidono mai perfettamente tra loro: hanno sfumature di significato e ambiti d’uso specifici. Per farle un esempio riguardo al significato: carino è un sinonimo di bello, ma non posso dire “Oggi il tempo è proprio carino”, mentre posso dire “Oggi il tempo è proprio bello”. Viceversa, non posso dire “Luca è stato bello ad accompagnare Maria a casa”, mentre posso dire “Luca è stato carino ad accompagnare Maria a casa” (anche se sarebbe meglio dire gentilecortesegeneroso o simili). Per quanto riguarda gli ambiti d’uso, prendiamo buco e foro: in astratto sono sinonimi, ma foro è più tecnico di buco, infatti di solito “si fa un buco nel muro” (con martello e chiodo), ma “si pratica un foro nel muro” (con uno strumento di precisione) e i proiettili hanno un foro d’entrata e uno d’uscita (non un buco). Nelle frasi idiomatiche, poi, buco è molto più produttivo di foro: si può scoprire un buco nel bilancio (ma un *foro nel bilancio), si può vivere in una casa molto piccola, che è un buco (non un foro) e così via.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Qual è la differenza tra AFFERENTE ed EFFERENTE, ovvero se sono afferente vado verso qualcosa, faccio e se sono efferente sono ricettivo e ascolto? Nella comunità Osteopatia si usano questi termini e secondo me a senso invertito…

 

DOMANDA:

In questo caso l’etimologia è chiarificatrice: il prefisso ad- del verbo latino affero (che in italiano non si è continuato, ma ha lasciato solamente il participio presente con funzione di aggettivo afferente) indica un moto verso un punto nello spazio; ne consegue che afferente è detto di un mezzo che trasporta un contenuto di qualche genere verso una meta. Allo stesso modo, il prefisso ex-, che fa parte del verbo latino effero (anch’esso senza “eredi” in italiano, tranne il participio presente efferente), indica il movimento da dentro verso fuori, con le conseguenze semantiche prevedibili sulla parola. L’interpretazione di efferente come ‘ricettivo’, pertanto, è calzante, perché rispecchia l’idea di un trasferimento dall’interno di un luogo, fisico o metaforico, verso la persona che si sta concentrando su quel luogo, mentre quella di afferente come ‘in movimento verso qualcosa’ è leggermente imprecisa, perché non tiene conto del tratto semantico ‘portare’, ma tutto sommato adeguata, perché per poter portare qualcosa verso un punto bisogna andare verso quel punto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Buongiorno,

cortesemente siete in grado di aiutarmi a scoprire se esiste un significato per il nome di una ragazza conosciuta giorni fa? Il nome è MAVILLA; secondo la ragazza significa ‘prediletta’.

 

RISPOSTA:

Mavilla è un cognome italiano, piuttosto raro (ma comunque meno raro del nome proprio), presente soprattutto in provincia di Ragusa e in provincia di Parma. Potrebbe rientrare nel gruppo dei cognomi derivanti da toponimi, di varia origine, composti con villa ‘fattoria, tenuta di campagna’ oppure ‘città’ (nei derivati francesi). Ve ne sono con villa nella seconda parte (AltavillaBiancavillaFrancavilla…) o nella prima (VillanovaVillarosaVillasanta…). Per quanto riguarda il costituente Ma-, troppo facile sarebbe l’identificazione con l’aggettivo francese ma ‘mia’, che darebbe a Mavilla il significato complessivo di ‘la mia città’ (ma ville); in alternativa si può pensare che Ma- sia una deformazione di un costituente originariamente più lungo, che, però, non sono in grado di ipotizzare.
Proprio la difficoltà a identificare l’origine del primo costituente (ma anche il fatto che non risultano città, villaggi o contrade con questo nome) fa pensare che Mavilla non sia da accostare ai cognomi/toponimi con base villa, ma sia, bensì, un’altra delle tante varianti di un cognome molto diffuso in tutta Italia, MabiliaMobiliMobiliaMobilio, attestato fin dal Medioevo come nome proprio di donna, nella forma Mobilia (la o al posto della a può essere l’esito di una dissimilazione provocata dalla vocale finale), e plausibilmente evoluzione del nome latino *AMABILIA, legato all’aggettivo AMABILEM ‘amabile, degno di essere amato’ (vicino al significato supposto di ‘prediletta’). Non ho trovato attestazioni di AMABILIA nel mondo romano antico, ma l’esistenza di Mobilia giustifica l’ipotesi che esistesse un antenato AMABILIA, da cui, con una trafila diversa rispetto a quella che ha prodotto Mobilia, si è sviluppato Mavilla.
L’evoluzione da AMABILIA a Mavilla si spiega con una serie di passaggi: la caduta (aferesi) della vocale iniziale, provocata dalla confusione con la vocale finale delle parole precedenti (casi come cara Amabilia, che si pronuncia caramabilia, hanno prodotto alla lunga cara Mabilia); la spirantizzazione della labiale intervocalica (ovvero la trasformazione della [b], quando si trova tra due vocali, in [v]), come in habere > averedebere > doverecaballum > cavallo). La terminazione -lla invece che -lia (come in Mobilia), infine, può essere stata indotta dall’analogia con il suffisso -illa di altri nomi femminili antichi come CommodillaDomitillaPriscilla, forse rafforzata dalla somiglianza con il suffisso -ella, tipico, per varie ragioni, dei nomi femminili (AntonellaGabriella, Gisella…). Anche Mavilia è, comunque, attestato, soprattutto in Veneto.
Per quanto io parteggi per quest’ultima etimologia, riporto anche una terza possibilità, registrata dal dizionario I nomi di persona in Italia, di Alda Rossebastiano e Elena Papa (UTET, 2005): Mavilla potrebbe essere, secondo questa opzione, una variante del nome non latino (dal significato oscuro) Mavilo, legato, tra l’altro, a un martire cristiano del secondo secolo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Nome
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QUESITO:

Da qualche tempo ho scoperto l’esistenza della parola tendostruttura per indicare ciò che io ho sinora denominato con il termine tensostruttura. Mi dareste una mano a definire l’esistenza di eventuali differenze tra le due espressioni? Oppure possono forse essere utilizzate in modo equivalente?

 

RISPOSTA:

Tensostruttura è presente nel dizionario dell’uso GRADIT (a cura di Tullio De Mauro), che data la sua prima attestazione al 1974; tendostruttura, invece, non è registrata. Entrambe le parole, però, risultano oggi usate in ambito industriale, con una precisa distinzione di significato: la tensostruttura, infatti, è un complesso di tessuti e cavi che rimangono in piedi in virtù della tensione (come suggerisce il prefissoide tenso-); la tendostruttura è un tendone temporaneo, che può assumere forme diverse, costruito con uno scheletro di travi su cui viene appoggiato e fissato un telone. Una spiegazione estesa della differenza tra i due tipi di costruzione si può trovare qui: https://www.macotechnology.com/design/tensostrutture-o-tendostrutture-due-universi-differenti/.
Dal punto di vista strettamente linguistico, il rapporto tra le due parole è tutto da indagare; visto che tendostruttura non è ancora registrata nei dizionari, è plausibile che sia stata modellata, in tempo molto recenti, su tensostruttura per designare quella specifica costruzione, simile alla tensostruttura, eppure con caratteristiche proprie. Non a caso, infatti, il prefissoide (ovvero prefisso con un preciso contenuto semantico) tenso- è più produttivo (tensocettoretensocorrosionetensorecettore…) rispetto a tendo-, che ha prodotto, prima di tendostruttura, solamente tendopoli (ovviamente non vanno considerati i tecnicismi medici relativi ai tendini tendosinovialetendosinovite e tendovaginite).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Avrei alcuni dubbi sull’uso della parola stigmatizzare. In particolare volevo chiederle un chiarimento sull’uso di questa parola nella frase riportata di seguito:
 

L’impossibilità  di prevedere l’esito dell’operazione progettuale è paradossalmente stigmatizzata da Eisenman nell’evocazione dell’imprevisto capace di donare un senso.

Si può utilizzare la parola stigmatizzata in riferimento al suo contenuto etimologico di stigma: ‘marcare un carattere distintivo’, invece che intenderne necessariamente il suo significato derivato – sempre da stigma – di ‘criticare, biasimare’?

 

RISPOSTA:

Il problema riguardo al significato del verbo stigmatizzare deriva dalla complessità del concetto espresso dalla parola stigma. Uno stigma non è solamente una caratteristica, ma è il risultato della percezione sociale di quella caratteristica, che distingue fortemente un individuo dalla maggioranza degli altri. Per questo motivo, uno stigma viene sempre imposto dagli altri, e per questo motivo è comunemente inteso come una caratteristica negativa. Il termine stigma, cioè, designa non un difetto in sé, ma un aspetto dell’individuo percepito da chi gli sta intorno come un difetto. Va de sé che spesso lo stigma di un individuo rappresenta non una pecca, ma una virtù, rilevata come pecca dalla società che mal tollera i diversi.
Il verbo stigmatizzare significa ‘attribuire uno stigma’, quindi ‘evidenziare una caratteristica come difetto’: è, quindi, decisamente connotato in senso negativo. Si può certamente contestare il senso che il sostantivo e il verbo da esso derivato hanno assunto, argomentando, per esempio, che è figlio di una società omologante intollerante verso i diversi. Questa, però, è un’operazione che andrebbe fatta esplicitamente, cioè spiegando perché e come si vuole attribuire al verbo stigmatizzare un significato diverso da quello corrente. Al contrario, usare il verbo nel senso di ‘rilevare un carattere, rimarcare’ senza giustificare tale scelta causerebbe certamente un fraintendimento del senso inteso.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Su un testo di Mengaldo trovo l’aggettivo “stupendissimo” e la parola sconcordanza, che sembra proprio cacofonica. Ma è lecito usare questi termini? Grazie

 

RISPOSTA:

Per essere lecito è lecito, per entrambi. Le ragioni foniche (cacofonia) non sono mai un valido motivo per giustificare la possibilità d’uso delle parole, se dal piano del gusto personale (dove ognuno è liberissimo di preferire le parole che crede, sempre che esistano) si passa a quello della grammatica e dell’uso comune. Vediamone dunque altre ragioni, di due tipi: storiche e grammaticali.

1a) Dal punto di visto storico, stupendissimo è attestato, e anche recentemente: quindi è possibile. Del resto, anche l’etimologia lo consente: stupendo vuol dire ‘che suscita stupore’ e, dunque, qualcosa che suscita molto stupore può ben essere definito stupendissimo.

2a) Dal punto di vista della grammatica attuale, in effetti stupendo è avvertito già come una sorta di superlativo di bello e pertanto stupendissimo stride un po’ (come se dicessimo bellissimissimo, questo sì scorretto). Morale: si può usare, ma io lo eviterei, con buona pace di Mengaldo.

1b) Sconcordanza esiste (anche nei vocabolari attuali) ed esisteva, dunque può essere usato.

2b) Grammaticalmente, è ben formato, cioè con la s- privativa. Tuttavia, dato che è molto più frequente discordanza, è una sorta di doppione meno comune. Morale:si può usare, ma io lo eviterei, con buona pace di Mengaldo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Storia della lingua
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QUESITO:

Ho una domanda di tipo semantico: l’avverbio spesso è di tempo e corrisponde a frequentemente. Secondo Voi, è corretto scrivere: “La gente spesso non ha denti”?
Se la frequenza è una fatto temporale, la gente (nome collettivo), non può avere i denti qualche volta sì e qualche volta no.

 

RISPOSTA:

Quella che a lei sembra una stranezza si può spiegare sulla base della comune concezione semplificata del tempo come di un contenitore che si riempie e si svuota. Questa concezione porta alla associazione tra numerosità, quantità della massa e ricorsività: c’è una stretta relazione, cioè, tra il numero di individui che compie un’azione o si trova in uno stato, la grandezza di un fenomeno e la probabilità che l’azione, lo stato o il fenomeno si presentino nel tempo (cioè “riempiano il tempo”). Del resto, l’aggettivo italiano spesso ‘dotato di un certo spessore’ e l’avverbio spesso ‘molte volte’ continuano l’aggettivo latino spissus ‘folto, affollato’; come si vede, quindi, numerosità, massa e ricorsività sono concettualmente prossime, tanto da essere difficilmente distinguibili.
Si aggiunga che l’aggettivo frequente in latino (frequens) e in italiano antico significava anche ‘affollato’ (oltre che ‘solito, frequente’: “Questo sicuro e gaudioso regno, / frequente in gente antica e in novella, / viso e amore avea tutto ad un segno” (Paradiso, XXXI, 25-27). Ancora oggi, in italiano, il verbo frequentare, pur derivando da frequente, mantiene l’ambiguità concettuale di fondo: “Quel locale non lo frequenta nessuno” significa ‘nessuno affolla quel locale’.
Il suo esempio, sulla base di questa concezione comune, rispecchiata implicitamente nella lingua, è sensato: “la gente spesso non ha denti” equivale a “molta gente non ha denti”.
Fabio Ruggiano

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Il nome casa indica al contempo un luogo delimitato e un ambito sociale; per questo motivo, quando è accompagnato da verbi di stato e di moto, può essere costruito con preposizioni diverse, a seconda di quale aspetto vogliamo valorizzare. Con il verbo uscire (ma la doppia costruzione si può trovare, più raramente, con verbi analoghi, come partireallontanarsiscappare), la preposizione da fa pensare al luogo (ed è la scelta più naturale): “‘Vigliacchi! Spudorati! Uscite da casa mia!’, si era messa a urlare” (Giorgio Bassani, Cinque storie ferraresi, 1956, p. 260). La preposizione di indica, invece, l’ambito sociale, come se in questo caso casa indicasse le abitudini, le dinamiche, le relazioni che si intrecciano nel luogo (ed è la scelta più carica di forza idiomatica, o più marcata, se vogliamo): “Sarebbe capace di non uscire più di casa, se si accorgesse che tu vai fuori soltanto per farla muovere” (Giuseppe Berto, Il tempo di uccidere, 1947, p. 197). Si noterà che, in linea con quanto detto, quando casa è costruito con di indica obbligatoriamente la casa del soggetto.
Un altro nome che condivide con casa la doppia costruzione è prigione: si può, infatti, uscire dalla prigione (dal luogo delimitato) o uscire di prigione (dall’ambito sociale).
Per quanto riguarda l’articolo, è vero che la costruzione con la preposizione da ne preferisce, e a volte obbliga, l’uso, mentre quella con di lo impedisce: questo dipende dal fatto che le espressioni con una forte valenza idiomatica tendono a cristallizzarsi e a perdere proprio l’articolo. Anche con da, del resto, l’articolo può essere escluso quando l’espressione è molto comune: “Sono uscito da casa di XXX alle sei” (e si veda anche, nell’esempio riportato sopra, da casa mia).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Preposizione, Verbo
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QUESITO:

Buonasera,

vi scrivo per chiedere informazione riguardo all’espressione molte grazie, che è stata oggetto di un’accesa discussione con un signore che sosteneva fosse errata. Secondo codesto signore l’espressione giusta sarebbe molto grazie. Vi chiedo gentilmente se mi potete chiarire la questione.

 

RISPOSTA:

Grazie è un nome (è il plurale di grazia), e come tutti i nomi concorda con l’aggettivo in genere e numero: molte grazietante grazieinfinite grazie ecc. La parola, però, si usa spesso come interiezione, da sola, con un significato del tutto diverso rispetto al singolare: infatti non posso dire *No, grazia. La specializzazione del plurale in questa funzione induce alcuni parlanti a considerare questa parola come un avverbio (al pari, ad esempio, di bene o male) e, di conseguenza, a pensare che debba essere accompagnata solamente da avverbi. Da qui il *molto grazie (sul modello di molto bene) proposto dal suo interlocutore, in realtà scorretto, ma anche il grazie assai, diffuso in alcune regioni meridionali e accettabile solamente in contesti molto informali.
L’uso di grazie come interiezione, quindi, non ha fatto perdere a questa parola la sua natura di nome; tanto che può ancora essere usata in frasi come “Madonna del Bosco – La Vergine che dispensa le sue grazie da un castagneto” (a proposito di una apparizione mariana in un bosco).
Si noti che l’interiezione grazie è una semplificazione dell’espressione rendere grazie ‘restituire benevolenze’ (dal latino gratias agere, dal significato simile). Quando ringraziamo, quindi, dichiariamo di contraccambiare con la benevolenza il favore ricevuto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei chiederVi, dopo aver letto alcuni articoli in internet che utilizzano questa forma, se è giusto dire “mi hai svoltato la giornata”. Io sarei più propenso ad utilizzare la forma “hai dato una svolta alla mia giornata” ma vedo che in alcuni casi viene utilizzata, quindi mi chiedevo se fosse utilizzabile anche questa forma. 

 

RISPOSTA:

L’uso del verbo svoltare nella frase da lei segnalata è d’ambito gergale, molto comune, almeno nell’Italia centrale, tra i giovani (e meno giovani) da molti anni. In quanto uso gergale, è limitato perlopiù al parlato informale, tra pari, o allo scritto che ne imita le movenze. Sicuramente sarebbe bene evitare simili usi in scritti d’ambito formale o anche nel parlato rivolto a persone che non condividono il medesimo orizzonte socioculturale. L’alternativa  da lei proposta andrebbe benissimo per usi più formali, ma risulterebbe artefatta in un dialogo (o in una chat, per fare un esempio di scrittura informale) tra pari che condividano il medesimo gergo. Svoltare, in gergo, può essere utilizzato sia intransitivamente (ho svoltato, cioè ‘ho riportato un successo’: “Ho svoltato col lavoro”; “Quella ragazza m’ha dato il suo numero di telefono: ho proprio svoltato!”), sia transitivamente, come appunto in “M’hai svoltato la giornata”, cioè ‘hai determinato un esito molto positivo, magari insperato, nella mia giornata’, o ‘hai risolto un problema’ e simili. Naturalmente, può essere usato anche ironicamente, cioè per esprimere l’esatto contrario. Se avessi un incidente d’auto, potrei esprimere il mio disappunto esclamando: “Oggi ho proprio svoltato”, o “Ho svoltato la giornata”, o, rivolgendomi non proprio euforicamente a chi mi ha tamponato: “M’hai svoltato la giornata!”.
In una prospettiva stilistica, può essere utile conoscere l’uso di queste espressioni gergali, per esempio se si sta scrivendo un romanzo d’ambiente giovanile e si vogliono creare dialoghi agili e credibili tra i personaggi.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Ho un dubbio sulla locuzione “tutt’e due”.
Cioè, se ho capito bene, se scrivo “tutt’e due gli amici”, il valore è di aggettivo= tutt’e due (aggettivo); se invece scrivo “tutt’e due”senza nessun sostantivo accanto, la locuzione ha valore pronominale.
E’ così?

 

RISPOSTA:

Sì, quanto Lei scrive è corretto. Tutti e due è una locuzione del tutto sinonimica all’aggettivo pronominale  numerale entrambi. Come entrambi, dunque, se non è seguito da un sostantivo, ha valore pronominale. Lo stesso dicasi per tutti i numerali (aggettivi se seguiti da un sostantivo, pronomi se da soli), preceduti o no dall’avverbio tutto, nella locuzione tutti e…tutti e tretutti e quattro ecc.

Fabio Rossi

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QUESITO:

È possibile definire sinonimi gli aggettivi manicheo e divisivo?

 

RISPOSTA:

I due aggettivi hanno significati piuttosto distanti e pertanto non possono essere considerati sinonimi. Manicheo (o manicheista) si riferisce specificamente alla corrente religiosa e di pensiero del manicheismo, e solo con una generalizzazione può definire una persona o un modo di pensare che considera la realtà divisa tra due principi opposti e di uguale peso, tra cui non ci può essere accordo né compromesso.
Divisivo ha un significato molto più ampio: può essere sinonimo di divisorio (linea divisivamuro divisivo) o, più comunemente, designare una persona, un comportamento, un evento su cui ci sono interpretazioni diverse e contrastanti. Un esempio d’uso dei due aggettivi nello stesso contesto potrà chiarire la loro distanza semantica:

«Sì, ma la lotta del bene contro il male non può che avere un esito: la vittoria del bene […]». Crocetta ha la capacità di fare un simile proclama manicheo senza ridere. […]
Si capisce perché sia così divisivo, eroe per alcuni […]; bluff assoluto per altri (Goffredo Buccini, Governatori, Venezia, Marsilio, 2015).

Come si vede, manicheo è usato per definire una dichiarazione che parla di scontro insanabile tra bene e male, mentre divisivo ha a che fare con i giudizi contrastanti su un personaggio pubblico.
Pur nella considerazione che la sinonimia non è mai perfetta, aggettivi più vicini ad essere sinonimi di manicheo sono assolutisticocategoricointransigente; al contrario, divisivo, nell’accezione legata all’esempio riportato, si avvicina a controversodibattuto e, meno precisamente (perché contiene una sfumatura più negativa), discutibile.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Negli ultimi test di medicina 2017 è stato posto il seguente quesito: Quali, tra i termini proposti, completano correttamente la seguente proporzione verbale? Esteriore estremo = X : Y. 
La risposta esatta del miur è “X = superiore Y = sommo” Ritengo tuttavia che la risposta “X = alto Y = supremo” è parimenti valida.
Chiedo parere linguistico.
Grazie

 

RISPOSTA:

La sua ipotesi non è corretta: esteriore e estremo sono rispettivamente il comparativo e il superlativo di estero ; allo stesso modo, superiore e supremo (e anche sommo) sono il comparativo e il superlativo di un aggettivo poco usato e letterario: supero (che significa ‘posto in alto’). La proporzione verbale, pertanto, è esteriore: estremo =superiore: supremo (o sommo). L’aggettivo alto, evidentemente, è escluso dalla proporzione, essendo di grado positivo (lo stesso di estero e supero)

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

Si può scrivere in un tema la seguente frase: trucco e parrucco?

 

RISPOSTA:

L’espressione trucco e parrucco è un idiotismo, cioè una costruzione caratteristica di una lingua (dal greco idiotes ‘particolare, specifico’), intraducibile e difficilmente sostituibile con una perifrasi analoga. Gli idiotismi, anche detti espressioni idiomatiche, determinano sempre un abbassamento del tono del discorso, soprattutto se, come in questo caso, contengono parole storpiate al fine di creare un effetto fonico (come, per fare un altro esempio, in il troppo stroppia). L’adeguatezza di simili espressioni va valutata alla luce delle variabili testuali: chi sono l’emittente e il ricevente del testo, e in che rapporto sociale sono tra loro, in quale ambiente è inserito il testo (familiare, scolastico, universitario, lavorativo…), qual è il suo scopo, è scritto (quindi tendenzialmente più formale) o parlato (tendenzialmente più permeabile agli abbassamenti di tono)?
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua e società, Registri
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QUESITO:

Buongiorno, volevo sapere se infausto e infernale possono essere considerati sinonimi.

 

RISPOSTA:

Il significato dei due aggettivi è decisamente diverso, anche se la coincidenza delle prime lettere, e anche la comune accezione negativa, può far pensare il contrario. Infausto è l’opposto di fausto (collegato al verbo favēre ‘favorire’), e significa ‘malaugurato, che presagisce eventi negativi’. Torquato Tasso, nel canto XII della Gerusalemme liberata, così descrive l’armatura di Clorinda: “Depon Clorinda le sue spoglie inteste / d’argento e l’elmo adorno e l’arme altere, / e senza piuma o fregio altre ne veste / (infausto annunzio!) ruginose e nere”. Tasso, cioè, suggerisce che i colori rosso (rugginoso) e nero delle armi presagiscano il sangue e la morte a cui il pesonaggio sta andando inconsapevolemente incontro. Da qui, il significato dell’aggettivo si è evoluto verso quello più generico di ‘sfortunato’; come in questo esempio, dal romanzo del 2003 Vita di Melania G. Mazzucco (p. 252): “Sua madre gli aveva raccontato spesso l’ultima incursione – che aveva reso infausto il 1860. I corsari erano sbarcati sulla spiaggia di Scauri e da lì saliti a depredare Minturno e i suoi villaggi, ammazzando uomini e bambini fin nei vicoli di Tufo”. 
Infernale è l’aggettivo di relazione di inferno (dal latino infer ‘che sta in basso’). Indica, cioè, qualcosa che ‘ha a che fare con l’inferno’. Da questo significato si è sviluppato quello di ‘malvagio, diabolico’ e poi quello, iperbolico, di ‘terribile, tremendo, insopportabile’ e anche ‘faticosissimo’. Addirittura, nel caso di ritmo infernale, l’aggettivo prende il significato di ‘sfrenato, convulso’.
Fabio Ruggiano

 

 

 

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

A sentimento (“fare qualcosa a sentimento”, cioè ‘così come ci viene, a caso’) è un’espressione italiana o tipica siciliana?

 

RISPOSTA:

L’espressione a mio sentimento è ben attestata nell’italiano, anche se caduta in disuso. Ad esempio nel Dizionario dei sinonimi della lingua italiana di Niccolò Tommaseo (edizione Vallardi del 1867), alla voce Opinione si legge:

Nelle faccende dove non si conoscono a fondo le ragioni e gli effetti delle cose, e non si possono esporre o non si vogliono, si dà il sentimento proprio, non il giudizio. A mio sentimento, è più modesto a dire che: a mio giudizio. Ognuno, in certe occasioni, può dire il suo sentimento. Non tutti hanno diritto di dare giudizio.

A sentimento potrebbe essere un’evoluzione di quella espressione, con lo slittamento semantico da ‘secondo me, per come la vedo io’ a ‘secondo il sentimento (e non secondo la ragione), istintivamente’. Nella formazione dell’espressione hanno senz’altro influito sintagmi avverbiali molto diffusi come a casoa vanvera e simili, che possono avere significati affini.
Per quanto riguarda la diffusione quantitativa, un piccolo sondaggio nell’archivio del quotidiano “Repubblica.it” rivela appena due attestazioni dell’espressione negli ultimi 10 anni, a dimostrazione della sua connotazione prettamente parlata, poco accettata nello scritto. Per di più, in entrambe le attestazioni l’espressione è tra virgolette, a rimarcarne l’eccezionalità. Ecco le attestazioni:

“In Italia – osserva Le Pera – secondo le stime di UnionCamere ogni anno almeno 218mila giovani fanno uno stage, settore pubblico escluso. E nel 2006 un’azienda italiana su 10 ha offerto la possibilità di stage e tirocini. Eppure spesso le imprese danno informazioni di base un po’ vaghe, e l’aspirante stagista si trova a scegliere un po’ ‘a sentimento'”(30 maggio 2008).

Inoltre, come da tradizione di famiglia, non mancheranno le tartine fatte con pancarrè, caviale, maionese, burro, cetrioli, funghetti, carciofini e capperi. Il primo e il secondo “a sentimento”, in base al cuoco di turno (21 dicembre 2011).

Sempre grazie ad Internet, scopriamo che Andrea Le Pera, colui che parla nel primo articolo riportato, è un giornalista milanese, mentre Francesca Gugliotta, autrice del secondo articolo, è di Castelvetrano, in provincia di Trapani. Sembra, dunque, di poter concludere (ma l’esiguità dei dati suggerisce di essere cauti) che l’espressione sia diffusa da Nord a Sud, ma sia attualmente accettata solamente nel parlato e nello scritto brillante.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

La parola riluttante ha come significato esitante, refrattario. Il significato della parola può essere esteso ad inaffidabile Es: è una persona riluttante inteso come una persona poco chiara, di cui non ci si può fidare ciecamente, una persona che non mi convince…

 

RISPOSTA:

Alla base della riluttanza c’è il concetto della lotta (deriva, infatti, dal latino luttare), della resistenza a fare qualcosa, anche a comprendere qualcosa, a collaborare. Ripercorrendone gli usi letterari, spesso a riluttante è assegnato proprio il significato di chi non vuole collaborare, non vuole essere d’accordo, non vuole ascoltare le opinioni e le ragioni altrui, ecc. Il contesto, come sempre, è dirimente: si può essere riluttanti (cioè non voler collaborare) alla chiarezza, cioè volersi ostinare ad essere oscuri, ambigui. Ambiguo, per l’appunto: visto che l’italiano ha un bel termine preciso per esprimere il concetto di cui lei sta parlando (una persona poco chiara, che non mi convince), perché non usarlo? Se il lessico italiano fornisce la parola che esprime esattamente quello che vogliamo esprimere, usiamola, senza ricorrere a complicate metafore, metonimie, sinestesie, ipallagi ecc., e senza far troppo affidamento sulle capacità di comprensione dei nostri interlocutori. I quali, se confusi da termini poco chiari, possono ben essere… riluttanti alla comprensione!

Fabio Rossi

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Per indicare una situazione particolarmente affollata si dice “c’è gente a flotte” o “…a frotte?” C’è una connessione con la flotta navale?

 

RISPOSTA:

I termini flotta e frotta hanno significati diversi: il primo indica un insieme di navi, militari, mercantili o da trasporto, e, più recentemente, anche un insieme di aerei: “Alitalia vanta una delle flotte più moderne ed efficienti al mondo” dichiara il sito ufficiale della compagnia. Il secondo designa un gruppo di persone, o, estensivamente, di animali, soprattutto numeroso e disordinato (e si usa nell’espressione a frotte ‘in gran numero’).
Di là dalla differenza di significato, flotta e frotta sono geneticamente imparentati, perché hanno una base comune, il francese flotte. A sua volta, la parola francese è di derivazione latina: ha a che fare con il verbo fluo ‘scorrere’ e con il nome fluctum ‘onda, corrente’. Flotte è entrato in italiano come frotta, con il significato di ‘gran numero’, già nel Trecento (frotta è, quindi, più antico di flotta): per fare qualche esempio, Giovanni Boccaccio, nel Ninfale fiesolano, parla di “frotta delle ninfe” e Fazio degli Uberti, nel Dittamondo, scrive “Quegli uccelli, che volavano, a frotte / sentito avresti cadere tra’ piedi”.
La trasformazione della l di flotte nella r di frotta è dovuta al fenomeno della dissimilazione: in italiano ci sono poche parole che iniziano per fl-, perché fino all’XI secolo il nesso fl- era trasformato sistematicamente in fi- (florem > fiorefabulam > *flaba > fiaba, persino lo stesso fluctum > fiotto). Le parole che hanno fl- sono latinismi o prestiti più moderni da altre lingue, fluttoflorealeflagranza ecc. Nel Trecento, quindi, flotta doveva sembrare sbagliato (si poteva pensare che la l fosse stata inserita per sbaglio per influenza dell’articolo nella sequenza la flotta) e per questo i parlanti alla lunga l’hanno modificato in frotta. Del resto, come testimonia il suo dubbio, si fa presto a confondere flotta e frotta.
Flotta è entrato di nuovo in italiano nel Cinquecento, indipendentemente da frotta, per definire un insieme di navi: Giovan Battista Ramusio scrive, a metà Cinquecento, in un’opera che è tutto un programma, Navigazioni portoghesi verso le Indie orientali: “alli 28 del detto mese partimmo de lì tutta la flotta con vento calma”. Da allora non ha mai smesso di riferirsi alle navi, che vanno per mare o per aria.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Non tutti i dizionari danno una definizione dei termini croccantino e crocchetta come ‘mangime per cani/gatti’: perché? e quale dei due è più corretto?

 

RISPOSTA:

I due nomi condividono l’origine, che è il verbo francese croquer ‘scricchiolare’ (ma in italiano esiste anche il verbo croccare) e sono stati coniati in ambito gastronomico. Fin dal Settecento, il croccante è un dolce di mandorle e zucchero caramellato, mentre ottocentesca è la polpetta di patate o carne impanata e fritta nota come crocchetta. Va detto che la crocchetta non è affatto croccante, ma deriva il suo nome probabilmente dalla forma di un biscotto, chiamato crochetto (quello sì croccante), che esisteva già nel Settecento.
Croccantino, diminutivo di croccante, è recentissimo, addirittura degli anni Duemila (il dizionario Treccani lo ha inserito solamente nel 2016), e designa esattamente il cibo secco per gli animali domestici, oltre che, marginalmente, il gusto di gelato o altro dolce ispirato al croccante.
Entrambi i nomi sono ben formati; dal punto di vista semantico, croccantino è del tutto legittimo (sebbene di recente coniazione), mentre l’uso di crocchetta è curioso, visto che le crocchette tradizionali non richiamano affatto, per forma e consistenza, il cibo secco per gli animali. Si aggiunga che il GRADIT registra sotto il lemma crocchetta solamente quello tradizionale di ‘polpetta’. Per quanto curioso, però, non si può dire scorretto: l’evoluzione della lingua segue spesso dei percorsi non riconducibili solamente alla logica razionale; e nemmeno poco comune: una rapida ricerca in Internet con il motore di ricerca google restituisce molti più risultati per “crocchette per cani e gatti” che per “croccantini per cani e gatti”. I parlanti, quindi, nonostante la poca somiglianza tra le crocchette e il cibo secco per gli animali, sembrano preferire crocchette a croccantini per definire questo alimento. La preferenza dei parlanti è un argomento decisivo per ritenere legittimo anche crocchetta, accanto a croccantino.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Buongiorno, vorrei sapere, per cortesia, se ho scritto bene la seguente frase (ho seri problemi con i verbi, pur conoscendoli a volte trovo serie difficolta ad applicarli): “Ti scrivo per chiederti se hai ricevuto l’isee corretto e se ci sono i presupposti per agire via legale chiedendo il gratuito patrocinio”.

 

RISPOSTA:

Cara Marcella, nella sua frase i verbi sono usati correttamente; l’unico appunto che muoverei è su “agire via legale”, che sembra un burocratismo fuori luogo: meglio sarebbe “agire per vie legali”.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua della burocrazia, Verbo
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QUESITO:

Si può irruento/irruenta o solo irruente? Considerando la derivazione della parola da un participio latino e non da un aggettivo, le due forme hanno pari dignità usate nei vari registri della lingua o, magari in determinati contesti, è più corretta la seconda?

 

RISPOSTA:

Le due forme sono perfettamente equivalenti, e dunque entrambe corrette e adatte a tutti i contesti e in tutti i registri. Come giustamente osserva Lei, irruente è più vicina all’etimo latino (participio presente del verbo irruere), mentre irruento ha subito il consueto trattamento della maggioranza degli aggettivi italiani. Irruento è più comune, tanto da essere messa a lemma del Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro, laddove irruente è considerata una variante. Se proprio volessimo fare una sottile distinzione, diciamo che irruente piace di più alle persone più tradizionaliste e convinte che una lingua vada valutata solo razionalisticamente (cioè in base a rigide considerazioni etimologiche). A queste persone, ricordiamo tuttavia che ogni lingua è mutevole nel tempo, nello spazio ecc. e che, se così non fosse, parleremmo ancora latino (o, addirittura, protoindoeuropeo, o, per chi ci crede, la lingua di Adamo)!

Fabio Rossi

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QUESITO:

Il termine ponderato ha come sinonimo oculatoequilibrato: è possibile sostituire in una frase il termine ponderato con il termine parsimonioso (che ha come sinonimi oculato ed equibrato). I due termini (ponderato parsimonioso) possono essere considerati sinonimi o almeno sostuibili in un contesto (per dire oculato, equilibrato, dosato)?

 

RISPOSTA:

Ponderato ha a che fare con la capacità di prendere decisioni in modo equilibrato e in seguito a riflessione, non in modo impulsivo (deriva dal verbo latino pondo ‘soppesare, valutare’). Parsimonioso, invece, indica una persona oculata nello spendere o nell’amministrare i propri beni (deriva dal verbo latino parco ‘risparmiare’). A volte parsimonioso è usato in modo ironico o eufemistico per indicare una persona avara.
Possiamo dire che ponderato sia un iperonimo di parsimonioso, perché ne contiene il significato, oppure, che è lo stesso, che parsimonioso sia un iponimo di ponderato. Ponderato, quindi, può sostituire parsimonioso, ma necessita di una specificazione: “Paolo è una persona parsimoniosa” equivale a “Paolo è una persona ponderata nello spendere”; al contrario, parsimonioso può sostituire ponderato solamente con riferimento alle spese o all’amministrazione dei propri beni.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Buon giorno, volevo sapere se i termini ponderare centellinare possono essere considerati sinonimi o almeno sostituibili in un contesto (entrambi hanno come sinonimo misuraresoppesaredosare). Nel caso di dosare o misurare una quantità i termini, centellinare ponderare possono sostituirsi?
Ad esempio, posso sostituire il termine ponderare con centellinare nella seguente frase: “Pondera (inteso come giusta misura) bene la quantità di liquido che metti nel bicchiere”/”Centellina bene la quantità di liquido che metti nel bicchiere”? 
Il vocabolario dà come significato di centellinare anche ‘dosare con parsimonia’. 

 

RISPOSTA:

I due verbi in questione hanno un significato molto diverso: ponderare significa ‘valutare con calma tutti gli aspetti di un problema per prendere una decisione al riguardo’, mentre centellinare vuol dire ‘bere a piccoli sorsi’ (un centellino è, appunto, un piccolo sorso), oppure, metaforicamente, ‘distribuire oggetti lentamente al fine di prolungare il piacere, o il valore, proprio degli stessi oggetti’ (si possono centellinare le energie, le informazioni, le parole).
Difficilmente, pertanto, i due verbi possono essere scambiati; per esempio, “Paolo di solito pondera le sue parole” significa che Paolo riflette bene prima di parlare, per non urtare la sensibilità di chi ascolta, mentre “Paolo di solito centellina le sue parole” vuol dire che Paolo ama creare suspense quando parla, per tenere vivo l’interesse di chi lo ascolta.
Nel suo esempio, infatti, ​le due varianti sono possibili, ma hanno significati diversi: “Pondera la quantità” vuol dire ‘rifletti bene sulla quantità’, mentre “Centellina la quantità” significa ‘metti goccia a goccia la quantità”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Buon giorno, vorrei sapere se sproloquio può significare ‘pettegolezzo senza malignità’. Ad es. ‘parlare continuamente degli affari degli altri senza usare malignità’ può essere una forma di sproloquio?

 

RISPOSTA:

Il nome sproloquio può essere usato per definire l’azione del ‘parlare continuamente degli affari degli altri senza usare malignità’ solo se si vuole sottintendere una sfumatura di inconcludenza, confusione, scarso dominio dell’argomento di cui si parla. Per ottenere il significato cercato suggerisco di usare, invece di sproloquiochiacchiera, oppure cianciaciarlacicalata cicaleccio (e i relativi verbi chiacchierarecianciareciarlarecicalare).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Sparlare sproloquiare possono essere considerati sinonimi relativi, almeno sostituibili in un contesto? Dalla ricerca che ho effettuato sul dizionario de Mauro risulta che sparlare ha 2 significati, 1 Parlare con malignità, 2 parlare a sproposito inopportunamente. Per sproloquiare ho trovato come significato sul Treccani ‘parlare a sproposito’. Italwordnet, database semantico, li definisce sinonimi. Secondo voi ci può essere una sinonimia tra questi due termini?

 

RISPOSTA:

In generale, le lingue non amano i sinonimi, perché sono uno spreco di materiale. Per questo, le parole che ci sembrano avere lo stesso significato si sovrappongono solo parzialmente, oppure hanno ambiti d’uso diversi (come comprare, comune, e acquistare, tecnico). Nel caso di sparlare e sproloquiare, i due verbi hanno un significato vicino, ma che rimane distinto. Sparlare significa, secondo il GRADIT (Grande dizionario italiano dell’uso, diretto da Tullio De Mauro), quasi esclusiavamente ‘parlare con maldicenza’, come suggerisce il prefisso s-, che indica in questo caso lo stravolgimento in negativo, la degenerazione, del significato della base. Il prefisso s- di sproloquiare non ha lo stesso significato di quello di sparlare, ma indica la ripetizione dell’azione espressa dal verbo (come in sbatteresfarfalliospennellare…): chi sproloquia, insomma, ripete l’introduzione (proloquium in latino è proprio l’introduzione al discorso) senza arrivare mai a trattare il cuore dell’argomento.
La sfumatura di malevolenza insita nel verbo sparlare, quindi, non appartiene a sproloquiare, che riguarda un modo di fare confuso e prolisso, a volte da fanfaroni, ma non malevolo.
Anche nel significato secondario di sparlare, ‘parlare a sproposito’, si mantiene una certa sfumatura di inopportunità, estranea a sproloquiare (e si consideri anche che il GRADIT classifica questa accezione di sparlare come BU, cioè ‘basso uso’).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

E’ corretto scrivere “Capo Organo” oppure “Capoorgano”? E’ corretto scrivere “Capo Segreteria” oppure “Caposegreteria”? In attesa di una cortese risposta, porgo i più cordiali saluti.

 

RISPOSTA:

Le parole composte, cioè formate da due parole (nomi, aggettivi, verbi, raramente preposizioni e avverbi), come attaccapannicapostazioneterremoto, possono essere scritte senza interruzione, unite dal trattino o separate. La distinzione tra la scrittura congiunta e quella con trattino non è sempre netta. I composti con verbi sono normalmente univerbati (lavapiattiandirivieniviavai); quelli con aggettivi si fondono facilmente (agrodolcebiancospinoverderame); quelli che coinvolgono nomi rimangono spesso separati (tranne quelli formati con verbo + nome), meno spesso prendono il trattino.
Con il tempo, il composto può perdere trasparenza e finire per essere considerato una parola unica. Tale processo può essere lungo, tanto che due versioni, con e senza trattino, o anche separate e univerbate, spesso convivono per molto tempo. Si può arrivare ai casi estremi (rari) di parole di cui esistono le tre versioni grafiche, ad esempio piccolo borghese,piccolo-borghese e piccoloborghese. Il processo può anche essere frenato da ragioni peculiari delle singole parole, come in diritto-doverefranco-austriacoitalo-tedesco, nelle quali opera la necessità di mantenere i due costituenti autonomi.
Insomma, sulla grafia delle parole composte influiscono fattori diversi, legati alla norma ma soprattutto all’uso.
Le parole composte con il costituente capo e indicanti qualifiche professionali sono in continuo aumento, sulla falsariga dell’evoluzione del mondo del lavoro. Capo organo capo segreteria non sono registrate nei dizionari, ma la ricerca on line permette di rilevarne l’uso corrente: capo organo appare quasi sempre nella grafia separata, come era prevedibile, vista la recente formazione, l’uso ristretto e la difficoltà dell’incontro delle due o; capo segreteria, leggermente più acclimata, accoglie anche la grafia caposegreteria. Non sembrano diffuse (ma sono possibili) le varianti capo-organo e capo-segreteria.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In Liguria si usa la parola “Rebecca” per indicare il cardigan. Sapete dirmi qual è l’origine di questa parola, che non credo faccia parte dell’italiano standard? Grazie

 

RISPOSTA:

Il termine rebecca ‘cardigan’, pur comune, non figura, in effetti, nei principali dizionari storici del ligure e del genovese, segno, evidentemente, della relativa modernità del termine, o della sua almeno parziale gergalità. Possiamo, dunque, soltanto formulare delle ipotesi etimologiche. Almeno tre.
1) Dallo spagnolo rebeca, dal nome del personaggio dell’omonimo film di Hitchcock (Rebecca, 1940), che indossava quel capo d’abbigliamento.
2) Dall’etimo ebraico (controverso) del nome proprio Rebecca, che equivale, più o meno, a ‘legame’. E dunque, per transizione, capo d’abbigliamento che si lega, cioè allaccia.
3) Dal francese se rebiquer ‘arricciarsi, rivoltarsi all’insù’, anche riferito a collo di capi di abbigliamento.
Come spesso accade, non è possibile optare con assoluta certezza per l’uno o per l’altro etimo, in assenza di testimonianze dirette e attendibili.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Come si dice: comprare una cassa d’acqua o confezione di bottiglie d’acqua?

 

RISPOSTA:

Le due espressioni sono perfettamente equivalenti e vanno bene per tutte le situazioni comunicative. Sicuramente la seconda (“confezione di bottiglie d’acqua”) è più formale (ma anche, direi, eccessivamente pomposa e un po’ burocratica), ma la prima (“cassa d’acqua”) è del tutto corretta e adatta anche agli usi formali. Immagino che il motivo della sua richiesta sia dovuto alla supposizione che la prima espressione (“cassa d’acqua”) possa sembrare a taluni eccessivamente generica, imprecisa e informale, per via del fatto che, materialmente, l’acqua non è disposta in una vera e propria cassa, bensì in bottiglie tenute insieme da un foglio di plastica. Ebbene, tale critica è insussistente, dal momento che la lingua (qualunque lingua, non soltanto quella italiana) non funziona secondo una logica astratta e il rispetto pedissequo dell’etimologia e del significato letterale delle parole, ma in base a usi e funzioni concrete e consolidate. Pertanto, in virtù degli usi figurati (metonimia), così come possiamo dire “ho bevuto un bicchiere di Pinot”, piuttosto che “ho bevuto una certa quantità di vino di tipo Pinot contenuta in un bicchiere”, altrettanto felicemente possiamo dire “cassa d’acqua”, intendendo, per metonimia, con cassa ‘contenuto di una cassa o di contenitore analogo, di forma più o meno di parallelepipedo’, e con acqua, sempre per metonimia, ‘bottiglia contenente dell’acqua’. Se vuole saperne di più sulla metonimia, legga questo quesito.

Purtroppo molti parlanti e scriventi pretendono di guardare alla lingua secondo astratti meccanismi razionalistici, come se le lingue non mutassero nelle forme e nei contenuti in base al tempo, allo spazio, e alle situazioni comunicative. Ma, se così fosse, ancora parleremmo latino, o addirittura la lingua di Adamo!

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica
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QUESITO:

Salve, mi piacerebbe sapere l’origine della parola “baitta” spesso utilizzata
dai giovani messinesi per identificare una ragazzina altezzosa, troppo sicura
di sé. Purtroppo, facendo una semplice ricerca su internet, non ho trovato
alcuna informazione.

 

RISPOSTA:

Come giustamente dice Lei, il termine (baittu/a, diminutivo di baiu) è praticamente assente da tutte le fonti lessicografiche, italiane e dialettali, a stampa e online. Tranne una: l’ottimo, encomiabile Lessico Etimologico Italiano (LEI) curato dal linguistica tedesco Max Pfister ed edito, a partire dal 1979 e tuttora in corso di stampa, presso l’editore Ludwig Reichert di Wiesbaden. Da questo imprescindibile strumento scientifico, si ricava quanto segue: l’etimo di questa e di moltissime altre forme (da baio a baiocco) è il latino badius/baius dal significato originario di ‘rosso’. Da quest’etimo hanno preso vita migliaia di forme e significati in tutti i dialetti italiani, a indicare animali, vegetali, persone, monete, oggetti vari ecc. Tra i moltissimi lemmi associabili a badius, si ricava il siciliano baiu, che può significare varie cose, da ‘ragazzetto’ a ‘domestico’. È chiaro che il suo baittubaitta è un diminutivo di questa forma. La trafila semantica (metaforica) che può aver condotto da ‘rosso’ a ‘ragazzo’ può essere duplice: 1) baio > cavallo > mulo > soldato, lavoratore, garzone ragazzo ecc.; 2) rosso > carne poco cotta > cosa o persona incerta, che vale poco ecc. (vi sono, nei vari dialetti, esempi molteplici di questi riferimenti alle persone e alle situazioni, da ‘tempo incerto e variabile’ a ‘persona da poco’, da ‘uomo poco virile’ a ‘persona giovane’  ecc.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Il mio dubbio riguarda l’avverbio sempre. Essendo un avverbio indefinito, quando lo troviamo nelle frasi al futuro, come facciamo a capire se si tratta di una continuità ininterrotta ”con termine di tempo” o ”senza termine di tempo”? Per esempio: “La Terra girerà sempre”, “Ti amerò sempre”…

 

RISPOSTA:

Quando accompagna un verbo al futuro, sempre assume un valore non pienamente temporale, quale invece gli è proprio con verbi al presente e al passato. Con verbi al futuro, sempre ha una sfumatura concessiva (indica che l’azione o la circostanza continuerà a realizzarsi a dispetto di qualunque avversità) , mentre un valore pienamente temporale è assunto da per sempre. Prendiamo, per chiarire questa differenza, una frase come “I genitori perdoneranno sempre gli sbagli dei figli”; difficilmente sarebbe costruita come “I genitori perdoneranno per sempre gli sbagli dei figli”, perché il senso è che qualunque cosa succeda, l’azione continuerà a realizzarsi (e la dimensione temporale è secondaria). È vero che i due avverbi possono avvicinarsi molto nel significato, come nella frase “Rimarrò sempre con te”/”Rimarrò con te per sempre”; anche in questo caso, comunque, si nota la sfumatura più concessiva (quasi a dire nonostante tutto ) di sempre e quella più temporale di per sempre.

Un confronto interlinguistico con l’inglese ci consente di vedere più chiaramente la differenza tra sempre e per sempre: il primo, infatti, corrisponde a always, il secondo a forever; due avverbi del tutto diversi, quindi.

Come ho detto all’inizio, però, sempre ha un valore più chiaramente temporale con verbi al passato (“Sono sempre stato contrario alla caccia”) e al presente (“Chiamo sempre lo stesso idraulico, perché di lui mi fido”). In questo tipo di frasi, per sempre non è accettabile.

Venendo, infine, alla sua domanda, per quanto ne sappiamo, nel mondo fisico tutto ha fine, quindi l’uso dell’avverbio (per) sempre accanto ad un verbo al futuro indica non la reale eternità dell’azione o della circostanza, ma la sua prosecuzione fino al suo termine naturale, che non è noto. In altre parole, la durata dell’azione o della circostanza è intesa non come eterna, ma come indeterminatamente duratura.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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QUESITO:

Occhiali da/di riposo?

Spesso sento molte persone dire “occhiali di riposo”, ma esiste come parola in
italiano?? E soprattutto si dice “occhiali di riposo”, “occhiali da riposo” o
“occhiali riposanti”?
 
 
RISPOSTA:

Sì, esiste, e si dice “occhiali da riposo”, vale a dire, da indossare per far riposare gli occhi, o almeno per non farli affaticare troppo nello sforzo della messa a fuoco. La preposizione “da”, in questo caso, esprime una sorta di complemento di fine o di proposizione finale: “per riposarsi” e simili, similmente a quanto accade in altre locuzioni come “da asporto”, “da passeggio”, “da viaggio”, “da sera” (pizza da asportoabito da sera…) ecc. In genere (ma non è una regola fissa), le locuzioni introdotte da  “di” non indicano tanto il fine quanto la situazione, il luogo ecc., per es. “casa di riposo” (eufemismo per ‘centro per anziani’, ovvero: casa nella quale ci si riposa, o meglio ci si ritira’). “Occhiali riposanti” non sarebbe scorretto, in teoria, visto che esprime lo stesso concetto di “occhiali da riposo”, però non è utilizzato, a differenza di “occhiali da riposo” che è diventato un’espressione comune e anche commerciale (gli ottici che vendono occhiali la usano quasi fosse un’espressione tecnica e insostituibile).  La lingua (non soltanto l’italiana, ma ogni lingua del mondo) non è fatta soltanto di regole grammaticali, ma anche di consuetudini che tendono a stabilizzarsi, dando vita a frasi fatte, dette tecnicamente collocazioni. “Occhiali da riposo” è, per l’appunto, una collocazione, e come tale è difficilmente sostituibile.

Fabio Rossi

Parole chiave: Preposizione
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QUESITO:

Alcuni dizionari dicono ”sempre: indica continuità”. Il treccani, invece,
dice ”continuità ininterrotta”. Che differenza c’è tra continuità e
continuità ininterrotta?

 

RISPOSTA:

In effetti è una minuzia. Però, a rigore, anche l’avverbio abitualmente, oppure sistematicamente, ecc. indicano continuità. Tuttavia sempre esclude, o tende ad escludere, che tale continuità abbia interruzioni. Per es.: “Da dieci anni, tra le due e le tre schiaccio abitualmente un pisolino”: vuol dire che potrei anche non farlo, qualche volta. Con sempre, escludo questa eventuale interruzione di continuità.

Fabio Rossi

Parole chiave: Avverbio
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QUESITO:

Hello Dico, my neighbour in Toscana, an old lady, taught me the following proverb:

Per santo me cresce giorni quant’ il gallo alza il pied
Per Natale quant’ il gallo alza l’ali

I have tried to write what she said, she doesn’t write herself, but I am sure I have mistakes.

I understand that ‘per santo me’ refers to the saints day, 21 December when daylight begins to increase, but I do not understand the reference to ‘il gallo’.

Another version I found is as follows:
S’allunga di quanto  gallo lia lunghe l’ali.
What does ‘lia’ mean?

I would be most grateful if you would help me to understand this country proverb.

 

RISPOSTA:

I don’t know the proverb, but I am sure that, in your second version, “lia” is a mistake for “lla” or “li ha”, that means: “he has”.
Toscan dialect must express the subject, in pronominal form, even when it appears as a noun. Very similar to English language. So the translation is something like: “the cock it has long wings. “Li” or “ll” stands for “egli” that means “he”; “a” stands for “ha” has. Lia > lla or li a = li ha, egli ha ‘he has’.
From a quick check in the web, I found different proverbs in many Italian dialects, that mean: “from the 21 December (or about) the daylight start to get longer and longer”. The most similar to your proverb is “Per San Tommé il giorno allunga quanto il gallo alza il pié”: for Saint Thomas the day becomes longer as much as the cock rises its feet”.
Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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QUESITO:

Possibile/Probabile

I due termini si possono usare indifferentemente, o vi sono differenze di
significato?
 
 
RISPOSTA:

I sinonimi perfetti non esistono, in nessuna lingua. E dunque, anche in questo caso, i due termini sono intercambiabili al 90% ma non al 100%. Probabile (dal lat. probare ‘provare’) è ciò che potrebbe avere argomenti a favore ma è privo di certezza assoluta. Possibile (dal lat. posse ‘potere’) è ciò che può esistere, ma non è detto che esista. Dunque, di un fatto si può dire tanto che sia probabile quanto che sia possibile, mentre per un’opinione è più appropriato probabile di possibile. Inoltre, probabile può essere graduato, mentre possibile tende a rifiutare le gradazioni: “è molto/poco probabile che io perda il treno” (ma non si può dire “è molto/poco possibile”, posso solo dire: “è possibile che io perda il treno”). La differenza tra i due aggettivi risulta più evidente dai loro contrari: improbabile e impossibile (e anche dalle espressioni “non è probabile”, “non è possibile”): il primo rende l’idea dell’eventualità che qualcosa accada oppure no (anche se propende per il no), mentre il secondo esclude assolutamente ogni eventualità che qualcosa possa accadere. Inoltre, possibile può essere usato come rafforzativo in espressioni come: “arriverò il prima possibile”, “il miglior prezzo possibile” ecc. (espressioni inesistenti, anzi impossibili… con probabile). In sostanza, possibile ha una gamma di significati e usi più estesa di quella di probabile.
La consultazione di un buon vocabolario (non dei sinonimi), con l’esame attento di tutti gli esempi riportati per entrambi gli aggettivi (probabile e possibile), fa comprendere meglio, significato per significato, tutte le sottili differenze tra i due termini, che sono più numerose di quelle che io ho cercato qui di riassumere e schematizzare. È molto importante leggere gli esempi dei vocabolari, e non limitarsi alle definizioni, perché spesso la differenza tra parole quasi-sinonime non risulta tanto dalla definizione, quanto dalle frasi e dai contesti d’uso in cui quella parola, ma non un’altra, può essere impiegata.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

Sineddoche o metonimia?

Nei versi “ma misi me per l’alto mare aperto/sol con un legno e con quella
compagna” (Dante, Inferno, Canto XXVI, versi 100-101) legno è metonimia o
sineddoche?
 
 
RISPOSTA:

Metonimia. Anche se tra le due figure retoriche c’è spesso, nelle trattazioni, molta ambiguità, e vengono usate ora come interscambiabili, ora come l’una un sottotipo dell’altra, sarebbe bene limitare il valore di sineddoche a uno scambio di parole sull’asse della contiguità semantica di tipo quantitativo (il tutto per la parte o la parte per il tutto, il singolare per il plurale e viceversa: per es. quando si usa “le mie stanze” per ‘camera mia’, o “l’italiano” per ‘gli italiani’); mentre la metonimia indica sempre uno scambio di parole sull’asse della contiguità semantica, però stavolta di tipo qualitativo: l’autore per l’opera (“ho letto Manzoni” in luogo di ‘ho letto I promessi sposi“), il materiale per l’oggetto prodotto (come nel suo esempio legno per ‘barca’, oppure ferro per ‘spada’) ecc. Tuttavia, dato che anche alcuni usi figurati basati sulla contiguità di tipo qualitativo possono essere considerati dal punto di vista quantitativo (cioè procedendo dal più al meno o viceversa), il suo esempio dantesco può essere correttamente definito anche come sineddoche, dal momento che il materiale (legno) è più generico del prodotto (barca), e dunque questa è una sineddoche dal generale al particolare. Insomma: può classificare il suo esempio tanto come metonimia quanto come sineddoche.
Per tentare di fare chiarezza su questi termini e concetti giustamente complicati (la retorica è molto affascinante, perché non si limita a spiegare gli usi poetici, ma tenta anche di spiegare certi meccanismi cognitivi), le suggerisco le ottime voci (metonimiasineddoche e molte altre di figure retoriche, fenomeni linguistici ecc.) dell’Enciclopedia dell’italianoTreccani, ora accessibile anche gratuitamente online nel sito www.treccani.it

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica
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QUESITO:

L’espressione “apposta” è accettata anche nella versione “a posta”? Ho sempre usato la prima ma mi è capitato di leggere anche la seconda versione. In effetti “apposta” è omografo del part. pass. di apporre, nonostante il contesto faccia capire se si tratti dell’avverbio o del verbo. Insomma, la lingua italiana accetta entrambe le versioni? Grazie

 

RISPOSTA:

Apposta è la variante univerbata, cioè divenuta un’unica parola, dell’espressione originaria a posta. Entrambe le forme sono oggi accettate, sebbene quella univerbata sia più comune e quella composta abbia, di conseguenza, assunto una sfumatura di alta formalità.

Il processo di univerbazione si è applicato, soprattutto nel Novecento, non solamente a apposta, ma a diverse espressioni, come addosso, invece, sennò, vieppiù ecc. (si noti la presenza, in molte di queste forme, del raddoppiamento fonosintattico). Le varianti così realizzate si sono imposte sulle altre, ma le alternative analitiche sono quasi sempre ancora accettate. Non c’è, però, una regola generale sull’accettabilità; in caso di incertezza, quindi, è sempre bene consultare il dizionario.

Curiosamente, la coincidenza da lei notata tra l’avverbio apposta e il participio passato del verbo apporre non ha bloccato il processo, probabilmente perché il verbo apporre è piuttosto raro nell’uso. All’opposto, proprio la confusione rischiata con il participio passato del verbo avvolgere impedisce l’accettazione dell’univerbazione di a volte. Un altro avverbio che resiste all’univerbazione è d’accordo (sebbene il dizionario dell’uso GRADIT registri anche daccordo): in questo caso non è la confusione con un’altra parola a frenare il processo, ma la tradizione scolastica, che su questo punto è piuttosto rigida.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Si dice “la neve si sta poggiando per terra” o “la neve si sta appoggiando per
terra”?

 

RISPOSTA:

La soluzione migliore sarebbe: “la neve si sta posando a terra”.

Poggiarsi e appoggiarsi, in questo caso, non sono errati, ma lievemente inappropriati, perché lasciano pensare a una volontarietà dell’azione e anche alla presenza di un certo sostegno o appiglio, che sembrano stridere con la leggerezza della neve che cade e si posa a terra senza alcun sostegno o appiglio e senza esplicita e umana volontà.

Inoltre, anche la preposizione per non è del tutto consona al contesto, che richiede preferibilmente a o in : cade a (o in ) terra e simili, a differenza di frasi fatte, come la conclusione del girotondo: tutti giù per terra. Più che un motivo grammaticale vero e proprio, in questo caso, valgono le sfumature semantiche e la consuetudine dell’uso; sia a, sia in, sia per possono indicare, infatti, il complemento di moto a luogo, ma con modalità e consuetudini differenti: andare al mare , andare in montagna , andare per mari e per monti.

Fabio Rossi

Parole chiave: Preposizione
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QUESITO:

Qual è la differenza tra telefono, telefonino e cellulare? La mia professoressa mi ha detto che il telefono è quello fisso di casa, mentre gli altri due sono portatili.

 

RISPOSTA:

Il telefono è quello fisso, mentre il telefonino, o cellulare, è quello che ci mettiamo in tasca e ci portiamo in giro.

Sarà utile aggiungere qualche precisazione: non sarebbe sbagliato chiamare telefono anche il telefonino, visto che quest’ultimo non è altro che un tipo di telefono, ma l’uso vuole che con il termine telefonino ci si riferisca solamente all’oggetto portatile, tanto che il vocabolo telefonino è entrato nel dizionario, fin dal 1990, proprio con questo significato.

Attenzione: anche se telefonino e cellulare sono sinonimi, non dovrebbero essere usati indistintamente. Il primo, infatti, è un termine colloquiale, che va bene nella conversazione informale, mentre il secondo è più preciso, senza essere troppo tecnico, quindi più formale. Ancora più formale, infine, è telefono cellulare.

Questa discussione, comunque, è ormai datata, visto che i nuovi modelli di cellulari sono in grado di fare operazioni del tutto estranee alla trasmissione della voce. Per questo motivo, i nomi che richiamano il telefono (appunto telefonino e telefono cellulare ) sono stati sostituiti dall’anglicismo smartphone (entrato nel dizionario già nel 2003), che rende meglio l’idea della complessità di questi strumenti.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Mi confondo sempre con questi due termini. Castrato si usa per il gatto maschio e sterilizzato si usa per il gatto femmina?

 

RISPOSTA:

Non è esattamente così. La sterilizzazione è un procedimento che rende un organismo o un ambiente sterile, sia nel senso di ‘incapace di generare prole’, sia in quello di ‘incapace di generare germi, igienico’. Quest’ultimo senso, per essere più precisi, è molto più recente del primo, essendo stato introdotto in italiano, dal francese stériliser, solo alla fine dell’Ottocento, mentre il verbo esiste con il primo significato almeno dall’inizio del Seicento.

Esistono diversi metodi per sterilizzare un animale (compreso l’essere umano), tra cui la castrazione (gli altri più comuni sono la vasectomia e la sterilizzazione chimica). Castrazione deriva dal verbo latino castro, che ha lo stesso significato dell’italiano ed è di solito accostato al verbo greco keá zo ‘fendere’. Il procedimento della castrazione consiste nell’asportazione delle gonadi, e si opera, con le ovvie differenze dovute alla diversa anatomia, tanto sui maschi quanto sulle femmine.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Ho letto alcuni auguri di buon anno, la maggior parte dei quali dicevano “Buon 2016 a te e famiglia”… e mi sono chiesto: non è più corretto dire “Buon 2016 a te e alla tua famiglia”?

 

RISPOSTA:

La sottrazione dell’articolo (che trascina con sé l’aggettivo possessivo) da famiglia nelle espressioni come quella da lei citata è dovuta a due cause: una è la vicinanza con il pronome personale te, che non ha l’articolo e “attrae” il nome che lo segue nella stessa costruzione; l’altra è l’assonanza di questa espressione con alcune costruzioni idiomatiche o almeno cristallizzate nell’uso, anch’esse prive di articolo, come andare in barca, lavorare in banca, rimanere a casa (in alcune zone d’Italia si dice anche andare a mare ). La perdita dell’articolo sembra proprio essere un effetto della cristallizzazione dell’espressione, dovuta all’uso massiccio che se ne fa.

In definitiva, tra le varianti “a te e famiglia” e “a te e alla tua famiglia”, è senz’altro preferibile la seconda, non perché la prima sia scorretta, ma perché suona come una formula impersonale, cosa che non si addice certo agli auguri.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Pronome
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QUESITO:

Perché alcune regioni hanno l’articolo maschile e altre l’articolo femminile
visto che il sostantivo “regione” è comunque femminile ?? ( es. Il Piemonte,
la Lombardia) Stesso dubbio sui fiumi… il Po, la Senna. Grazie.

 

RISPOSTA:

La scelta dell’articolo dipende unicamente da ragioni storiche e di tradizione etimologica: per es., il Piemonte deriva dal ‘piede del monte’, cioè ai piedi delle Alpi. Il Friuli deriva da ‘forum Iulii’, cioè ‘il foro di Giulio (Cesare)’, antico nome di Cividale. Lo stesso vale per i fiumi e per tutti i nomi di luogo (l’etimologia di Po è assai controversa, ma evidentemente è sempre stata percepita al maschile). In molti casi, sicuramente ha influito anche la desinenza finale: una -a finale incoraggia l’articolo femminile, a differenza della -o finale. Quindi alla base della scelta dell’articolo non c’è il nome generale (regione, o fiume, ecc.) bensì l’etimologia (solitamente latina) del nome di luogo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Articolo, Etimologia, Nome
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QUESITO:

Come possiamo definire, o meglio, come si chiama, colui che ama molto il Natale o ama molto festeggiare il Natale??

 

RISPOSTA:

Non esiste in italiano una parola dal significato da lei cercato: si deve ricorrere, pertanto, ad una perifrasi, come amante del Natale, innamorato/a del Natale, pazzo/a per il Natale o simili. Neologismi correttamente formati, ma dal sapore un po’ ironico, sarebbero natalofilo e natalomane.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Neologismi
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QUESITO:

Frequento un istituto tecnico industriale, e durante questo terzo anno ho iniziato a studiare la materia del mio indirizzo: meccanica, però in inglese. Il mio dubbio è: si dice “Compito in classe di inglese-meccanica” o “di microlingua”?

 

RISPOSTA:

Il termine microlingua, che significa, genericamente, ‘linguaggio settoriale’, non è per niente adatto a definire un compito di Meccanica in inglese. Il modo migliore, invece, è proprio “Compito in classe di Meccanica in inglese”. In alternativa, puoi scrivere tutto in inglese, cioè “Mechanics test”.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Si può dire:” Finalmente il Natale bussa alla porta anche in casa Visconti.”?

 

RISPOSTA:

L’espressione è grammaticalmente corretta. Si può anche costruire così: “Finalmente il Natale bussa alla porta di casa Visconti”, eliminando anche, che sembra superfluo, e legando più saldamente porta a casa Visconti.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Buongiorno la mia per chiedervi se è corretto un errore che hanno segnato a mio figlio di 11 anni sul tema e cioè lui ha scritto “poi andammo in classe ed i maestri ci spiegarono tutto”, la professoressa ha corretto con “poi andammo in classe ed i professori ci spiegarono tutto”. È un errore scrivere maestro al posto di professore? Vi ringrazio in anticipo della vostra cortese risposta in quanto il bambino è rimasto sbalordito da questa correzione.

 

RISPOSTA:

Immagino che suo figlio frequenti la prima media, giusto? Se ho ragione, allora in effetti il personale docente che insegna alle scuole medie si denomina con l’etichetta di “professore” e non con quella di “maestro”. “Maestro/maestra” è invece la denominazione del personale docente delle scuole elementari e materne. In questo senso, l’insegnante di suo figlio (che infatti lei stessa definisce “professoressa”) ha corretto giustamente l’errore. Naturalmente, non si tratta di un errore di grammatica, bensì di lessico. Ma le lingue sono fatte anche di lessico.
È bene abituare i ragazzi, fin dai primi di anni di scuola, ad usare le parole secondo il loro significato più preciso e più adatto alle situazioni comunicative. Non è che un “maestro” valga di meno di un “professore” (si figuri che in ambito musicale il rapporto è ribaltato: “maestro”  è il titolo che spetta al direttore d’orchestra, mentre “professore” è il titolo degli orchestrali da lui diretti), ma semplicemente la lingua è fatta di convenzioni (anche sociali) e di abitudini. Visto che l’uso odierno dell’italiano assegna un nome per gli insegnanti della scuola primaria e dell’infanzia (maestre e maestri) e un nome per quelli di scuola secondaria e dell’università (professoresse e professori), chi viola tale uso viola una regola della nostra lingua.
Ciò detto, spieghi a suo figlio che non deve certo mortificarsi per la correzione: è in ottima compagnia. Anche mio figlio, di dodici anni (e chissà quante migliaia di bambini italiani!), all’inizio delle medie si confondeva spesso tra “maestra” e “professoressa”. Ma, come si sa, e per fortuna, “sbagliando si impara”.
Un caro saluto

Fabio Rossi

Parole chiave: Lingua e società
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