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QUESITO:

A mio parere le parole combaciare, collimare, coincidere stanno a significare un contatto perfetto fra due superfici ma non necessariamente una fusione, mentre il termine collegare e aderire (come suggerisce l’etimologia) presuppongono non solo il contatto ma anche la fusione. Se ciò fosse vero, asserire che due superfici si trovano nel rapporto indicato dai primi termini (collimare, coincidere, combaciare), significherebbe tassativamente che esse si toccano ma non si fondono l’una con l’altra oppure il fatto che si fondino o meno resterebbe incerto?

 

RISPOSTA:

In nessuno dei verbi da lei presi in esempio emerge l’idea di “fusione” ma quella di “corrispondenza”. In casi come questo, l’etimologia delle parole può venirci in aiuto.
Collimare è una lettura errata del latino collineare (da cum + linea), che significava ‘mettere sulla stessa linea’ (in italiano diventa termine tecnico nell’astronomia e si espande con il significato generale di ‘coincidere’); coincidere deriva dal latino cum e incidere, cioè ‘cadere dentro insieme’; collegare, dal latino colligare, a sua volta composto da cum e ligare, significa ‘legare insieme’; aderire viene dal latino adhaerere, composto di ad, che significa ‘a’, e haerere, cioè ‘stare attaccato’; infine, combaciare che, come suggerisce la parola stessa, è composto da con e baciare.
Vedendoli insieme, tutti i verbi sono connessi semanticamente dall’idea di corrispondenza fra due unità e per nessuno di essi si può dire che ci sia un grado più o meno alto di “fusione”. Una frase come “due parti del materiale combaciano bene”, per significare che due parti sono perfettamente sovrapponibili, equivale a “due parti del materiale aderiscono bene” / “due parti del materiale coincidono bene” / “due parti del materiale collimano bene”; non è frequente, ma si può usare una frase come “due parti del materiale (si) collegano bene”. Il significato primario di collegare però indica che stiamo mettendo in contatto due parti, cioè che le stiamo unendo, come nella seguente frase: “collegare due parti del materiale”.
Escludendo aderire e coincidere, i cui significati primari sono ‘essere attaccato’ e ‘corrispondere perfettamente’, gli altri verbi in questione sono sovrapponibili nei loro significati figurati (combaciare, collimare) e nel loro uso intransitivo (collegare): “Le idee di Marta combaciano con le mie” equivale a “Le idee di Marta collimano con le mie”, “Le idee di Marta (si) collegano alle mie”.
In una frase come “Luca aderisce a quella manifestazione” il verbo aderire, invece, non può essere cambiato per via del suo uso figurato che significa ‘sostenere con la propria partecipazione’.
Raphael Merida

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QUESITO:

Gradirei sapere se è corretto definire col termine situazione l’immagine di una foto che riproduce una realtà urbana del passato. Esempio: “Ricordo vagamente la situazione fissata da questa fotografia”.

 

RISPOSTA:

Certamente. Il sostantivo situazione può ben rappresentare una circostanza in un determinato momento. Per comprendere perché questa parola può adattarsi a vari contesti d’uso dobbiamo ripercorrere la sua etimologia. Il sostantivo situazione entra in italiano, probabilmente, attraverso il francese situation, a sua volta derivato dal latino medievale situare, verbo mantenuto intatto in italiano con il significato letterale di ‘mettere in un posto’ e con quello figurato di ‘inserire in un contesto’. Il verbo situare è un derivato del latino situs, il cui significato veicola già l’idea di luogo; tant’è che in italiano il sostantivo sito mantiene l’accezione di spazio fisico (“il sito archeologico di Selinunte è meraviglioso”) o figurato (“devo visitare il tuo sito internet”).
Raphael Merida

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QUESITO:

PER, DA, DI introducono la causa, ma cosa cambia tra le tre preposizioni? Perché alcune volte si possono usare tutte e tre e altre volte no?
Es. grido dalla / per la / di gioia, ma “Matteo è a letto per l’influenza”, non dall’influenza o di influenza.

 

RISPOSTA:

Dal punto di vista della funzione generale di ciascuna preposizione, per indica l’attraversamento (passare per il bosco), quindi il mezzo (prendere per le corna), ma anche la causa (piangere per una perdita) e il fine (studiare per un esame); da indica la provenienza (venire dall’Italia), quindi, anche se per ragioni diverse rispetto a per, la causa (piangere dalla gioia); di indica la relazione, che può prendere moltissime forme (il fratello di Mariola porta di casail tavolo di legnomangiare di gusto), tra cui anche la causa (morire di noia). Nell’esempio gridare dalla / per la / di, quindi, il sintagma costruito con dalla esprime l’origine del processo del verbo, quello costruito con per la esprime il percorso attraverso cui si è prodotto il processo del verbo, quello costruito con di indica in relazione a che cosa si è prodotto il processo del verbo. Sono, come si vede, sfumature diverse dello stesso concetto di causa. La spiegazione semantica, però, è parziale, e non permette di decidere quale sia la preposizione corretta (e se siano possibili più soluzioni) nel caso di sintagmi mai sentiti prima. Accanto alla funzione delle preposizioni si possono ricordare, allora, alcune costanti d’uso: di causale si usa soltanto in pochi sintagmi cristallizzati e non richiede mai l’articolo (mentre per e da sì): di freddodi caldodi famedi setedi gioia ed altre emozioni (di pauradi doloredi felicità); da si usa in tutti i sintagmi in cui si può usare anche di, ma richiede, come detto, l’articolo e ha maggiore libertà. Di, infatti, è legata non solo ad alcuni sintagmi, ma anche ad alcuni verbi: si può, per esempio morire di freddo e morire dal freddo, ma mentre si può svenire dal freddo non si può *svenire di freddo. Di là da questi sintagmi cristallizzati, comunque, non si usa neanche da; non si può, per esempio, *ammalarsi dall’aria freddaPer ha, invece, una distribuzione del tutto libera: si può sia morire per il freddo, sia svenire per il freddo, sia ammalarsi per l’aria fredda.
Queste considerazioni lasciano sicuramente spazio a casi dubbi, e non sono di pratico impiego quando bisogna usare la lingua in presa diretta. Per essere immediatamente sicuri di usare la preposizione giusta non c’è altro metodo che esercitarsi molto e, in caso di dubbio, usare gli strumenti lessicografici in circolazione, come i dizionari e le banche dati (oltre che i servizi di consulenza come DICO).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho sempre detto, e credo anche scritto sprono, inteso come sostantivo, sinonimo di stimolo. Poi, di recente, un amico mi ha detto che non ha mai sentito sprono ma solo sprone. Ho cercato un po’ dappertutto. In effetti pare che si dica solo sprone. Eppure questa “mia” variante pensavo fosse corretta. Posso credere che sia solo un po’ desueta? 

 

RISPOSTA:

No, il sostantivo sprone è una variante della parola sperone con la quale condivide il significato di ‘arnese per stimolare i fianchi della cavalcatura’; da questo significato, successivamente, sprone ha sviluppato quello figurato di ‘incitamento, stimolo’ (“Il suo è esempio è di sprone per tutti noi”). Morfologicamente, quindi, la parola corretta è sprone e non sprono.

Quest’ultima non è attestata, se non anticamente e in sporadici casi, stando al Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia. La confusione fra sprone e sprono è facilmente intuibile per due ragioni: per la particolarità dei nomi di III classe, cioè nomi maschili che terminano in –e al singolare e in –i al plurale (sprone/sproni; occasione/occasioni ecc.); per la possibile attrazione della prima persona singolare del verbo spronare, cioè sprono.
Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Desidererei sapere se l’espressione per via di può essere usata anche come sinonimo di per merito digrazie a, oltre che con il significato di a causa di. Ad esempio: “Ha ottenuto un posto di prestigio per via delle sue benemerenze”. Il giudizio veicolato va valutato dal punto di vista del parlante o del soggetto della frase? Se io dico che una persona è stata promossa perché ha goduto di forti raccomandazioni, per me parlante il fatto va visto come negativo; è stato promosso un soggetto che non lo meritava, con danno per la società e forse anche per me personalmente; al contrario per il soggetto della frase è stato sicuramente un vantaggio. In questo caso devo usare per via di o a causa di oppure grazie a o per merito di?

 

RISPOSTA:

La locuzione preposizionale per via di indica letteralmente che quanto segue è la via, il percorso seguito per arrivare a un risultato; è, quindi, equivalente a per mezzo di. Non è facile, però, distinguere il percorso dalla spinta iniziale che porta a intraprendere il percorso, ovvero la causa; per questo motivo questa locuzione preposizionale ha finito per essere usata per indicare che quanto segue è la causa di un fenomeno (quindi come sinonimo di a causa di), non il mezzo con il quale questo si è manifestato. Le locuzioni per merito di e grazie a rimangono ancora più ambigue tra la causa e il mezzo: non è possibile stabilirne nettamente il significato. Per quanto, però, queste locuzioni possano indicare che quanto segue è la causa di un fenomeno, al pari di per via di, la sostituzione di per via di con una di queste altererebbe l’interpretazione complessiva della frase, perché per merito di e grazie a veicolano una sfumatura connotativa positiva assente in per via di.

La responsabilità dell’enunciazione, quindi del modo di rappresentare la realtà al suo interno, è sempre dell’emittente (chi parla o scrive). La connotazione positiva o negativa di un fenomeno, quindi, deriva dal punto di vista dell’emittente e dipende da come quest’ultimo sceglie di costruirla (in base, per esempio, alle sue credenze e al contesto in cui si trova). L’emittente, però, può scegliere, con un artificio retorico, di rappresentare un punto di vista evidentemente opposto al proprio, per far risaltare quest’ultimo per contrasto.
Spieghiamo meglio. In ogni frase il senso complessivo è il risultato dell’intreccio dei significati e dei sensi evocati da ciascuna parola o espressione. Nel caso in questione, una frase come “La persona è stata promossa per via di / a causa di forti raccomandazioni” fa interagire l’implicita inevitabile condanna complessiva (in Italia la raccomandazione è ufficialmente considerata una pratica scorretta) con l’oggettività di per via di. Questa rappresentazione sarebbe adatta a una denuncia formale (ovvero che vuole essere rappresentata come formale), in cui possibilmente si portino le prove di tali raccomandazioni e si voglia dimostrare con queste che la promozione è stata un abuso. Se, invece, la denuncia è informale (uno sfogo emotivo o un’accusa di principio, per esempio), sarebbe più adatta la costruzione “La persona è stata promossa grazie a / per merito di forti raccomandazioni”, nella quale la locuzione preposizionale connotata positivamente colorisce l’affermazione di una sfumatura di soggettività. Ovviamente, in questo caso la connotazione positiva è in contrasto con il senso complessivamente negativo della frase, quindi non ci sono dubbi che l’emittente stia usando un artificio retorico per far risaltare, a contrario, la sua posizione. Sta, in altre parole, facendo dell’ironia.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È corretto usare espressioni come risposta inviata a mezzo mailrichiesta evasa a mezzo pec, oppure è più corretto l’uso della locuzione per mezzo mailper mezzo pec?

 

RISPOSTA:

Le locuzioni preposizionali a mezzocon il mezzoper il mezzoper mezzo sono tutte attestate nella storia della lingua italiana, con fortuna diversa a seconda delle epoche e del gusto dei parlanti. Il Grande dizionario della lingua italiana, infatti, le riporta tutte insieme come varianti della stessa locuzione (s. v. Mèzzo^2^). Bisogna, però, ricordare che tutte queste varianti sono, nell’italiano standard, completate dalla preposizione di, quindi a mezzo dicon il mezzo diper il mezzo diper mezzo di. Contro a mezzo di si pronunciano Pietro Fanfani e Costantino Arlía nel loro famoso “Lessico dell’infima e corrotta italianità” del 1881, un dizionario di voci considerate dai due studiosi scorrette o ingiustificate. Il dizionario ottocentesco suggerisce che a mezzo di sia un calco del francese au moyen (ma chiaramente intende au moyen de) e sostiene che non ci sia motivo per usare in italiano questa espressione perché a non può sostituire per (quindi a mezzo non può sostituire il ben più comune per mezzo) e perché la locuzione a mezzo esiste già e significa ‘a metà’. Il dizionario registra persino l’uso del simbolo matematico 1/2 al posto della parola mezzo nella locuzione, ovviamente condannandolo sprezzantemente, a testimonianza che la sostituzione delle parole con i numeri era una strategia già sfruttata a metà Ottocento.
Gli argomenti dei due studiosi contro a mezzo di funzionano in ottica puristica: non c’è motivo di introdurre in una lingua nuove espressioni se la lingua ha già gli strumenti per esprimere gli stessi concetti. Bisogna, però, rilevare che molte parole ed espressioni sono entrate in italiano da altre lingue in ogni epoca, anche se la lingua italiana in quel momento aveva strumenti espressivi equivalenti; l’innovazione, l’accrescimento, l’adattamento ai tempi sono fenomeni fisiologici in una lingua. Inoltre, l’ipotesi che a mezzo di si confonda con a mezzo è pretestuosa: intanto la preposizione di distingue nettamente le due espressioni, e poi il loro significato e la loro funzione sintattica sono talmente diversi che è impossibile scambiare l’una per l’altra.
Rispetto ad a mezzo di, oggi si va diffondendo a mezzo, senza la preposizione di. Ferma restando l’impossibilità di confondere anche questa variante accorciata della locuzione preposizionale con la locuzione avverbiale a mezzo (peraltro oggi rarissima), rileviamo che tale accorciamento è tipico dell’italiano contemporaneo: le preposizioni cadono in espressioni come pomeriggio (per di pomeriggio) e, proprio nel linguaggio burocratico, (in) zona (per nella zona di) in frasi come “La viabilità in zona Olimpico è stata ripristinata” (o anche “La viabilità zona Olimpico è stata ripristinata”), causa (per a causa di) in frasi come “La ditta dovrà pagare una penale causa ritardo dei lavori” e simili. L’eliminazione della preposizione è, come si vede dagli esempi, adatta a contesti burocratici o, in alcuni casi, contesti comunicativi rapidi e informali (è favorita, per esempio, dalla scrittura di messaggi istantanei); è facile prevedere, però, che le riformulazioni accorciate di queste espressioni diventeranno prima o poi più comuni di quelle complete, fino a scalzarle del tutto dall’uso. Non a caso, nella sua stessa domanda lei propone di sostituire a mezzo con per mezzo, ugualmente priva della preposizione di.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In una discussione, un mio caro amico mi indica che – a suo dire – taciamo è una possibile versione alternativa, ma corretta, di tacciamo.
Ogni riferimento che ho trovato sembra smentirlo. Tuttavia, a sostegno della sua ipotesi mi segnala una pagina di Wikipedia. In effetti la voce taciamo è riportata, anche se priva della relativa pagina grammaticale.
Così c’è rimasto il dubbio che possa esistere un uso grammaticalmente corretto, e non relegato a questioni dialettali o di usanze regionali tra i parlanti.

 

RISPOSTA:

La forma tacciamo è quella sicuramente corretta, anche se taciamo esiste: i pochi verbi in cere (taceregiacere(s)piacere…) hanno una radice che cambia (polimorfica) a seconda della desinenza. In fiorentino antico, e da lì in italiano, la consonante prepalatale si rafforza se si trova dopo vocale e davanti a [j], ovvero al suono della i seguita da un’altra vocale (o semivocalica). Per questo tacciotacciamotaccionotacciatacciano, ma taci (qui la i è una vocale, non una semivocale, perché non è seguita da un’altra vocale), tacetetacere ecc. Le radici polimorfiche sono facilmente soggette a processi analogici; i parlanti, cioè, spesso adattano le forme minoritarie, per quanto etimologicamente corrette, a quelle maggioritarie, pure corrette, ma derivate da trafile di formazione diverse. Proprio un processo analogico è quello che ha creato taciamo sulla base del modello maggioritario tac rispetto a quello minoritario tacc-. Si noti che il participio passato taciuto non ha la consonante rafforzata perché nasce già come forma analogica (in latino era tacitus) modellata sulla maggioranza dei participi passati dei verbi della seconda coniugazione (credutocresciutovoluto…).
Il processo di adattamento può avere successo nel tempo e, effettivamente, creare forme nuove; taciamo (ma anche piaciamo e giaciamo) oggi esistono, ma per queste parole il processo è in fieri, come testimonia l’atteggiamento dei vocabolari: il GRADIT, che è aperto all’uso vivo, riporta taciamo accanto a tacciamo (e piaciamo accanto a piacciamogiaciamo accanto a giacciamo); lo Zingarelli e il Treccani, invece, pur essendo vocabolari dell’uso, non registrano affatto la variante. In conclusione, attualmente la forma taciamo è percepita come scorretta, quindi va evitata anche in contesti informali, specie se scritti; in futuro, però, è probabile che diventi comune accanto a tacciamo e, addirittura, che la sostituisca.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sottoporvi un quesito (sperando sia in linea con il tipo di argomenti da voi trattati).
In navigazione si usa il termine ‘doppiare’ quando si vuole esprimere l’azione di superare/passare un capo con un’imbarcazione; ad esempio “doppiare Capo Horn in barca a vela è pericoloso”.
Il mio dubbio riguarda l’origine della parola italiana: trovo anti-intuitiva la parola ‘doppiare’ che assomiglia (e derivare) da “doppio, due volte” in relazione all’azione che esprime (superare un capo), sopratutto se paragonata all’inglese dove si utilizza il verbo ‘round’ (round girare/passare attorno).

 

RISPOSTA:

Doppiare ‘oltrepassare, superare un ostacolo’ è un tecnicismo marinaresco entrato in italiano in epoca rinascimentale come ampliamento semantico (o prestito semantico) del verbo doppiare, già esistente con il significato di ‘rendere qualcosa due volte maggiore, raddoppiare’. L’origine del prestito è lo spagnolo doblar, che all’epoca aveva già il significato di ‘oltrepassare un ostacolo’. Spiegare perché doblar avesse sviluppato questo significato non è facile: probabilmente dal significato del latino volgare duplare ‘rendere doppio, raddoppiare’ si è sviluppato il significato ‘piegare’ (perché quando si piega una linea si ottengono due segmenti distinti, quindi si raddoppia la linea). Questo significato, però, può essere riferito alla rotta necessaria per superare un ostacolo, ma non all’ostacolo stesso: è la rotta, cioè, che viene doppiata ‘piegata’, non l’ostacolo. Per spiegare l’uso effettivo del verbo (doppiare un ostacolo, non doppiare una rotta), quindi, dobbiamo ipotizzare un ulteriore slittamento semantico, da ‘piegare’ a ‘girare, aggirare’. I verbi to round (inglese) e umschiffen ‘circumnavigare, navigare intorno’ (tedesco) conferma, del resto, che l’atto del superare un ostacolo piegando la rotta della nave è comunemente definito come ‘girare, aggirare’.
A margine va detto che negli sport su pista il verbo doppiare è usato come estensione del tecnicismo marinaresco, e infatti ha il significato di ‘superare, oltrepassare un concorrente’; non c’è in questo significato alcun riferimento al ‘raddoppiamento’ (quando si doppia un concorrente non si raddoppiano i giri conclusi, ma semplicemente se ne aggiunge uno).
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

Ho notato che appurare e constatare sono dati per sinonimi dai vocabolari. Appurare dovrebbe stare per ‘accertare’, ‘verificare’; l’utilizzo di questo verbo presuppone che non si sia certo di un qualcosa.

Esempio:

  1. A) Ho appurato l’esattezza di questa teoria.

Il senso della frase dovrebbe essere questo: “Ho verificato/valutato l’esattezza di questa teoria”.

Quindi il verbo appurare si dovrebbe usare quando c’è un dubbio e si vuole verificare se un qualcosa sia vero o falso. Questo qualcosa potrebbe rivelarsi vero o anche falso, in questo caso una teoria, quindi non si sa se sia vera o falsa, in quanto ho fatto una verifica senza dare l’esito.

Esemplifico la stessa frase con il verbo constatare:

  1. B) Ho constatato l’esattezza della teoria.

In questo caso, il verbo mi dà l’impressione di non mettere in dubbio la cosa, bensì confermare e dimostrare, dare conferma del fatto e non investigare sulla veridicità, ma riconoscere come vero un qualcosa che è stato verificato in precedenza e il riscontro alla fine è stato favorevole, ovvero la teoria che poi si è rivelata esatta ed è una verità fattuale.

Si possono fare altri esempi:

  1. C) “Ho appurato la sincerità di quella persona. Ti posso dire che è meglio starne alla larga.”

D)”Ho constatato la sincerità di quella persona.”

Nella frase C con appurare dico di aver indagato, ma solo dopo la successiva frase ti faccio capire implicitamente che è una persona falsa facendoti capire l’esito del controllo che ho svolto

Nella frase D invece non ho bisogno di aggiungere altro, in quanto mi sono reso conto della sua sincerità e la posso confermare.

È proprio per questa enorme differenza, forse, che mi sembrerebbe strano dire: “Hai constatato se ci sono tutti”, in quanto constatare, oltre a verificare qualcosa, dà anche l’impressione proprio di confermare positivamente la cosa, senza lasciare la sfumatura del dubbio.

RISPOSTA:

I verbi appurare e constatare significano ‘accertare’, quindi sono legati da un rapporto di sinonimia. La distinzione più netta, che ha permesso la conservazione di entrambi i verbi, è di tipo diafasico; ciò significa che il loro uso varia a seconda del contesto situazionale: constatare è usato in ambito giuridico, appurare no.

In tutte le sue frasi i due verbi sono equivalenti. L’ultima frase (“Hai constatato se ci sono tutti”, alla quale occorre aggiungere il punto interrogativo alla fine), invece, è costruita in modo sbagliato: il verbo constatare, in questo caso, richiede l’uso di che + indicativo, quindi: “Hai constatato che ci sono tutti?”.

Per trovare una sfumatura di significato occorre risalire all’etimo: il latino constat (da constare) significa ‘è certo’, mentre purus significa ‘puro’, cioè il risultato dell’eliminazione delle impurità. Da queste considerazioni si ricava che appurare(derivato di purus) allude al processo di eliminazione dei dubbi per arrivare alla verità e constatare invece al risultato dello stabilire la verità.

Raphael Merida

Parole chiave: Etimologia, Verbo
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QUESITO:

Ho sempre dato per scontato che la lunghezza fosse verticale e la larghezza orizzontale. E che quindi la longitudine fosse orizzontale e la latitudine verticale, essendo il nostro pianeta più lungo orizzontalmente che verticalmente.
Adesso però ho dei dubbi.
Nel grande romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei Tartari, si accenna a un gradone che corre longitudinalmente verso il Nord, che taglia longitudinalmente la pianura. Non capendo come facesse un piano orizzontale a correre in lungo, ho cercato il significato di longitudinale: «che è disposto nel senso della lunghezza», «orizzontale, in lunghezza». Se è orizzontale, non dovrebbe essere disposto nel senso della larghezza?

 

RISPOSTA:

La longitudine si calcola in orizzontale (cioè, letteralmente, parallelamente all’Orizzonte), perché segna un punto a Est o a Ovest del meridiano di Greenwich. La latitudine, al contrario, segna un punto a Nord o a Sud dell’Equatore, quindi si calcola in verticale (cioè perpendicolarmente all’Equatore).
Bisogna, però, distinguere tra i nomi longitudine e latitudine e gli aggettivi longitudinale e latitudinale (nonché gli avverbi in -mente da essi derivati): i primi hanno un’applicazione esclusivamente scientifica (e sono usati nella lingua comune solo nelle locuzioni avverbiali in longitudine e in latitudine); i secondi sono usati regolarmente anche con un significato estensivo (che recupera il significato etimologico longus ‘lungo’ e latus ‘largo’), e in particolare longitudinale ‘esteso nel senso della lunghezza’, latitudinale ‘esteso nel senso della larghezza’. Di conseguenza, longitudinale diviene, nella lingua comune, equivalente a lungo (per cui longitudinalmente e in longitudine equivalgono a in lunghezza), mentre il meno usato latitudinale diviene equivalente a largo (e latitudinalmente e in latitudine equivalgono a in larghezza). Dal momento che, per convenzione, in una superficie la lunghezza è la dimensione più estesa e la larghezza quella meno estesa, nell’esempio da lei riportato il gradone descritto è un oggetto orientato nella stessa direzione della dimensione più estesa dell’area considerata.
Si noti che tanto la lunghezza quanto la larghezza sono dimensioni orizzontali, cioè parallele al piano dell’Orizzonte; nel caso di oggetti tridimensionali a queste si aggiunge l’altezza, che è la dimensione verticale, cioè perpendicolare al piano dell’Orizzonte.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quali e quante sono le forme ormai cristallizzate che risulterebbero fuori norma se impiegate senza la “d” eufonica, a parte ad esempio, ad eccezione, ad ogni buon conto?

 

RISPOSTA:

Non esiste una norma precisa che regoli l’uso della d eufonica. Per esempio, alcune delle locuzioni da lei citate possono scriversi legittimamente senza la d eufonica: a eccezione di e a ogni buon conto (così sono riportate anche nei principali vocabolari dell’uso). Una delle rarissime eccezioni in cui la d eufonica è quasi sempre presente per via della sua specificità è la locuzione ad esempio, divenuta a tutti gli effetti una formula (insieme a per esempio). Tuttavia, potremmo trovare la locuzione a esempio in una frase tipo: “La pazienza di Luca viene sempre portata a esempio di virtù da imitare”.

In generale, la d eufonica, che in realtà è etimologica perché risalente a un d o a un t latini in ad, et o aut (da cui a, e, o), ha goduto nel corso del tempo di una certa elasticità: molto usata nella lingua antica, ridotta nell’italiano moderno. Secondo il linguista Bruno Migliorini, l’uso della d eufonica dovrebbe essere limitato ai casi di incontro della stessa vocale come in ad Alberto, ed ecco ecc., ma anche in esempi come questi, per via della flessibilità dell’italiano contemporaneo nei confronti dello iato (cioè l’incontro di due vocali di due sillabe diverse), si potrebbe omette la d come in “Ho chiesto a Luca e Erica”.

Insomma, l’uso della d eufonica non ha regole precise ma cammina costantemente con l’evoluzione della lingua e la sensibilità di chi parla o scrive.

Di seguito suggeriamo alcuni casi in cui l’aggiunta di una d sarebbe sconveniente (1 e 2) o da evitare (3 e 4):

 

  1. quando la presenza di una d appesantisce la catena fonica e la vocale della parola successiva è seguita da d come in “edicole ed editoriali”;
  2. in frasi come “si dice ubbidire od obbedire” perché la presenza della d dopo la vocale o risulterebbe ormai rara e antiquata.
  3. prima di un inciso: “Ho chiesto a Luca di uscire ed, ogni volta, risponde di no”;
  4. davanti alla’h aspirata di parole o nomi stranieri: “Case ed hotel” o “Sabine ed Halil”.

 

Raphael Merida

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QUESITO:

Gradasso può essere considerato un sinonimo di spavaldo, visto che entrambi hanno come sinonimo spaccone?

 

RISPOSTA:

In una lingua difficilmente esistono sinonimi perfetti: a ben vedere, tra le parole c’è sempre una differenza anche solo sfumata di significato. Nella terna spaccone, spavaldo, gradasso il primo nome ha un significato vicino a quello degli altri due, perché condivide con essi il tratto della vanteria eccessiva; in spavaldo, però, è più forte che negli altri due il tratto dell’esibizione del coraggio di fronte agli altri.

Tra spaccone e gradasso, invece, la differenza sta nella maggiore arroganza del gradasso rispetto allo spaccone, che risulta più legato all’esibizione di qualità non necessariamente possedute.

Le differenze si notano maggiormente se ricostruiamo le etimologie delle tre parole. Nell’etimologia di spavaldo, probabilmente dal latino pavor ‘paura’ + il prefisso s- e il suffisso germanico -aldo, si nota già un riferimento alla mancanza di paura connotato però negativamente dal suffisso –aldo (come nella parola ribaldo). Il sostantivo gradasso, che caratterizza in negativo una persona che si vanta in modo eccessivo delle proprie qualità inesistenti, è un’antonomasia formata sul nome del guerriero saraceno Gradasso, un personaggio dell’Orlando innamorato e dell’Orlando Furioso descritto come impulsivo e arrogante. Spaccone è un sostantivo derivato dal verbo spaccare più il suffisso accrescitivo –one. A differenza del gradasso, dietro il quale si nasconde un tipo di carattere ben definito, lo spaccone è colui che, iperbolicamente, vanta la forza di spaccare il mondo (senza però riuscirci).

Raphael Merida

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QUESITO:

Fossato è un derivato di fosso? Maggiordomo può essere considerato un nome composto? Nomi come Patty o Dany sono nomi alterati?

 

RISPOSTA:

Tra fossato e fosso c’è un rapporto non di derivazione del primo dal secondo, ma di comune provenienza quasi dallo stesso verbo: fossato è un nome primitivo, che continua direttamente il latino FOSSATUM, a sua volta participio perfetto del verbo FOSSARE ‘scavare’ (variante intensiva del verbo FODERE ‘scavare’); fosso è un’evoluzione di fossa, a sua volta participio perfetto (al neutro plurale) proprio del verbo FODERE.

Anche maggiordomo, adattamento del latino MAIOR DOMUS ‘capo della casa’, è una parola primitiva. In generale, le parole formate per derivazione o composizione in altre lingue (prime tra tutte il latino e il francese) e successivamente entrate in italiano sono, dal punto di vista dell’italiano, primitive.

Il processo di alterazione può riguardare anche i nomi propri (Sergione, Annuccia, Giorgino…); in particolare, i nomi propri modificati con suffissi diminutivi o vezzeggiativi sono definiti ipocoristici. Gli esempi da lei portati, però, sono formati con procedimenti diversi dall’alterazione: il primo è a tutti gli effetti un nome proprio non alterato (non è possibile, infatti, risalire a una base; se fosse Patrizia l’esito sarebbe Patri o Patry), di origine inglese; il secondo è l’esito di un accorciamento (lo stesso processo che, per esempio, forma auto da automobile) da Daniele o Daniela. Si noti che l’accorciamento darebbe come risultato Dani: la forma Dany è influenzata in generale dal modello dei nomi inglesi, in cui una -i finale è sempre -y (e forse anche dal nome Danny, inglese come Patty).

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

L’accrescitivo di scarpa è scarpona, scarpone o entrambe le forme sono corrette?

 

RISPOSTA:

Entrambe le forme sono corrette. A sfavore della prima forma sta che è meno formale e quindi raramente contemplata da dizionari e grammatiche, ma a sfavore della seconda forma sta il fatto che si è lessicalizzata con altro significato (scarponi da montagna, da scii ecc.), tanto da essere fraintendibile come accrescitivo di scarpa (che è, però, il suo significato originario). Quindi, tutto sommato, suggerirei scarpona, con buona pace dei vocabolari e delle grammatiche attardati che ancora non la registrano.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Ho una domanda con l’uso della particella CI nelle frasi seguenti:
(1) Grazie per avermici portato.  (ci = in questo posto, ci funziona come un avverbio di luogo)
(2) Una persona mi ha detto di essersi trasferita a Madrid senza aver trovato un lavoro.
 Le ho risposto:  Spero che tu CI abbia portato dei soldi.    
Intendevo “a Madrid” per CI.     E’ come dire” Spero che tu abbia portato li’ dei soldi.
Sto provando a pensare come un italiano.  Quest’esempio e’ una sciocchezza ma provo a caprine di piu’ della ragione per cui suoni male.   E’ una questione del verbo?  E’ locuzione?  Qualcos’altro?
So che non si dice “ci arrivo” per indicare a casa tua…(Ci arrivo ha il significato riuscire).  Ma si dice semplicemente Arrivo, ma si puo’ dire “ci sono arrivato (ci = li’).”  
Potrebbe farmi altri esempi (con altri verbi) in cui la particella CI non sembra corretta in una frase come un avverbio di luogo?

 

RISPOSTA:

Giusto l’esempio 1 e la sua interpretazione.
Anche l’esempio 2 va bene, però le sembra strano perché lì il ci tende a essere interpretato come ‘a noi’ (che peraltro ha la stessa etimologia dell’avverbio di luogo: lat. hicce ‘in questo luogo’, e poi per metonimia, ‘noi che siamo in questo luogo’). Dunque “suona male” non per via del verbo, né per via di “ci”, che è usato correttamente, ma per via del significato più comune di ci = a noi. Può comunque usare la frase esattamente come l’ha formulata lei, col significato di ‘lì’.
Può benissimo usare “ci arrivo” anche per indicare un luogo: “Come ci arrivi a casa mia?” “Ci arrivo con il treno”. Il significato di ‘riuscire’ è ancora una volta un significato traslato, metaforico, che non annulla assolutamente il significato locativo originario. 
Come esempi, può immaginare tutti i casi in cui arrivarci indichi un luogo, come quello che le ho fatto poco fa. Per es. una frase come “Non è difficile arrivarci” è interpretabile soltanto in base al contesto. In un caso può significare ‘a lavoro, a casa tua ecc.’; in un altro caso può significare, nell’italiano informale, ‘non è difficile capire quello che ti sto dicendo’.

Fabio Rossi 

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QUESITO:

vorrei proporvi queste tre parole: sollecitosolerte e alacre. Per quanto ne so io, sollecito alacre sono sinonimi di velocepronto nell’agire, quindi i termini sopracitati si riferiscono alla prontezza nell’agire e nulla dicono circa la qualità dell’azione, mentre solerte non ha a che fare con la velocità della risposta bensì con la qualità, l’accuratezza dell’azione. Se ciò fosse vero io potrei tranquillamente dire: “Costui ha agito con sollecitudine (o alacremente)” ma “Il lavoro svolto è di scarsa qualità (cioè non è svolto con solerzia)”. Mi capita sempre più spesso però di sentire che il termine solerte è usato come sinonimo di alacre sollecito.

 

RISPOSTA:

La semantica lessicale è l’ambito della lingua più difficile da fissare e più soggetto al cambiamento nel tempo. Un punto fermo nell’individuazione del significato di una parola è fornito dall’etimologia, che, però, deve essere valutata con cautela, proprio perché i significati cambiano nel tempo. Sollecito viene dal latino sollicitus, a sua volta composto di sollus ‘tutto’ e citus ‘agitato’. Questo aggettivo, in linea con la sua etimologia, indica una persona che agisce con velocità, ma anche con cura e diligenza, quindi che non sacrifica la qualità alla velocità. Può essere riferito anche a un’azione o un comportamento. Lo stesso costituente sollus è in solerte, unito ad ars ‘arte’: una persona solerte agisce a regola d’arte, rispettando tutte le regole previste, compresa la velocità di esecuzione; un’azione solerte, a sua volta, è compiuta velocemente e a regola d’arte. Come si può vedere, sollecito e solerte sono vicini nel significato; li distingue una sfumatura, che è quella individuata da lei: sollecito enfatizza l’aspetto della velocità (coerentemente con il costituente citus), mentre solerte quello della diligenza (coerentemente con ars). Alacre è dal latino alacer ‘allegro’, da cui proviene anche allegro, che ne è, quindi, l’allotropo popolare. Il dizionario GRADIT elenca, tra i sinonimi di questo aggettivo, sia solerte sia sollecito; anche questo, però, si distingue dagli altri per una sfumatura specifica: più che al modo di compiere un’azione, si riferisce all’atteggiamento, persino al carattere, di chi la compie. Alacre, insomma, è una persona dal carattere attivo, vivace, operativo, a prescindere dalla singola azione compiuta; non a caso, questo aggettivo, diversamente dagli altri due, non si può associare a un’azione, ma può solo riferirsi a una persona.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

E’ risaputo che l’imperativo di “dire” è di’( con l’apostrofo) in quanto ci troviamo di fronte al troncamento di “dici”. Questo “dici” da dove esce? È forse una espressione italiana arcaica?

 

RISPOSTA:

No, in italiano, di ieri e di oggi, l’imperativo del verbo dire, che deriva da dic (e non dice) latino, è sempre stato di’ (scritto con varie grafie, sebbene oggi l’unica standard sia quella apostrofata). Dunque dici NON è apocope dell’italiano dici, che non esiste (o quanto meno non è contemplato dal sistema verbale dell’italiano standard)! Dici, pure attestato in italiano (substandard) di ieri e di oggi può avere varie spiegazioni (ogni errore, o se preferisce ogni alternativa substandard, ha una sua spiegazione, cioè una sua regola, o più d’una):

  1. è un tratto dialettale: in Sicilia, molti, quasi tutti, dicono dici, come imperativo, perché c’è nel loro dialetto. Lo stesso dicasi per il napoletano. E’ insomma un tratto di italiano regionale.
  2. Può essere un’erronea ricostruzione della forma di’, avvertita come apocope da dici (che però, come già detto, non è apocope dall’italiano, bensì dal latino dic, che perde solo la c, non ce/ci, che non esistono).
  3. Erronea estensione analogica degli imperativi delle altre forme verbali: dunque dici come leggiprendi ecc., uguali alle seconde persone dell’indicativo.
  4. Dici può anche essere, in certi contesti, un’estensione dell’indicativo usato come imperativo (cioè il cosiddetto indicativo iussivo): “Ora la finisci e mi porti i compiti” (anziché “Finiscila e portami i compiti”). Ovviamente, se fosse questo il caso (per es. “ora mi dici tutta la verità”), dici non sarebbe un errore.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Quale affermazione delle seguenti è corretta?
Piantare in asso.
Piantare in Nasso.
Io penso tutte e due.
La prima si riferisce al gioco della carte.
(l’asso come carta che in molti giochi ha valore “uno”)
La seconda alla mitologia greca

 

RISPOSTA:

L’unica forma corretta è “piantare in asso”, che ha però un’etimologia che non ha nulla a che vedere col gioco delle carte. Essa infatti deriva dal mito di Arianna piantata “in Nasso” da Bacco. L’espressione è state reinterpretata popolarmente, mediante erronea segmentazione di parole, in nasso > in asso. Oggi, tuttavia, la forma originaria ha del tutto perso il suo valore idiomatico, che è rimasto soltanto proprio della seconda (cioè quella originariamente sbagliata).
Quindi, concludendo, oggi NON si può dire “piantare in Nasso”, MA si può dire SOLO “piantare in asso”, sebbene l’origine della seconda espressione sia la prima. L’etimologia spiega l’origine delle parole MA NON ne giustifica l’uso odierno. Se così fosse, oggi il significato di casa sarebbe “baracca” e il significato di duomo sarebbe “casa”, perché questi ultimi, in effetti, erano i significati delle antiche parole latine casa e domum. Le parole e le frasi cambiano, come cambiano i loro significati.

Fabio Rossi

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Volevo sapere se è corretto usare l’espressione un vestito da pipistrello al posto di un costume da pipistrello. Mi è venuto questo dubbio perché lo userei come sostantivo e non come verbo, come potrebbe essere in una frase del tipo un uomo vestito da pipistrello.

 

RISPOSTA:

I nomi vestito e costume possono essere usati con uguale efficacia in questo caso: vestito è un iperonimo di costume, cioè è un nome il cui significato comprende quello dell’altro, che è, a sua volta, iponimo del primo. Si badi che il nome vestito deriva direttamente dal latino vestitus ‘vestito’; non è, come lei ipotizza, il participio passato di vestire sostantivato (vestito nome e vestito participio di vestire sono forme coincidenti, ma con origini diverse, sebbene ovviamente legate). Se anche fosse un participio sostantivato, comunque, potrebbe certamente usarlo come nome: sono molti, infatti, i participi presenti e passati usati comunemente come nomi (comandantecantantegelatocandito ecc.).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Nome, Verbo
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QUESITO:

La parola colle va considerata come nome derivato da collo

 

RISPOSTA:

Dobbiamo distinguere tra i due omografi (cioè parole che si scrivono allo stesso modo ma hanno origine e significato diversi) colle ‘elevazione del terreno, poggio, altura’ e colle ‘passo, valico montano’. Il primo colle non ha niente a che fare con collo, mentre il secondo sì; anzi, il valico montano era anticamente chiamato anche collo, ma poi, probabilmente per influenza di colle ‘altura’, collo e colle si sono confusi, dando vita a colle ‘valico montano’. La ragione per cui un valico montano sia definito collo / colle è riconducibile alla forma di questi luoghi, corrispondente a un passaggio, spesso stretto, tra due montagne, un po’ come il collo è un restringimento tra due punti più larghi.
Colle ‘valico montano’, quindi, è una variante di collo; tra le due parole non c’è un rapporto di derivazione morfologica: entrambe sono parole primitive. La derivazione, del resto, si realizza con l’aggiunta di affissi, che nella parola colle ovviamente non sono presenti; parole derivate morfologicamente da collo sono, per esempio, colletto e il verbo scollare (da cui, poi, scollatura).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Il termine compagno deriva dal latino miedevale companio (“cum panis”) come è riportato nell’Etimologico Cortellazzo-Zolli della Zanichelli e in altri dizionari. Tuttavia mi piacerebbe sapere se è noto quando esattamente è stato introdotto nel Medioevo e le eventuali fonti più antiche conosciute dove compare la parola. 

 

RISPOSTA:

Le consiglio di fare lei stesso questa ricerca, usando lo straordinario TLIO, a cui può accedere a questo indirizzo: http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/. Vedrà che la parola è ben attestata già dalla metà del XIII secolo, quindi dagli albori della scrittura in volgare, in testi di varia provenienza. 
Se, invece, a lei interessa non la prima attestazione in un volgare romanzo del territorio italiano della parola compagno, ma la prima attestazione in latino medievale della parola conpanio, il luogo da lei cercato è questo: 
 

Si quis in hoste de conpanio de conpagenses suos hominem occiderit, secundum quod in patria si ipso occidisset conponere debuisset in triplo conponat.

Si tratta di un articolo delle novellae della lex salica, di cui è difficile stabilire il periodo di redazione ma il cui terminus ante quem è l’inizio del IX secolo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica

QUESITO:

Perché si dice maschera per la persona che lavora nel cinema? Le maschere hanno portato o messo delle maschere un tempo in passato? E se sì, perché?

 

RISPOSTA:

L’etimologia della parola maschera è discussa: l’ipotesi più accreditata è che la parola base sia il latino tardo MASCA ‘strega’. Il significato originario di ‘finto volto che nasconde i veri lineamenti della persona’  già nel Cinquecento si allarga per indicare anche la persona che porta una maschera. A questo significato risale quello di ‘inserviente di un teatro o di un cinema che svolge vari servizi di accompagnamento degli spettatori’. Nel Settecento, soprattutto a Venezia, infatti, tali inservienti portavano una maschera (quindi erano delle maschere) per nascondere la propria identità e potere quindi decidere con libertà a quale spettatore dare ragione in caso di dispute (in un periodo in cui i teatri erano ambienti meno regolati e formali di oggi).
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

Vorrei sapere se è da considerarsi errore l’espressione “più acerrimo” oramai di uso comune e presente anche in opere di Pirandello.

 

RISPOSTA:

La risposta più sintetica è: sì, è ancora da considerarsi errore, perché le grammatiche e i dizionari dell’italiano odierno considerano tuttora acerrimo come superlativo colto (latineggiante) di acre e agro, rispetto al meno colto agrissimo (pure possibile); come tale, non ammette alcuna gradazione (più acerrimomeno acerrimoil più acerrimo ecc.).
Ma, come ben sa, la lingua, la grammatica e la linguistica raramente ammettono risposte semplificate e rassicuranti, come ogni fenomeno umano e sociale. Acerrimo è sempre più spesso avvertito (e da anni: Pirandello: “Il mio più acerrimo nemico”, La rallegrata) come aggettivo autonomo, proprio in virtù della sua natura anomala rispetto al regolare agrissimo, e come tale si presta ad essere usato come aggettivo non superlativo, anche con piùpiù/meno acerrimo.
Secondo quanto osserva il glottologo Salvatore Claudio Sgroi, che sul concetto di errore produce tuttora decine di articoli, potremmo dire che su più acerrimo agiscono due regole:
– regola 1, etimologica: più acerrimo non è ammesso, per via della natura superlativa di acerrimo;
– regola 2, analogica e morfologica: acerrimo si distacca dagli altri superlativi, come tale ha acquisito una sua autonomia, tanto da consentire forme come più/meno acerrimo ecc.
Ciascuno è libero di optare per la regola 1 o 2.
Dato che ogni lingua è fatta non soltanto di regole ed eccezioni ma anche di percezioni (sociali), al momento la situazione è più o meno la seguente: sebbene anche autori colti (Pirandello), del passato e del presente, abbiamo usato più acerrimo, la maggioranza dei parlanti italiani colti attuali ritiene discriminante socialmente (cioè “da ignoranti”) l’uso di una forma come più acerrimo, che quindi ancora oggi è bene evitare nel contesto scritto formale.
Dato che ogni lingua cambia nel tempo, è molto probabile che tra pochi anni acerrimo perda completamente la propria trasparenza etimologica e venga dunque considerato un aggettivo non alterato a tutti gli effetti. A quel punto tutte le grammatiche e tutti i dizionari accoglieranno più acerrimo come forma normale e anche noi “reazionari” della lingua ci arrenderemo all’evidenza e scriveremo più acerrimo senza colpo ferire. Ma, finché ciò non accadrà, suggerisco di continuare a evitare forme quali più acerrimo, con buona pace di Pirandello e di Sgroi.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Pronti è un verbo (participio presente) oppure un aggettivo? In questa frase sembra un participio presente: “i nuovi personaggi contano veramente: perchè pronti a sacrificare la loro vita per qualcosa di più grande”.
Se è un participio presente, qual è l’infinito? Ho trovato la forma verbale essere promente, che non avevo mai sentito, ma esiste?

 

RISPOSTA:

Pronti è la forma maschile plurale dell’aggettivo pronto. Effettivamente questo aggettivo ha un’origine verbale: continua, infatti, il latino PROMPTUM, participio perfetto del verbo PROMERE. Si badi, comunque, che il participio perfetto latino corrisponde grosso modo al participio passato, non al presente. Un aggettivo (oggi usato quasi esclusivamente come nome) che continua un participio presente latino è, per esempio, presidente, dal latino PRAESIDENTEM, participio presente del verbo PRAESIDERE.
Si ricordi che i participi presenti italiani finiscono soltanto in -ante (amante) o -(i)ente (ardentedormiente). 
Oltre che dalla terminazione simile a quella dei participi presenti, l’idea che pronto potesse essere una forma verbale potrebbe essere stata suggerita dalla sintassi della frase: perché pronti, infatti, è una proposizione nominale, cioè senza verbo. In questo caso, però, è facile riconoscere che il verbo è essere sottinteso: perché sono pronti.
Per quanto riguarda promente, la forma non è attestata, cioè non è stata mai usata, ma è teoricamente esistente. Sarebbe il participio presente di promere, il verbo che continua proprio il latino PROMERE, etimologicamente legato anche a pronto, e che significa ‘manifestare’ o ‘estrarre’. Se fosse usato, quindi, promente significherebbe ‘manifestante’ o ‘estraente’. Va detto, comunque, che promere, oltre a essere un verbo difettivo, perché è stato usato soltanto alla terza persona singolare dell’indicativo presente, è anche molto raro e aulico; non ci sono molte possibilità, quindi, che promente venga mai usato.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi è sorto un dubbio relativamente alla parola gelato. È un nome primitivo o derivato da gelo? In quest’ultimo caso come vanno considerati i nomi gelataiogelateriagelatiera ecc.: derivati anch’essi da gelo o da gelato?

 

RISPOSTA:

Gelato è il participio passato del verbo gelare ed è usato comunemente come aggettivo. È usato anche come nome, soltanto con il significato di ‘cono gelato’.
Etimologicamente, si potrebbe pensare che gelare derivi da gelo per suffissazione, ma il dizionario GRADIT ci ricorda che il verbo è stato accolto in italiano già formato, direttamente dal latino GELARE, indipendentemente da gelo, che continua il latino GELUM (o GELU). Esso è, pertanto, una parola primitiva. Una volta entrato in italiano, però, i parlanti lo hanno interpretato come derivato di gelo, tanto che ne hanno costruito la coniugazione sul modello dei verbi regolari della prima classe a partire dalla base (o tema) gel(o)-. Definirlo derivato di gelo, pertanto, non sarebbe un errore. Più precisamente si potrebbe definire pseudoderivato.
Per quanto riguarda gelataiogelatiera e gelatieregelateria, essi sono derivati di gelato, che infatti si riconosce alla base di tutte questa parole (gelat(o)-aio ecc.). Dalla base gelat(a)-, invece (femminile di gelato nel senso di ‘formazione di ghiaccio’), deriva gelatina. Da quest’ultima parola abbiamo avuto gelatinaregelatinizzaregelatinoso.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Nome
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QUESITO:

La locuzione prima di allora può essere riferita a un momento futuro? Ad esempio: “Il primo appuntamento libero è per il prossimo mese. Non ho trovato niente prima di allora”.

 

RISPOSTA:

Sì, l’avverbio allora può indicare un momento nel passato o nel futuro. Basti pensare alla sua etimologia: ad illam horam ‘in quel momento’, che non specifica se nel passato o nel futuro. Conseguentemente, prima di allora può ben indicare un momento che precede un altro momento futuro.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Etimologia
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QUESITO:

Spesso, nei dizionari, taluni termini (solitamente, verbi e aggettivi) sono associati, per così dire, a limitazioni d’uso che ne riducono i contesti di applicazione. Per esemplificare: sardonico (detto di viso o risata), flebile (detto di voce o suono), effluire (detto di gas o liquido). La letteratura (e non solo) ci insegna che ogni sistema linguistico, nel tempo, si è modificato, allargando tanto la disponibilità di vocaboli quanto le accezioni a essi ascrivibili. Mi viene in mente l’aneddoto legato alla parola bagnasciuga intesa come sinonimo di ‘battigia’ o ‘bàttima’. Fu Benito Mussolini, se non sbaglio, a impiegarla per la prima volta con questo significato (che, adesso, mi risulta essere il più diffuso, a discapito di quello originario).
Tornando all’oggetto dell’interrogativo, vi domando se in un periodo – tendenzialmente fantasioso – quale
 

Vidi quell’uomo misterioso, cupo: il suo approccio sardonico mi inquietava, anche per la circospezione con cui si muoveva nella stanza. Sentii effluire dal mio corpo l’energia che avevo raccolto fino a quel momento: e la già flebile speranza che la situazione potesse volgere a mio favore si esaurì all’istante…

i tre termini citati in precedenza (sardonicoflebileeffluire), che si allontanano dalle limitazioni d’uso indicate dai vocabolari, sono inaccettabili se sviluppati in tali accezioni, oppure le costruzioni che determinano possono dirsi corrette, anche in un’ottica metalinguistica, all’interno di uno scritto di stampo narrativo.

 

RISPOSTA:

Il cambiamento semantico delle parole è un fenomeno tanto ineluttabile quanto imprevedibile. Una delle cause possibili di cambiamento semantico è la paretimologia, ovvero la convinzione errata dei parlanti che una parola abbia una certa etimologia, da cui derivi un certo significato. Il caso di bagnasciuga si può interpretare proprio come un caso di paretimologia. La parola, infatti, sembra perfetta per descrivere la zona in cui la terra incontra il mare, soggetta al continuo andare e venire delle onde. Sappiamo che la parola ha un’origine diversa, perché nacque nel Settecento per designare la linea di galleggiamento delle navi, ma ben presto (certamente prima del famoso discorso del bagnasciuga del 1943 di Mussolini) fu usata con il significato ancora oggi corrente.
Un altro principio che muove il cambiamento semantico è l’assonanza, probabilmente alla base dell’evoluzione di flebile. Originato dal latino FLEBILEM (a sua volta dal verbo FLEO ‘piangere’), ha significato storicamente ‘piagnucoloso, lamentoso, che induce al pianto’, ma oggi significa anche  ‘debole, leggero, evanescente, appena percepibile’. A mio parere, l’assonanza con fiato e afflato, ma anche con fioco e persino fioresfiorare e simili, ha promosso questo spostamento, ulteriormente favorito dalla tipica associazione di questo aggettivo con oggetti effettivamente appena percepibili come il canto degli uccelli.  Addirittura, se flebile ancora conserva anche il significato originario, il suo allotropo popolare fievole ha soltanto il significato secondario. 
Anche l’uso figurato di un termine ne può determinare l’ampliamento semantico, fino a far dimenticare il significato originario. Un caso del genere è l’aggettivo cattivo, che deriva il suo significato attuale dall’uso figurato nell’espressione captivus diaboli ‘prigioniero del diavolo’, diffusosi nella Chiesa delle origini. In latino, infatti, CAPTIVUS significa ‘prigioniero’ (mentre cattivo si dice MALUS o IMPRŎBUS) e mai sarebbe potuto passare al significato di ‘cattivo’ senza il tramite dell’espressione figurata. Un uso figurato è anche alla base del caso di palinsesto di cui ci siamo occupati nella risposta n. 2800425 dell’archivio di DICO. Qui, addirittura, abbiamo un ampliamento del significato sulla base di un significato già figurato, legato alla programmazione televisiva. Se risaliamo indietro al significato originario del nome palinsesto, infatti, scopriamo che è ‘antico manoscritto di pergamena, il cui primo testo è stato raschiato via e sovrascritto’. 
Venendo alla sua proposta, nel caso di flebile non ci sono difficoltà, visto che flebile speranza è un’espressione già comunissima. Neanche approccio sardonico è originale. In rete se ne trova qualche decina di esempi, letterari ma anche di contesto medio, come questo: “L’inviato cult Valerio Staffelli, con il suo consueto approccio sardonico e dissacrante, ha consegnato nelle mani del rapper, come da rituale, il famigerato Tapiro d’oro” (ilgiornale.it, 2019). Effluire è effettivamente usato tipicamente in relazione a gas o liquidi, ma la rappresentazione figurata dell’energia come una sostanza fluida è piuttosto credibile, tanto da giustificare, sulla scorta del principio dell’uso figurato, questo ampliamento di ambito.
In conclusione, i suoi tre esempi di ampliamento di ambito d’uso lessicale, con conseguente cambiamento del significato, sono perfettamente accettabili, tanto che due su tre sono già usati. Il cambiamento semantico è davvero tumultuoso, accade sotto i nostri occhi senza che ce ne accorgiamo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Da quello che so, sproloquiare ha come sinonimo ‘parlare a vanvera o a sproposito, straparlare’. Volevo sapere se ‘parlare in maniera spropositata’ rientra nello sproloquiare.
Da una ricerca che ho fatto sul dizionario Treccani, spropositato significa ‘pieno di spropositi, di gravi errori: un tema s., anche se non privo di idee; un discorso s. e confuso; per cui dire che una persona che fa un discorso spropositato sproloquia è corretto? C’è sinonimia tra sproloquiare parlare in maniera spropositata (intendendo ‘fare discorso pieno di spropositi’)?

 

RISPOSTA:

Uno sproloquio è una introduzione (in latino proloquium) che degenera (come indica il prefisso s-) in un discorso. Chi sproloquia, quindi, fa un discorso troppo lungo rispetto al dovuto e, nonostante questo, non arriva a nessuna conclusione, perché il suo discorso non è altro che l’introduzione di un altro discorso. Nella parola sproloquio, come si vede, è contenuta sia l’idea dell’eccesso verbale, sia quella della inanità, che, in effetti, spesso accompagna l’eccesso. Non è contenuta, invece, l’idea della scorrettezza grammaticale. 
Di conseguenza, uno sproloquio è per sua natura spropositato, cioè ‘fuori da ciò che è proposto’ (suffisso s- + il latino propositum ‘proposto’), nel senso di ‘diverso da quello che si propone di essere’. Si badi che spropositato si riferisce sempre alla quantità, non alla qualità, quindi non allude a possibili errori, sebbene sproposito, invece, indichi tipicamente l’errore grave. C’è, quindi, uno scarto semantico tra sproposito ‘errore grave’ e spropositato ‘eccessivamente grande o lungo’. Se, quindi, uno sproloquio è certamente un discorso spropositato, non è altrettanto certamente (ma non si può escludere che lo sia) un discorso pieno di spropositi.
Si tratta di una distinzione sottile: spesso, infatti, si considera l’eccesso verbale come automaticamente comprensivo di una buona dose di errori. Non a caso, il verbo straparlare, che si riferisce a persone che non sono pienamente in possesso delle proprie capacità mentali, contiene entrambe le idee presenti in sproloquiare, quella dell’eccesso e quella dell’inutilità, ma allude anche alla presenza di errori nel discorso. A straparlare si avvicina l’espressione (parlare) a vanvera ‘senza riflettere, a caso’, che sottolinea, però, più che la perdita della ragione da parte di una persona solitamente savia, lo sforzo di parlare a proposito da parte di una persona che è momentaneamente o congenitamente incapace di farlo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Verbo
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QUESITO:

Qual è l’origine della parola buzzo e del modo di dire di buzzo buono?

 

RISPOSTA:

L’etimologia precisa del termine buzzo (attestato anche, in diverse forme, in varie regioni, sia al Nord sia al Centro) è controversa. Parrebbe però connessa con una radice germanica dal significato di ‘stomaco, ventre’, da cui anche il milanese buseca ‘trippa’, italianizzato in busecca e busecchia (attestato anche in Boccaccio), e il toscano e romanesco buzzurro ‘cafone’ (ma letteralmente ‘uomo panciuto’). L’espressione di buzzo buono, cioè ‘con impegno’, varrebbe dunque, alla lettera: ‘con tutto lo stomaco, con tutte le interiora, con tutto lo sforzo e l’energia possibili’.
Fabio Rossi

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Io lavoro all’università e malgrado la mia, diciamo così, buona conoscenza dell’italiano, mi trovo a chiedere sempre: ma come devo scrivere: l’8 aprilel’1 aprilelo 08 o lo 01? O è meglio scrivere il 1° o scriverlo in lettere? Inoltre, si scrive dall’1 o dallo 01?
E poi conseguente o consequente? Io ho scritto conseguente perchè da una azione primaria dovrebbero seguirne altre… consequenziali (o conseguenziali?). Sono giuste tutte e due?

 

RISPOSTA:

Tutti dubbi più che legittimi, stia pur tranquillo/a, e condivisi dalla gran parte degli italiani, anche colti, per via del fatto che certe cose non vengono (quasi) mai spiegate dalle grammatiche, oppure perché l’italiano è più elastico (e dunque ammette più soluzioni) di quanto comunemente si creda. Rispondiamo con ordine a tutte le sue domande.
1) Decisamente meglio l’8, l’11 ecc. La soluzione con lo zero davanti è tipicamente burocratica e da riservarsi a quei formulari che pretendono due cifre per ogni numero: 04/05/15 per il 4 maggio del 2015, per intenderci.
2) Se però il giorno del mese è il primo (nella scrittura distesa, meglio scrivere i numeri a lettere, piuttosto che in cifre, ma nelle date secche, e nei formulari burocratici, la scrittura in cifre è obbligatoria), allora sarebbe meglio scrivere “1° maggio”, piuttosto che “1 maggio”, e pronunciare “primo maggio” (o giugno ecc.) piuttosto che “uno maggio”. Questo per via della consuetudine antica (conservatasi quasi soltanto per il primo giorno di ogni mese) di intendere il numero del giorno come numero ordinale (primo, secondo ecc., sottinteso giorno) e non cardinale. Comunque, anticamente, si utilizzavano per le date anche i numeri cardinali, ma li si introduceva con gli articoli: per es., “li 22 di aprile”. Sottinteso: giorni. Naturalmente, li è un articolo arcaico, oggi non più possibile, anche se rimasto disponibile nei soliti formulari burocratici: es. Messina, li… Dato che è articolo e non avverbio di luogo, la forma con l’accento (pure talora attestata) è erronea: Messina, lì… Erronea perché, come ripeto, non si tratta di un avverbio di luogo.
3) Si dice e si scrive “dal 2 all’8”, “dal 1° al 10 luglio” e simili. Ovviamente, se il formulario impone sia l’articolo sia lo zero iniziale, l’unica forma corretta non può che essere “dallo 01 allo 08”, anche se, come ripeto, è brutto (sia a vedersi scritto, sia a sentirsi pronunciato) e burocratico. Meglio sempre senza zero.
4) Seguente e conseguente si scrivono con la g in quanto derivano direttamente dall’italiano, come participi presenti del verbo seguire. Invece consequenziale è ripreso dalla forma latina consequentia, e per questo si scrive con la q. Si tratta comunque, all’origine, sempre di eredi del verbo latino sequi. Tuttavia, quando la parola che ne è derivata in italiano ha avuto una trafila etimologica popolare, vale a dire di uso ininterrotto dall’antichità fino ad oggi, con tutti gli inevitabili cambiamenti fonetici, la q si è trasformata (tecnicamente, sonorizzata) in g, come in conseguenzaseguire ecc. Quando, invece, la parola che ne è derivata ha seguito una trafila dotta, recuperando cioè artificiosamente l’antica forma latina, la q si è mantenuta: sequenzaconsequenziale. Spessissimo, dalla medesima forma latina, derivano diverse forme italiane (dette allotropi) con esiti fonetici diversi. Per es., dal latino vitium derivano tanto l’italiano vizio, quanto l’italiano vezzo. Da radium derivano radiorazzo e raggio ecc. ecc.
Fabio Rossi
 

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QUESITO:
Con un collega tempo fa c’era una diatriba su questo termine. Io, vedendo l’etimologia e cercando su un vocabolario on line dicevo che era altamente offensivo fare sarcasmo su altri. La sua fonte era Wikipedia 😉

 

RISPOSTA:
In effetti, l’etimologia della parola sarcasmo (il verbo greco sarkazo ‘dilanio’) lascia intendere che il termine indichi un atteggiamento estremamente negativo nei confronti di chi ne è fatto oggetto. Una considerazione generale, però, è che l’etimologia non esaurisce il significato delle parole (tanto per fare un esempio evidente, pupilla non significa in italiano ‘bambolina’, come in latino), ma ne rappresenta un nucleo che si arricchisce nel tempo e negli usi. Prendiamo un esempio come il seguente, di una famosa scrittrice del Novecento, Maria Bellonci (dal romanzo Rinascimento privato, 1986):

“Federico ha fatto anche questo” rispose con sarcasmo Alfonso, “ha sottoscritto il contratto nuziale sotto gli occhi dell’imperatore. E mai Carlo abdicherà alla sua maestà di ordinatore del mondo.”

È indubbio l’intento offensivo espresso dal termine; anche se, come si evince dall’esempio, l’offesa è indiretta e non particolarmente violenta. Il sarcasmo, infatti, sfuma spesso nell’ironia e nella beffa, di cui rappresenta quasi un sinonimo.
Fabio Rossi e Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Vorrei chiedere che differenza c’è tra le parole. spesso usate da sole come interiezioni, auguricomplimenticongratulazioni. Magari tra auguri e le altre e più facile, perché auguri guarda al futuro; ma le altre due a volte sono intercambiabili, a volte no. Me ne può spiegare l’uso?

 

RISPOSTA:

La parola auguri è stata oggetto di un approfondimento etimologico nella rubrica di DICO “La parola che non ti aspetti”. Trova l’articolo qui: http://www.dico.unime.it/2015/12/28/tanti-buoni-presagi-da-dico/.
Complimenti è un prestito adattato antico, dallo spagnolo cumplimiento ‘completamento, compimento di un compito’. Quando si fa un complimento a qualcuno, o si esclama “Complimenti!”, quindi, si compie il proprio dovere di dimostrare il proprio favore a quella persona. Come si può immaginare, questo dovere è virtuale, convenzionale, non ha niente di concreto; i complimenti, infatti, sono spesso vuoti e possono addirittura servire a mascherare sentimenti opposti. Non a caso, fare complimenti indica l’atteggiamento di chi rifiuta ostentatamente offerte o favori, anche se vorrebbe accettarli (un atteggiamento che è definito complimentoso); spesso, inoltre, l’esclamazione “Complimenti (per…)!” è fatta con un intento dichiaratamente ironico, per “onorare” un insuccesso.
Le congratulazioni, invece, sono tipicamente sincere e raramente ironiche. L’etimologia della parola congratulazioni rimanda al latino CONGRATULOR ‘rallegrarsi insieme’ e rivela, quindi, che l’atto riguarda i sentimenti, e in particolare la gioia che si prova per il successo di qualcuno a cui si vuole bene. Il nome congratulazioni è imparentato con grazie, che a sua volta può essere usato come interiezione. Di questo ci siamo occupati in un’altra risposta, che può leggere qui.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Interiezione
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QUESITO:

Qual è la differenza tra AFFERENTE ed EFFERENTE, ovvero se sono afferente vado verso qualcosa, faccio e se sono efferente sono ricettivo e ascolto? Nella comunità Osteopatia si usano questi termini e secondo me a senso invertito…

 

DOMANDA:

In questo caso l’etimologia è chiarificatrice: il prefisso ad- del verbo latino affero (che in italiano non si è continuato, ma ha lasciato solamente il participio presente con funzione di aggettivo afferente) indica un moto verso un punto nello spazio; ne consegue che afferente è detto di un mezzo che trasporta un contenuto di qualche genere verso una meta. Allo stesso modo, il prefisso ex-, che fa parte del verbo latino effero (anch’esso senza “eredi” in italiano, tranne il participio presente efferente), indica il movimento da dentro verso fuori, con le conseguenze semantiche prevedibili sulla parola. L’interpretazione di efferente come ‘ricettivo’, pertanto, è calzante, perché rispecchia l’idea di un trasferimento dall’interno di un luogo, fisico o metaforico, verso la persona che si sta concentrando su quel luogo, mentre quella di afferente come ‘in movimento verso qualcosa’ è leggermente imprecisa, perché non tiene conto del tratto semantico ‘portare’, ma tutto sommato adeguata, perché per poter portare qualcosa verso un punto bisogna andare verso quel punto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Buongiorno,

cortesemente siete in grado di aiutarmi a scoprire se esiste un significato per il nome di una ragazza conosciuta giorni fa? Il nome è MAVILLA; secondo la ragazza significa ‘prediletta’.

 

RISPOSTA:

Mavilla è un cognome italiano, piuttosto raro (ma comunque meno raro del nome proprio), presente soprattutto in provincia di Ragusa e in provincia di Parma. Potrebbe rientrare nel gruppo dei cognomi derivanti da toponimi, di varia origine, composti con villa ‘fattoria, tenuta di campagna’ oppure ‘città’ (nei derivati francesi). Ve ne sono con villa nella seconda parte (AltavillaBiancavillaFrancavilla…) o nella prima (VillanovaVillarosaVillasanta…). Per quanto riguarda il costituente Ma-, troppo facile sarebbe l’identificazione con l’aggettivo francese ma ‘mia’, che darebbe a Mavilla il significato complessivo di ‘la mia città’ (ma ville); in alternativa si può pensare che Ma- sia una deformazione di un costituente originariamente più lungo, che, però, non sono in grado di ipotizzare.
Proprio la difficoltà a identificare l’origine del primo costituente (ma anche il fatto che non risultano città, villaggi o contrade con questo nome) fa pensare che Mavilla non sia da accostare ai cognomi/toponimi con base villa, ma sia, bensì, un’altra delle tante varianti di un cognome molto diffuso in tutta Italia, MabiliaMobiliMobiliaMobilio, attestato fin dal Medioevo come nome proprio di donna, nella forma Mobilia (la o al posto della a può essere l’esito di una dissimilazione provocata dalla vocale finale), e plausibilmente evoluzione del nome latino *AMABILIA, legato all’aggettivo AMABILEM ‘amabile, degno di essere amato’ (vicino al significato supposto di ‘prediletta’). Non ho trovato attestazioni di AMABILIA nel mondo romano antico, ma l’esistenza di Mobilia giustifica l’ipotesi che esistesse un antenato AMABILIA, da cui, con una trafila diversa rispetto a quella che ha prodotto Mobilia, si è sviluppato Mavilla.
L’evoluzione da AMABILIA a Mavilla si spiega con una serie di passaggi: la caduta (aferesi) della vocale iniziale, provocata dalla confusione con la vocale finale delle parole precedenti (casi come cara Amabilia, che si pronuncia caramabilia, hanno prodotto alla lunga cara Mabilia); la spirantizzazione della labiale intervocalica (ovvero la trasformazione della [b], quando si trova tra due vocali, in [v]), come in habere > averedebere > doverecaballum > cavallo). La terminazione -lla invece che -lia (come in Mobilia), infine, può essere stata indotta dall’analogia con il suffisso -illa di altri nomi femminili antichi come CommodillaDomitillaPriscilla, forse rafforzata dalla somiglianza con il suffisso -ella, tipico, per varie ragioni, dei nomi femminili (AntonellaGabriella, Gisella…). Anche Mavilia è, comunque, attestato, soprattutto in Veneto.
Per quanto io parteggi per quest’ultima etimologia, riporto anche una terza possibilità, registrata dal dizionario I nomi di persona in Italia, di Alda Rossebastiano e Elena Papa (UTET, 2005): Mavilla potrebbe essere, secondo questa opzione, una variante del nome non latino (dal significato oscuro) Mavilo, legato, tra l’altro, a un martire cristiano del secondo secolo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Nome
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QUESITO:

Prima che il mio continuo correggere i miei genitori diventi la causa di conflitti a fuoco volevo che mi forniste una prova inconfutabile della correttezza dell’articolo i per il plurale di cioccolatino. È già abbastanza errato non riuscire facilmente a pronunciarlo senza triplicare la t, per non parlare del fatto che sento dire da anni
formule come lo cioccolato / lo cioccolatto la cioccolatta e simili aberrazioni. Anche in questi casi non mi dispiacerebbe poter eventualmente annoverare la vostra spiegazione come prova a mio favore in tribunale 😉

 

RISPOSTA:

L’articolo per cioccolatini è certamente iil cioccolatino / i cioccolatini. Allo stesso modo l’articolo indeterminativo è un. La propensione per *lo cioccolatino / *uno cioccolatino / *gli cioccolatini potrebbe derivare dalla pronuncia della affricata palatale iniziale come fricativa postalveolare, che avvicina cioccolatino a scioccolatino. La ricerca in rete di “lo cioccolatino” restituisce poche decine di risultati, tutte da fonti non autorevoli, commenti di utenti, pagine di social network, siti amatoriali e simili, a dimostrazione che l’oscillazione su questo punto della norma è trascurabile e *lo / uno cioccolatino / *gli cioccolatini sono da considerarsi substandard.
Leggermente più diffuso, soprattutto nel Sud Italia (appare qualche volta anche in Pirandello e Matilde Serao), è *cioccolattino/i, non registrato dal dizionario dell’uso GRADIT. Sebbene questa variante sia oggi esclusa dall’uso e da considerarsi substandard al pari di *lo cioccolatino, va detto a sua difesa che ha una formazione regolare (e non dimentichiamo le occorrenze letterarie). Deriva, infatti, dalle varianti di cioccolato con rafforzamento della consonante postonica intervocalica (un fenomeno tipico dell’italiano: si pensi a LEGEM > leggecioccolattocioccolatte e cioccolatta, normali nei secoli passati e ancora oggi esistenti (delle tre solamente cioccolatta non è registrata nel GRADIT). Il rafforzamento si spiega con l’etimo, che è lo spagnolo chocolate (a sua volta da una parola nahuatl), da cui si è sviluppato regolarmente l’adattamento cioccolatte e le altre due forme, analogiche dei nomi maschili in -o e dei femminili in -a. Probabilmente il francese chocolat ha, in seguito, prodotto cioccolato, che si è imposto sul concorrente più antico.
​Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sull’utilizzo del verbo incidere. Mi chiedo quale sia la forma corretta nel seguente esempio: “il provvedimento amministrativo incide negativamente sulla/nella/la sfera giuridica del privato”.

 

RISPOSTA:

La preposizione più comune con il verbo incidere è su, sia quando il verbo assume il significato di ‘influire profondamente’ (incidere sul carattere), sia quando prende quella specialistica del diritto di ‘gravare negativamente’ (incidere sul reddito). La ricerca di “incidere nella sfera” in Internet con il motore di ricerca Google mostra che l’espressione è piuttosto diffusa, ma solamente in ambito specialistico, mentre “incidere sulla sfera” è di gran lunga preferita nella lingua comune (“Fare l’amore allunga la vita e incide sulla sfera lavorativa”, titolo di un articolo del Giornale del 13 settembre 2015), con diversi esempi anche specialistici. La preferenza per la preposizione su è coerente con la semantica del verbo, che metaforizza una caduta su una superficie; ricordiamo, infatti, che l’etimologia del verbo è IN + CADERE ‘cadere su’. Nel suo caso specifico, poiché il complemento oggetto è rappresentato da un luogo figurato, o meglio ancora da un ambiente figurato, è naturale essere indotti a usare in, perché l’atto dell’incidere si configura, diversamente dal solito, come un ingresso nell’ambiente. 
In conclusione: entrambe le preposizioni sono corrette; tra le due, su è più comune e da preferire nella lingua comune, in è adatta, ma non obbligatoria, all’ambito specialistico.
Da scartare, invece, incidere la sfera, che è frutto della confusione tra i due omografi incidere ‘influire’ e incidere ‘intagliare’. Quest’ultimo, non il primo, regge il complemento oggetto (ad esempio incidere un disco…).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Avrei alcuni dubbi sull’uso della parola stigmatizzare. In particolare volevo chiederle un chiarimento sull’uso di questa parola nella frase riportata di seguito:
 

L’impossibilità  di prevedere l’esito dell’operazione progettuale è paradossalmente stigmatizzata da Eisenman nell’evocazione dell’imprevisto capace di donare un senso.

Si può utilizzare la parola stigmatizzata in riferimento al suo contenuto etimologico di stigma: ‘marcare un carattere distintivo’, invece che intenderne necessariamente il suo significato derivato – sempre da stigma – di ‘criticare, biasimare’?

 

RISPOSTA:

Il problema riguardo al significato del verbo stigmatizzare deriva dalla complessità del concetto espresso dalla parola stigma. Uno stigma non è solamente una caratteristica, ma è il risultato della percezione sociale di quella caratteristica, che distingue fortemente un individuo dalla maggioranza degli altri. Per questo motivo, uno stigma viene sempre imposto dagli altri, e per questo motivo è comunemente inteso come una caratteristica negativa. Il termine stigma, cioè, designa non un difetto in sé, ma un aspetto dell’individuo percepito da chi gli sta intorno come un difetto. Va de sé che spesso lo stigma di un individuo rappresenta non una pecca, ma una virtù, rilevata come pecca dalla società che mal tollera i diversi.
Il verbo stigmatizzare significa ‘attribuire uno stigma’, quindi ‘evidenziare una caratteristica come difetto’: è, quindi, decisamente connotato in senso negativo. Si può certamente contestare il senso che il sostantivo e il verbo da esso derivato hanno assunto, argomentando, per esempio, che è figlio di una società omologante intollerante verso i diversi. Questa, però, è un’operazione che andrebbe fatta esplicitamente, cioè spiegando perché e come si vuole attribuire al verbo stigmatizzare un significato diverso da quello corrente. Al contrario, usare il verbo nel senso di ‘rilevare un carattere, rimarcare’ senza giustificare tale scelta causerebbe certamente un fraintendimento del senso inteso.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Ho una domanda di tipo semantico: l’avverbio spesso è di tempo e corrisponde a frequentemente. Secondo Voi, è corretto scrivere: “La gente spesso non ha denti”?
Se la frequenza è una fatto temporale, la gente (nome collettivo), non può avere i denti qualche volta sì e qualche volta no.

 

RISPOSTA:

Quella che a lei sembra una stranezza si può spiegare sulla base della comune concezione semplificata del tempo come di un contenitore che si riempie e si svuota. Questa concezione porta alla associazione tra numerosità, quantità della massa e ricorsività: c’è una stretta relazione, cioè, tra il numero di individui che compie un’azione o si trova in uno stato, la grandezza di un fenomeno e la probabilità che l’azione, lo stato o il fenomeno si presentino nel tempo (cioè “riempiano il tempo”). Del resto, l’aggettivo italiano spesso ‘dotato di un certo spessore’ e l’avverbio spesso ‘molte volte’ continuano l’aggettivo latino spissus ‘folto, affollato’; come si vede, quindi, numerosità, massa e ricorsività sono concettualmente prossime, tanto da essere difficilmente distinguibili.
Si aggiunga che l’aggettivo frequente in latino (frequens) e in italiano antico significava anche ‘affollato’ (oltre che ‘solito, frequente’: “Questo sicuro e gaudioso regno, / frequente in gente antica e in novella, / viso e amore avea tutto ad un segno” (Paradiso, XXXI, 25-27). Ancora oggi, in italiano, il verbo frequentare, pur derivando da frequente, mantiene l’ambiguità concettuale di fondo: “Quel locale non lo frequenta nessuno” significa ‘nessuno affolla quel locale’.
Il suo esempio, sulla base di questa concezione comune, rispecchiata implicitamente nella lingua, è sensato: “la gente spesso non ha denti” equivale a “molta gente non ha denti”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Buonasera,

vi scrivo per chiedere informazione riguardo all’espressione molte grazie, che è stata oggetto di un’accesa discussione con un signore che sosteneva fosse errata. Secondo codesto signore l’espressione giusta sarebbe molto grazie. Vi chiedo gentilmente se mi potete chiarire la questione.

 

RISPOSTA:

Grazie è un nome (è il plurale di grazia), e come tutti i nomi concorda con l’aggettivo in genere e numero: molte grazietante grazieinfinite grazie ecc. La parola, però, si usa spesso come interiezione, da sola, con un significato del tutto diverso rispetto al singolare: infatti non posso dire *No, grazia. La specializzazione del plurale in questa funzione induce alcuni parlanti a considerare questa parola come un avverbio (al pari, ad esempio, di bene o male) e, di conseguenza, a pensare che debba essere accompagnata solamente da avverbi. Da qui il *molto grazie (sul modello di molto bene) proposto dal suo interlocutore, in realtà scorretto, ma anche il grazie assai, diffuso in alcune regioni meridionali e accettabile solamente in contesti molto informali.
L’uso di grazie come interiezione, quindi, non ha fatto perdere a questa parola la sua natura di nome; tanto che può ancora essere usata in frasi come “Madonna del Bosco – La Vergine che dispensa le sue grazie da un castagneto” (a proposito di una apparizione mariana in un bosco).
Si noti che l’interiezione grazie è una semplificazione dell’espressione rendere grazie ‘restituire benevolenze’ (dal latino gratias agere, dal significato simile). Quando ringraziamo, quindi, dichiariamo di contraccambiare con la benevolenza il favore ricevuto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Buongiorno, volevo sapere se infausto e infernale possono essere considerati sinonimi.

 

RISPOSTA:

Il significato dei due aggettivi è decisamente diverso, anche se la coincidenza delle prime lettere, e anche la comune accezione negativa, può far pensare il contrario. Infausto è l’opposto di fausto (collegato al verbo favēre ‘favorire’), e significa ‘malaugurato, che presagisce eventi negativi’. Torquato Tasso, nel canto XII della Gerusalemme liberata, così descrive l’armatura di Clorinda: “Depon Clorinda le sue spoglie inteste / d’argento e l’elmo adorno e l’arme altere, / e senza piuma o fregio altre ne veste / (infausto annunzio!) ruginose e nere”. Tasso, cioè, suggerisce che i colori rosso (rugginoso) e nero delle armi presagiscano il sangue e la morte a cui il pesonaggio sta andando inconsapevolemente incontro. Da qui, il significato dell’aggettivo si è evoluto verso quello più generico di ‘sfortunato’; come in questo esempio, dal romanzo del 2003 Vita di Melania G. Mazzucco (p. 252): “Sua madre gli aveva raccontato spesso l’ultima incursione – che aveva reso infausto il 1860. I corsari erano sbarcati sulla spiaggia di Scauri e da lì saliti a depredare Minturno e i suoi villaggi, ammazzando uomini e bambini fin nei vicoli di Tufo”. 
Infernale è l’aggettivo di relazione di inferno (dal latino infer ‘che sta in basso’). Indica, cioè, qualcosa che ‘ha a che fare con l’inferno’. Da questo significato si è sviluppato quello di ‘malvagio, diabolico’ e poi quello, iperbolico, di ‘terribile, tremendo, insopportabile’ e anche ‘faticosissimo’. Addirittura, nel caso di ritmo infernale, l’aggettivo prende il significato di ‘sfrenato, convulso’.
Fabio Ruggiano

 

 

 

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

La parola riluttante ha come significato esitante, refrattario. Il significato della parola può essere esteso ad inaffidabile Es: è una persona riluttante inteso come una persona poco chiara, di cui non ci si può fidare ciecamente, una persona che non mi convince…

 

RISPOSTA:

Alla base della riluttanza c’è il concetto della lotta (deriva, infatti, dal latino luttare), della resistenza a fare qualcosa, anche a comprendere qualcosa, a collaborare. Ripercorrendone gli usi letterari, spesso a riluttante è assegnato proprio il significato di chi non vuole collaborare, non vuole essere d’accordo, non vuole ascoltare le opinioni e le ragioni altrui, ecc. Il contesto, come sempre, è dirimente: si può essere riluttanti (cioè non voler collaborare) alla chiarezza, cioè volersi ostinare ad essere oscuri, ambigui. Ambiguo, per l’appunto: visto che l’italiano ha un bel termine preciso per esprimere il concetto di cui lei sta parlando (una persona poco chiara, che non mi convince), perché non usarlo? Se il lessico italiano fornisce la parola che esprime esattamente quello che vogliamo esprimere, usiamola, senza ricorrere a complicate metafore, metonimie, sinestesie, ipallagi ecc., e senza far troppo affidamento sulle capacità di comprensione dei nostri interlocutori. I quali, se confusi da termini poco chiari, possono ben essere… riluttanti alla comprensione!

Fabio Rossi

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Per indicare una situazione particolarmente affollata si dice “c’è gente a flotte” o “…a frotte?” C’è una connessione con la flotta navale?

 

RISPOSTA:

I termini flotta e frotta hanno significati diversi: il primo indica un insieme di navi, militari, mercantili o da trasporto, e, più recentemente, anche un insieme di aerei: “Alitalia vanta una delle flotte più moderne ed efficienti al mondo” dichiara il sito ufficiale della compagnia. Il secondo designa un gruppo di persone, o, estensivamente, di animali, soprattutto numeroso e disordinato (e si usa nell’espressione a frotte ‘in gran numero’).
Di là dalla differenza di significato, flotta e frotta sono geneticamente imparentati, perché hanno una base comune, il francese flotte. A sua volta, la parola francese è di derivazione latina: ha a che fare con il verbo fluo ‘scorrere’ e con il nome fluctum ‘onda, corrente’. Flotte è entrato in italiano come frotta, con il significato di ‘gran numero’, già nel Trecento (frotta è, quindi, più antico di flotta): per fare qualche esempio, Giovanni Boccaccio, nel Ninfale fiesolano, parla di “frotta delle ninfe” e Fazio degli Uberti, nel Dittamondo, scrive “Quegli uccelli, che volavano, a frotte / sentito avresti cadere tra’ piedi”.
La trasformazione della l di flotte nella r di frotta è dovuta al fenomeno della dissimilazione: in italiano ci sono poche parole che iniziano per fl-, perché fino all’XI secolo il nesso fl- era trasformato sistematicamente in fi- (florem > fiorefabulam > *flaba > fiaba, persino lo stesso fluctum > fiotto). Le parole che hanno fl- sono latinismi o prestiti più moderni da altre lingue, fluttoflorealeflagranza ecc. Nel Trecento, quindi, flotta doveva sembrare sbagliato (si poteva pensare che la l fosse stata inserita per sbaglio per influenza dell’articolo nella sequenza la flotta) e per questo i parlanti alla lunga l’hanno modificato in frotta. Del resto, come testimonia il suo dubbio, si fa presto a confondere flotta e frotta.
Flotta è entrato di nuovo in italiano nel Cinquecento, indipendentemente da frotta, per definire un insieme di navi: Giovan Battista Ramusio scrive, a metà Cinquecento, in un’opera che è tutto un programma, Navigazioni portoghesi verso le Indie orientali: “alli 28 del detto mese partimmo de lì tutta la flotta con vento calma”. Da allora non ha mai smesso di riferirsi alle navi, che vanno per mare o per aria.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gentilissimi, Quale tra blu e ble è la forma italiana corretta? Grazie.

 

RISPOSTA:

Le tre forme bleublé e blu sono tutte e tre corrette e possono dunque essere utilizzate liberamente.
Qualche precisazione di storia, stile e opportunità.
1) Tutte e tre derivano dal medesimo etimo, l’antica forma germanica, franca, blao, che diede vita anche all’antico italiano biavo ‘azzurro chiaro’,
2) Il termine blé andrebbe scritto più opportunamente con l’accento acuto ed è considerata variante meno formale e meno comune di blu.
3)  Bleu è un francesismo: dato che sia blu sia blé ne sono gli adattamenti italiani, tanto meglio optare per questi ultimi.
4) Dato che blu è la forma più comune, più diffusa in italiano, e anche avvertita come più formale, o almeno adatta a tutti i registri, meglio optare per quest’ultima, piuttosto che per blé.

Fabio Rossi

Parole chiave: Etimologia, Registri
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QUESITO:

In Liguria si usa la parola “Rebecca” per indicare il cardigan. Sapete dirmi qual è l’origine di questa parola, che non credo faccia parte dell’italiano standard? Grazie

 

RISPOSTA:

Il termine rebecca ‘cardigan’, pur comune, non figura, in effetti, nei principali dizionari storici del ligure e del genovese, segno, evidentemente, della relativa modernità del termine, o della sua almeno parziale gergalità. Possiamo, dunque, soltanto formulare delle ipotesi etimologiche. Almeno tre.
1) Dallo spagnolo rebeca, dal nome del personaggio dell’omonimo film di Hitchcock (Rebecca, 1940), che indossava quel capo d’abbigliamento.
2) Dall’etimo ebraico (controverso) del nome proprio Rebecca, che equivale, più o meno, a ‘legame’. E dunque, per transizione, capo d’abbigliamento che si lega, cioè allaccia.
3) Dal francese se rebiquer ‘arricciarsi, rivoltarsi all’insù’, anche riferito a collo di capi di abbigliamento.
Come spesso accade, non è possibile optare con assoluta certezza per l’uno o per l’altro etimo, in assenza di testimonianze dirette e attendibili.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Salve, mi piacerebbe sapere l’origine della parola “baitta” spesso utilizzata
dai giovani messinesi per identificare una ragazzina altezzosa, troppo sicura
di sé. Purtroppo, facendo una semplice ricerca su internet, non ho trovato
alcuna informazione.

 

RISPOSTA:

Come giustamente dice Lei, il termine (baittu/a, diminutivo di baiu) è praticamente assente da tutte le fonti lessicografiche, italiane e dialettali, a stampa e online. Tranne una: l’ottimo, encomiabile Lessico Etimologico Italiano (LEI) curato dal linguistica tedesco Max Pfister ed edito, a partire dal 1979 e tuttora in corso di stampa, presso l’editore Ludwig Reichert di Wiesbaden. Da questo imprescindibile strumento scientifico, si ricava quanto segue: l’etimo di questa e di moltissime altre forme (da baio a baiocco) è il latino badius/baius dal significato originario di ‘rosso’. Da quest’etimo hanno preso vita migliaia di forme e significati in tutti i dialetti italiani, a indicare animali, vegetali, persone, monete, oggetti vari ecc. Tra i moltissimi lemmi associabili a badius, si ricava il siciliano baiu, che può significare varie cose, da ‘ragazzetto’ a ‘domestico’. È chiaro che il suo baittubaitta è un diminutivo di questa forma. La trafila semantica (metaforica) che può aver condotto da ‘rosso’ a ‘ragazzo’ può essere duplice: 1) baio > cavallo > mulo > soldato, lavoratore, garzone ragazzo ecc.; 2) rosso > carne poco cotta > cosa o persona incerta, che vale poco ecc. (vi sono, nei vari dialetti, esempi molteplici di questi riferimenti alle persone e alle situazioni, da ‘tempo incerto e variabile’ a ‘persona da poco’, da ‘uomo poco virile’ a ‘persona giovane’  ecc.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Mi confondo sempre con questi due termini. Castrato si usa per il gatto maschio e sterilizzato si usa per il gatto femmina?

 

RISPOSTA:

Non è esattamente così. La sterilizzazione è un procedimento che rende un organismo o un ambiente sterile, sia nel senso di ‘incapace di generare prole’, sia in quello di ‘incapace di generare germi, igienico’. Quest’ultimo senso, per essere più precisi, è molto più recente del primo, essendo stato introdotto in italiano, dal francese stériliser, solo alla fine dell’Ottocento, mentre il verbo esiste con il primo significato almeno dall’inizio del Seicento.

Esistono diversi metodi per sterilizzare un animale (compreso l’essere umano), tra cui la castrazione (gli altri più comuni sono la vasectomia e la sterilizzazione chimica). Castrazione deriva dal verbo latino castro, che ha lo stesso significato dell’italiano ed è di solito accostato al verbo greco keá zo ‘fendere’. Il procedimento della castrazione consiste nell’asportazione delle gonadi, e si opera, con le ovvie differenze dovute alla diversa anatomia, tanto sui maschi quanto sulle femmine.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Perché alcune regioni hanno l’articolo maschile e altre l’articolo femminile
visto che il sostantivo “regione” è comunque femminile ?? ( es. Il Piemonte,
la Lombardia) Stesso dubbio sui fiumi… il Po, la Senna. Grazie.

 

RISPOSTA:

La scelta dell’articolo dipende unicamente da ragioni storiche e di tradizione etimologica: per es., il Piemonte deriva dal ‘piede del monte’, cioè ai piedi delle Alpi. Il Friuli deriva da ‘forum Iulii’, cioè ‘il foro di Giulio (Cesare)’, antico nome di Cividale. Lo stesso vale per i fiumi e per tutti i nomi di luogo (l’etimologia di Po è assai controversa, ma evidentemente è sempre stata percepita al maschile). In molti casi, sicuramente ha influito anche la desinenza finale: una -a finale incoraggia l’articolo femminile, a differenza della -o finale. Quindi alla base della scelta dell’articolo non c’è il nome generale (regione, o fiume, ecc.) bensì l’etimologia (solitamente latina) del nome di luogo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Articolo, Etimologia, Nome
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