Tutte le domande

QUESITO:

È corretto usare espressioni come risposta inviata a mezzo mailrichiesta evasa a mezzo pec, oppure è più corretto l’uso della locuzione per mezzo mailper mezzo pec?

 

RISPOSTA:

Le locuzioni preposizionali a mezzocon il mezzoper il mezzoper mezzo sono tutte attestate nella storia della lingua italiana, con fortuna diversa a seconda delle epoche e del gusto dei parlanti. Il Grande dizionario della lingua italiana, infatti, le riporta tutte insieme come varianti della stessa locuzione (s. v. Mèzzo^2^). Bisogna, però, ricordare che tutte queste varianti sono, nell’italiano standard, completate dalla preposizione di, quindi a mezzo dicon il mezzo diper il mezzo diper mezzo di. Contro a mezzo di si pronunciano Pietro Fanfani e Costantino Arlía nel loro famoso “Lessico dell’infima e corrotta italianità” del 1881, un dizionario di voci considerate dai due studiosi scorrette o ingiustificate. Il dizionario ottocentesco suggerisce che a mezzo di sia un calco del francese au moyen (ma chiaramente intende au moyen de) e sostiene che non ci sia motivo per usare in italiano questa espressione perché a non può sostituire per (quindi a mezzo non può sostituire il ben più comune per mezzo) e perché la locuzione a mezzo esiste già e significa ‘a metà’. Il dizionario registra persino l’uso del simbolo matematico 1/2 al posto della parola mezzo nella locuzione, ovviamente condannandolo sprezzantemente, a testimonianza che la sostituzione delle parole con i numeri era una strategia già sfruttata a metà Ottocento.
Gli argomenti dei due studiosi contro a mezzo di funzionano in ottica puristica: non c’è motivo di introdurre in una lingua nuove espressioni se la lingua ha già gli strumenti per esprimere gli stessi concetti. Bisogna, però, rilevare che molte parole ed espressioni sono entrate in italiano da altre lingue in ogni epoca, anche se la lingua italiana in quel momento aveva strumenti espressivi equivalenti; l’innovazione, l’accrescimento, l’adattamento ai tempi sono fenomeni fisiologici in una lingua. Inoltre, l’ipotesi che a mezzo di si confonda con a mezzo è pretestuosa: intanto la preposizione di distingue nettamente le due espressioni, e poi il loro significato e la loro funzione sintattica sono talmente diversi che è impossibile scambiare l’una per l’altra.
Rispetto ad a mezzo di, oggi si va diffondendo a mezzo, senza la preposizione di. Ferma restando l’impossibilità di confondere anche questa variante accorciata della locuzione preposizionale con la locuzione avverbiale a mezzo (peraltro oggi rarissima), rileviamo che tale accorciamento è tipico dell’italiano contemporaneo: le preposizioni cadono in espressioni come pomeriggio (per di pomeriggio) e, proprio nel linguaggio burocratico, (in) zona (per nella zona di) in frasi come “La viabilità in zona Olimpico è stata ripristinata” (o anche “La viabilità zona Olimpico è stata ripristinata”), causa (per a causa di) in frasi come “La ditta dovrà pagare una penale causa ritardo dei lavori” e simili. L’eliminazione della preposizione è, come si vede dagli esempi, adatta a contesti burocratici o, in alcuni casi, contesti comunicativi rapidi e informali (è favorita, per esempio, dalla scrittura di messaggi istantanei); è facile prevedere, però, che le riformulazioni accorciate di queste espressioni diventeranno prima o poi più comuni di quelle complete, fino a scalzarle del tutto dall’uso. Non a caso, nella sua stessa domanda lei propone di sostituire a mezzo con per mezzo, ugualmente priva della preposizione di.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho bisogno del vostro aiuto per capire come interpretare uno dei criteri previsti per l’authorship di un articolo su una rivista scientifica.
La frase, tradotta da me in italiano è la seguente:
“Contributi sostanziali all’ideazione o alla progettazione dell’opera; o all’acquisizione, analisi o interpretazione di dati per il lavoro”.
Dalla prima parte della frase mi è chiaro che è sufficiente avere contribuito in maniera sostanziale all’ideazione O alla progettazione dell’opera; ho però un dubbio su come interpretare la seconda parte della frase, laddove si tratta dell’analisi dei dati. Tra acquisizione e analisi è possibile che si intenda una E, oppure, visto che l’ultima congiunzione dell’elenco può essere solo sottintesa (senza alcun dubbio) una O?
Per completezza riporto anche la frase originale inglese:
“The ICMJE recommends that authorship be based on the following 4 criteria:
Substantial contributions to the conception or design of the work; or the acquisition, analysis, or interpretation of data for the work; AND (…)”.

 

RISPOSTA:

Si tratta di tre alternative; per attribuirsi il titolo di author, cioè, bisogna aver contribuito sostanzialmente almeno a una delle tre fasi di elaborazione del lavoro (oppure anche a nessuna delle tre, se si è contribuito alla ideazione o alla progettazione).
Ovviamente, bisogna considerare anche gli altri tre criteri (qui non riportati), che sono chiaramente indicati come aggiuntivi (non alternativi) tramite AND.
Sottolineo che in italiano bisogna ripetere la preposizione articolata o almeno l’articolo davanti a tutti i membri dell’elenco: oppure all’acquisizione, all’analisi o all’interpretazione / oppure all’acquisizione, l’analisi o l’interpretazione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sottoporvi un quesito (sperando sia in linea con il tipo di argomenti da voi trattati).
In navigazione si usa il termine ‘doppiare’ quando si vuole esprimere l’azione di superare/passare un capo con un’imbarcazione; ad esempio “doppiare Capo Horn in barca a vela è pericoloso”.
Il mio dubbio riguarda l’origine della parola italiana: trovo anti-intuitiva la parola ‘doppiare’ che assomiglia (e derivare) da “doppio, due volte” in relazione all’azione che esprime (superare un capo), sopratutto se paragonata all’inglese dove si utilizza il verbo ‘round’ (round girare/passare attorno).

 

RISPOSTA:

Doppiare ‘oltrepassare, superare un ostacolo’ è un tecnicismo marinaresco entrato in italiano in epoca rinascimentale come ampliamento semantico (o prestito semantico) del verbo doppiare, già esistente con il significato di ‘rendere qualcosa due volte maggiore, raddoppiare’. L’origine del prestito è lo spagnolo doblar, che all’epoca aveva già il significato di ‘oltrepassare un ostacolo’. Spiegare perché doblar avesse sviluppato questo significato non è facile: probabilmente dal significato del latino volgare duplare ‘rendere doppio, raddoppiare’ si è sviluppato il significato ‘piegare’ (perché quando si piega una linea si ottengono due segmenti distinti, quindi si raddoppia la linea). Questo significato, però, può essere riferito alla rotta necessaria per superare un ostacolo, ma non all’ostacolo stesso: è la rotta, cioè, che viene doppiata ‘piegata’, non l’ostacolo. Per spiegare l’uso effettivo del verbo (doppiare un ostacolo, non doppiare una rotta), quindi, dobbiamo ipotizzare un ulteriore slittamento semantico, da ‘piegare’ a ‘girare, aggirare’. I verbi to round (inglese) e umschiffen ‘circumnavigare, navigare intorno’ (tedesco) conferma, del resto, che l’atto del superare un ostacolo piegando la rotta della nave è comunemente definito come ‘girare, aggirare’.
A margine va detto che negli sport su pista il verbo doppiare è usato come estensione del tecnicismo marinaresco, e infatti ha il significato di ‘superare, oltrepassare un concorrente’; non c’è in questo significato alcun riferimento al ‘raddoppiamento’ (quando si doppia un concorrente non si raddoppiano i giri conclusi, ma semplicemente se ne aggiunge uno).
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

 

Vorrei capire se in questo elenco («camicie a righe, a disegni, a scacchi color corallo e verde mela e lavanda e arancione chiaro, coi monogrammi in indaco») le due coppie di colori – corallo e verde mela, lavanda e arancione chiaro – sono riferite soltanto alle camicie a scacchi o all’intero elenco di camicie. E, nel secondo, caso se a tutt’e tre i tipi di camicia.

Questa citazione è tratta da “Il grande Gatsby”.

 

RISPOSTA:

 

Il dubbio può essere sciolto controllando la versione originale del testo: «shirts with stripes and scrolls and plaids in coral and apple-green and lavender and faint orange, with monograms of Indian blue». Stando al testo in inglese, sarei orientato ad affermare che i colori non si riferiscono necessariamente ai tipi di camicie descritti prima; lo si deduce dalle preposizioni che seguono la parola shirts ‘camicie’: with, in e dopo ancora with. Si suppone, quindi, che le camicie siano di vario genere (a righe e a disegni e a scacchi) e di vari colori (color corallo e verde-mela e lavanda e arancione chiaro). La presenza della virgola prima di with monograms (coi monogrammi in indaco) mi pare dimostri quasi sicuramente il riferimento dei monogrammi a tutti i tipi di camicia. Del resto, una persona cifra tutte le camicie (per marcarne l’appartenenza e l’identità), non solo un certo tipo. Sia i colori sia il monogramma, quindi, si riferiscono, a mio modo di vedere, a tutte le camicie, non soltanto a quelle a scacchi.

La traduzione in italiano, pur fedele, rende meno tutta la distinzione che, invece, si nota meglio nel testo originale (anche se l’assenza della virgola dopo plaids lascia un certo margine di ambiguità). La differenza fra testo originale e traduzione risiede nel modo di elencare: il primo per polisindeto, cioè attraverso l’accumulo della congiunzione and (e); il secondo per asindeto nella prima parte (a righe, a disegni, a scacchi) e per polisindeto nella seconda (color corallo e verde-mela e lavanda e arancione chiaro). L’elencazione per polisindeto rallenta la prosa, quella per asindeto, al contrario, la velocizza.

Raphael Merida

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QUESITO:

Le espressioni carteggio informatico e carteggio digitale, usate al fine di indicare uno scambio di e-mail, messaggi WhatsApp o sms, possono essere considerate corrette? Se così non fosse, quali altre espressioni potrebbero essere usate in loro vece?

 

RISPOSTA:

Sì, entrambe le espressioni potrebbero essere usate per indicare uno scambio di sms, di messaggi inviati tramite e-mail o servizi di messaggistica istantanea. Per avere il requisito di carteggio (digitale o informatico), però, è necessario che lo scambio di messaggi fra due persone sia continuo nel tempo. Sarebbe possibile usare anche il termine corrispondenza, già adottato nel linguaggio informatico per indicare uno scambio di messaggi che hanno in comune lo stesso destinatario o lo stesso oggetto.

Raphael Merida

Parole chiave: Lingua e società, Nome
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QUESITO:

Fossato è un derivato di fosso? Maggiordomo può essere considerato un nome composto? Nomi come Patty o Dany sono nomi alterati?

 

RISPOSTA:

Tra fossato e fosso c’è un rapporto non di derivazione del primo dal secondo, ma di comune provenienza quasi dallo stesso verbo: fossato è un nome primitivo, che continua direttamente il latino FOSSATUM, a sua volta participio perfetto del verbo FOSSARE ‘scavare’ (variante intensiva del verbo FODERE ‘scavare’); fosso è un’evoluzione di fossa, a sua volta participio perfetto (al neutro plurale) proprio del verbo FODERE.

Anche maggiordomo, adattamento del latino MAIOR DOMUS ‘capo della casa’, è una parola primitiva. In generale, le parole formate per derivazione o composizione in altre lingue (prime tra tutte il latino e il francese) e successivamente entrate in italiano sono, dal punto di vista dell’italiano, primitive.

Il processo di alterazione può riguardare anche i nomi propri (Sergione, Annuccia, Giorgino…); in particolare, i nomi propri modificati con suffissi diminutivi o vezzeggiativi sono definiti ipocoristici. Gli esempi da lei portati, però, sono formati con procedimenti diversi dall’alterazione: il primo è a tutti gli effetti un nome proprio non alterato (non è possibile, infatti, risalire a una base; se fosse Patrizia l’esito sarebbe Patri o Patry), di origine inglese; il secondo è l’esito di un accorciamento (lo stesso processo che, per esempio, forma auto da automobile) da Daniele o Daniela. Si noti che l’accorciamento darebbe come risultato Dani: la forma Dany è influenzata in generale dal modello dei nomi inglesi, in cui una -i finale è sempre -y (e forse anche dal nome Danny, inglese come Patty).

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Desidero sottoporre alla vostra attenzione un altro testo dei miei. Volevo
sapere se questo testo fosse ben scritto (anche a livello della
punteggiatura) e se è necessario migliorare il riferimento
pronominale. Inoltre volevo sapere se nel testo si intuisce che la ragazza
si tiene il naso tappato dal momento in cui mi ci infila dentro fino a che
non raggiunge la sua abitazione. Per quanto riguarda l’ultima frase, volevo
sapere se questa fosse ben scritta, oppure se posso formularla ancora
meglio. In altre parole, ciò che voglio dire è che la ragazza fa le ultime
due azioni per tirarmi fuori dal suo naso.

*Successivamente provi ad acciuffarmi, però non ci riesci: sono troppo
piccolo. Ritenti una seconda volta e anche una terza, ma non c’è verso: è
troppo complicato per te. Tuttavia non ti arrendi, e alla fine, dopo aver
fatto quasi l’impossibile, hai successo: a questo punto usi le dita per
infilarmi nel tuo naso; dopodiché continui a tenerti sempre il naso tappato
per intrappolarmici dentro. Ormai non perdi più altro tempo ed esci di
soppiatto dal mio appartamento, e cammini a passo spedito verso casa tua:
che è lontanissima dalla mia. Non appena arrivi, entri subito in camera tua
e chiudi la porta della stanza. Adesso usi sempre le tue stesse dita per
tirarmi fuori dal tuo naso, così come provi a soffiarti, di nuovo, il naso
con la mano: una volta che mi hai espulso fuori da quello, non fai
nient’altro che posarmi con estrema delicatezza sul cuscino del tuo letto.*

Vi ringrazio come sempre per i vostri preziosi suggerimenti. Ne sto facendo
tesoro, e posso dire che grazie ai vostri consigli sto evitando un sacco di
errori. Ancora grazie per il magnifico servizio che offrite.

 

RISPOSTA:

I riferimenti pronominali sono corretti e quanto vuole esprimere si capisce benissimo. Forse si potrebbero migliorare un paio di cose che segnalo sotto nel testo tra parentesi quadre. Ciò che contribuirebbe a rendere il testo un po’ meno faticoso, tra l’altro, è l’eliminazione dei continui aggettivi possessivi tuo: è ovvio che una parte del corpo (naso) sia della persona di cui si fa riferimento, non c’è alcun bisogno di sottolinearlo, di norma. Questa abitudine (sbagliata) di dire continuamente mio nasotue mani ecc. è invalsa dall’inglese (per es. del doppiaggio), in cui invece i possessivi sono sempre obbligatori: my nosemy fingermy house ecc.
Ecco qui il brano con alcune proposte di correzione:

Successivamente provi ad acciuffarmi, però non ci riesci: sono troppo piccolo. Ritenti una seconda volta e anche una terza, ma non c’è verso: è troppo complicato per te. Tuttavia non ti arrendi, e alla fine, dopo aver fatto quasi l’impossibile, hai successo: a questo punto usi le dita per infilarmi nel tuo naso [qui tuo è corretto ed efficace, perché in effetti il contesto è davvero insolito: complimenti per la vivida fantasia!]; dopodiché continui a tenerti sempre il naso tappato per intrappolarmici dentro. Ormai non perdi più altro tempo ed esci di soppiatto dal mio appartamento, e cammini a passo spedito verso casa tua: [qui sarebbe meglio una virgola al posto dei due punti] che è lontanissima dalla mia. Non appena arrivi, entri subito in camera tua e chiudi la porta della stanza. Adesso usi sempre le tue stesse dita per tirarmi fuori dal tuo [eliminare tuo: ormai è chiaro di chi sia il naso] naso, così come provi a soffiarti, di nuovo, il naso con la mano: una volta che mi hai espulso fuori da quello [da quello è inutile e pesante: eliminarlo!], non fai nient’altro che posarmi con estrema delicatezza sul cuscino del tuo [sta a casa sua, è ovvio che il letto sia il suo: eliminare suo] letto.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Pronome
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QUESITO:

Dato che ci troviamo nel “periodo clou” dei matrimoni (e dato che non mi sembra il caso di correggere gli sposi nel momento più emozionante della loro vita), mi domandavo: è giusto rispondere “Sì, lo voglio” alla fatidica domanda posta dal prete (o da qualsiasi altra figura ufficiale che sta celebrando il matrimonio)?
Se non ricordo male, potrebbe trattarsi di un calco dall’inglese “I do”.
 

 

RISPOSTA:

Ha ragione, basterebbe il semplice (e fatidico) , in teoria e secondo la lingua italiana. Questa è la formula da sempre tipica del matrimoni italiani, almeno in passato (fu proprio il  a sancire il matrimonio dei miei genitori, per esempio). Oggi sono invalse altre formule di autodichiarazione (“Prendo te come mia/o legittima/o sposa/o” ecc. ecc.).
Credo che sul “lo voglio”  abbiano influito non poco i doppiaggi di film e serie televisive angloamericani, nei quali andava colmato il movimento labiale dell’inglese I do. Questa è la spiegazione data da molti anglisti che si sono occupati di lingua del doppiaggio, o doppiaggese. Anche se forse questa sarà stata una concausa, piuttosto che l’unica causa. Andrebbe infatti vista a ritroso tutta la storia della formula matrimoniale, per vedere che cosa vi fosse in passato, in latino e poi in italiano, se il solo , oppure il solo Lo voglio, oppure l’insieme di Sì, lo voglio, o magari altro ancora. Dico questo perché nell’italiano antico (sul retaggio del latino) sono frequenti risposte non secche (semplicemente sì o no, come oggi), bensì la ripetizione del verbo su cui è incardinata la domanda: Vuoi / Voglio, Lo voglio, non voglio, non lo voglio ecc.
Come che sia la questione, l’importante è usare una formula di risposta prevista dal diritto, altrimenti si rischia di invalidare il matrimonio (come pure è successo anche recentemente). La formula di domanda/risposta del rito matrimoniale, infatti (civile o religioso che sia) è un tipico caso di testo performativo, ovvero di testo vincolato alla forma al punto tale che proprio e soltanto la pronuncia di una determinata formula (e solo di quella!) produce un atto giuridico e un conseguente cambiamento di stato. Pertanto, attenzione: in questi casi non si scherza e non si va a gusto personale: si deve rispondere quello che prescrive la legge, altrimenti… addio matrimonio!

Fabio Rossi

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QUESITO:

Ho un dubbio sull’uso della parola ore. In un elenco di attività quale forma è corretta?
• H 12.00-13.00 SAGGIO DI CHITARRA
• H 15.30 SAGGIO PIANOFORTE, ECC.
oppure
• 12.00-13.00 SAGGIO DI CHITARRA
• 15.30 SAGGIO PIANOFORTE, ECC.
Ne approfitto per chiarire un altro dubbio: se in un testo si elencano i tempi scuola di un Istituto, il titolo dovrà essere al singolare o al plurale, precisamente:
Tempo scuola / Tempi scuola
– Scuola Carducci dal lunedì al sabato dalle ore 8.00 alle 16.00
– Scuola Falcone dal lunedì al venerdì dalle ore 8.30 alle 16.30

 

RISPOSTA:

Per la verità nei suoi esempi la parola ore non appare, ma appare H, che sta per l’inglese hour ed è entrato stabilmente nell’uso. La presenza dell’intervallo di tempo rende non necessario specificare che si tratta, appunto, di un orario, ma niente vieta di specificarlo ugualmente, come fa lei oppure con ore 12:00-13:00 saggio di chitarra… Nella stringa 15.30 SAGGIO PIANOFORTE, ovviamente, sarebbe bene indicare anche l’orario di chiusura dell’attività. Aggiungo che negli orari in italiano si preferisce separare i minuti dalle ore non con il punto, come fa lei (uso che rimanda al mondo anglofono), ma con la virgola o i due punti.
L’espressione polirematica tempo scuola indica i limiti temporali massimi all’interno dei quali possono essere organizzati schemi orari diversi, a seconda delle attività offerte e selezionate dalle famiglie degli studenti. Ne consegue che la forma più calzante sia il singolare nel caso ci si riferisca a un istituto, plurale, ma anche singolare, se ci si riferisce a più istituti (o più plessi dello stesso istituto).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se email è da considerarsi di genere femminile o maschile

 

RISPOSTA:

Il nome e-mail (o email) è stabilmente usato come femminile, sulla base della vicinanza semantica con il nome italiano lettera (oppure posta). In astratto sarebbe possibile considerarlo maschile, visto che la regola del genere dei nomi stranieri stabilisce di usarli tutti come maschili (tranne quelli che nella lingua d’origine sono femminili), ma l’uso femminile è talmente radicato da essere difficilmente modificabile.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La mia domanda riguarda la traduzione del seguente testo in lingua inglese.

“Having worked with any number of students through the years, I feel that meditators should follow the breathing where it seems most vivid and comfortable to them, where it is most likely to hold their attention. None of these places will always, in every sitting, remain the most vivid. But it is important not to keep jumping from one to another, feeding an already restless mind”.

Nella frase None of this places will always, in every sitting, remain the most vivid l’avverbio always non significa ‘in tutte le sedute’, sta solo dicendo che sempre in ogni seduta accade questo? Per spiegarmi meglio, non sta spiegando tra le parentesi cosa intende per always.

 

RISPOSTA:

La parte tra virgole, in every sitting, contraddice il verbo remain, perché il fatto che i posti non rimarranno vividi nel ricordo riguarda certamente la vita futura oltre le sedute, non le sedute di meditazione future. La traduzione che mi sembra più plausibile è questa: “Nessuno di questi posti sperimentati nelle sedute rimane mai più vivido degli altri”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Verbo
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QUESITO:

Traducevo una frase di un libro in lingua inglese.
Questa è la frase originale: “Cheng tried to hide overt function. So one sees that inhaling on posture and exhaling on transition seems to preclude application: this conforms to Cheng’s concealing use so that one remained relaxed throughout the form”.
Io l’ho tradotta in questo modo: “Cheng ha cercato di nascondere la funzione palese. Quindi si vede che l’inalazione sulla postura e l’espirazione durante la transizione sembrano precludere l’applicazione: questo è conforme all’uso occultante di Cheng in modo che si rimanga rilassati per tutta la forma.
In base a quello che si potrà interpretare, le mie domande sono queste: funzione palese si riferisce alla respirazione? Il verbo use si riferisce all’uso del respiro? 
Mi rendo conto sempre più spesso che in tante occasioni per capire quello che una persona scrive si dovrebbe parlare direttamente con l’interessato. A volte tante frasi suonano molto ambigue.

 

RISPOSTA:

L’impossibilità di chiedere spiegazioni allo scrivente è uno dei “difetti” dello scritto. Da questo deriva la necessità di cercare la massima chiarezza nello scritto, per prevenire l’ambiguità.
Nel suo caso, l’espressione overt function sembra riferirsi al meccanismo della respirazione descritto, come da lei ipotizzato. Use, invece, non è un verbo, ma un nome (infatti lei l’ha tradotto l’uso) e va considerato insieme all’aggettivo concealingconcealing use sembra definire un sistema generale all’interno del quale si inserisce anche la tecnica di respirazione descritta (che infatti si conforma a quest’uso, o sistema).
Un piccolo avvertimento sulla traduzione: so that one remained sarebbe ‘così che si rimanesse’ (non rimanga).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Nome, Verbo
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QUESITO:

Oggi ho tradotto una frase dall’inglese all’italiano: “Compare It with what you are learning” > “Mettilo a confronto con quello che stai imparando”.
Mi è stata posta la domanda perché ho usato due parole per tradurne una: what, mi sono resa conto che non so dare una spiegazione grammaticale. Esattamente perché usiamo quello che?

 

RISPOSTA:

Ovviamente non c’è niente di insolito nel fatto che due lingue esprimano in modo diverso lo stesso concetto. In questo caso specifico, in italiano si preferisce esprimere analiticamente, cioè con più di una parola, una funzione sintattica che in inglese è preferenzialmente sintetica, cioè espressa con una sola parola. La funzione in questione, in effetti, è duplice, ovvero sono due funzioni: la prima è quella di completamento del sintagma preposizionale introdotto da con, la seconda è quella di introduttore della proposizione relativa. Ecco spiegato perché in italiano troviamo la sequenza di due pronomi (quello che, o ciò che), oppure di un sintagma nominale e un pronome (la cosa / le cose che).
Visto che le funzioni sono due, quindi, la sorpresa non è che in italiano ci siano due parole, ma che in inglese ce ne sia una sola. Per la verità, comunque, neanche questa è una sorpresa, perché la possibilità di raggruppare il pronome che fa da antecedente del relativo e il relativo stesso è comune, tanto che esiste anche in italiano (ma è meno frequente); la traduzione da lei proposta, infatti, avrebbe potuto essere “Mettilo a confronto con quanto (= quello che) stai imparando”. Il pronome quanto è uno dei relativi doppi, o misti, e funziona proprio come what; accanto a questo esiste chi, riferito a persone, equivalente a who: “I don’t know who you are” > “Non so chi (= la persona che) sei”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Qual è il genere corretto per l’aggettivo sostantivato live, di ovvia origine anglosassone?

 

RISPOSTA:

Dobbiamo declinare la vostra proposta per mancanza di tempo e risorse. Per qualsiasi curiosità, scrivete pure a DICO e riceverete una risposta.
Per quanto riguarda live bisogna ricordare che in astratto il genere dei nomi (e degli aggettivi sostantivati) presi in prestito da lingue che non hanno a loro volta il genere (come l’inglese) è il maschile; in pratica, però, questi nomi prendono il genere del nome italiano corrispondente, oppure di un nome assonante. Così e-mail è femminile perché corrisponde a posta, e band è femminile perché è assonante con banda (che, però, ha un significato molto diverso). Può capitare che un prestito sia attratto da due o più nomi italiani di generi diversi, con il risultato che il genere di quel prestito in italiano è altalenante. Questo è il caso di ketchup, che è maschile per la regola generale del prestito senza genere di partenza, ma per alcuni è femminile perché è un tipo di salsa. Per live è forte l’assonanza con spettacolo e concerto, che comporta il genere maschile; qualcuno, però, potrebbe associare questo nome a trasmissione, che è femminile. La situazione, come si vede, è simile a quella di ketchup: per quanto non si possa bocciare una delle due forme, si può stabilire che quella più comune, quindi preferita dai parlanti, è quella maschile. In questo ambito, più comune e preferibile è la soluzione più vicina possibile a più corretta. A conforto di questa posizione ci sono anche i vocabolari: lo Zanichelli registra come maschile sia ketchup sia live come sostantivo.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

Mi chiedo da sempre come mai si dice la fine (femminile), la settimana (femminile), ma il fine settimana (maschile). In italiano, il genere delle parole composte non è collegato ai generi delle parole singole che contengono?

 

RISPOSTA:

La questione è effettivamente aperta. Di norma il genere dei composti corrisponde al genere della loro testa, ovvero del costituente che detta le caratteristiche morfologiche e semantiche. Per esempio, un pescecane è maschile e definisce un tipo di pesce perché la testa del composto è pesce.
Nel caso di fine settimana ci si aspetterebbe che il genere fosse femminile, perché fine, che è la testa del composto, è femminile (ma può essere anche maschile, con il significato di ‘obiettivo, scopo’). La ragione della scelta del genere maschile per questo composto è probabilmente che esso è un calco traduzione dell’inglese week end, e quindi è trattato come una parola straniera. Le parole straniere che entrano in italiano provenendo da lingue prive del genere (come è l’inglese) sono di solito maschili, ma possono essere anche femminili se richiamano alla memoria dei parlanti altre parole femminili già esistenti in italiano (per esempio, e-mail è femminile perché richiama posta o lettera). Nel caso di fine settimana i parlanti non hanno sentito l’eco di la fine, ma hanno, invece, assimilato questa parola ai giorni della settimana, che sono tutti maschili tranne uno.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Spesso sento dire:  “Ho condiviso il documento sul tuo Drive”.  Mi chiedo quale sia la forma  corretta tra “condiviso sul Drive, con Drive, in Drive”.

 

RISPOSTA:

La forma meno comune è quella con concolcon il. Le altre con in/nel, su/sul vanno tutte ugualmente bene. Come tutti gli anglicismi correnti nel linguaggio telematico, non necessariamente compresi da chi non fa parte della comunità degli “smanettoni”, è bene attenersi all’uso più frequente. L’ideale sarebbe trovare un sostituto per drive, che però al momento non sembra essersi stabilizzato in italiano (anche perché è quasi un nome di marchio: Google drive). Anche condividere è un calco semantico dall’inglese to share, ormai talmente diffuso che cambiarlo sembrerebbe davvero impossibile. Proprio in quanto calco semantico, è bene non creare fraintendimenti con l’altro significato italiano di condividere, cioè ‘avere le stesse idee ecc.’. Quindi è da evitare “condividere con il drive”, o simili, che sembrerebbe umanizzare troppo il drive!
Nella scelta tra le preposizioni su e in, entrambe possibili, ormai da vent’anni la telematica opta per su, di solito, perché rende ancora più “fisici” i luoghi virtuali dell’archiviazione e dello scambio dei dati. Stranamente, però, da una ricerca in Google sui due costrutti, prevalgono in questo caso decisamente quelli con in/nel, forse perché in questo caso l’idea del contenitore, piuttosto che del supporto digitale, fa scattare l’idea dell’inserimento espressa meglio da in. Come ripeto, però, sia in/nel sia su/sul vanno benissimo entrambe.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Mi trovo a combattere con la seguente struttura: “La informiamo come beneficiare dei vantaggi” senza la preposizione su.
Vorrei sapere se posso considerarla una struttura errata e quindi correggerla. Sospetto variante regionale del Ticino e purtroppo non ho trovato nulla finora su grammatiche e dizionari.

 

RISPOSTA:

Alcuni verbi di dire o pensare non reggono il complemento oggetto della cosa, eppure reggono comunque la proposizione oggettiva con che. Per esempio, ti informo dell’arrivo di Maria = ti informo che è arrivata Mariapenso all’esame di domani = penso che domani dovrò sostenere l’esame. Questa possibilità è garantita dalla congiunzione che, per sua natura capace di svolgere funzioni diverse, anche contemporaneamente, tanto da rendere difficile definirla (si pensi al che pseudorelativo di una frase scissa, come è di lui che ti parlavo, o al che a metà tra congiunzione e pronome di una frase come devo fare la revisione, che mi è scaduta).
Sulla scorta della reggenza diretta della completiva introdotta da che, anche l’interrogativa indiretta tende a essere costruita senza preposizione. Se, però, la congiunzione che ammette senz’altro la reggenza diretta (e non prevede alternative), le congiunzioni, gli avverbi, i pronomi e gli aggettivi interrogativi la tollerano meno, rendendo costruzioni come ti informo come devi fareti informo quando devi venireti informo perché non va bene ecc. ancora oggi adatte soltanto al parlato e allo scritto informale. 
La tendenza alla semplificazione della costruzione sintattica su questo versante non è legata a una regione, ma è panitaliana. Vero è, però, che il modello del tedesco potebbe favorirla; in tedesco, infatti, il verbo informieren, che regge la preposizione über, equivalente all’italiano su, davanti a un sintagma nominale, ammette la reggenza senza preposizione dell’interrogativa indiretta. Si vedano i seguenti esempi, tratti da contesti scritti (on line) di media formalità: “Wir informieren Sie wann Sie es in der Apotheke abholen können” (letteralmente ‘Vi informeremo quando potete ritirarlo in farmacia”); “Wir informieren Sie wie und in welchem Umgang Daten gespeichert werden” (letteralmente ‘Vi informeremo come e in che modo vengono archiviati i dati’).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La lettera w fa parte dell’alfabeto italiano oppure è una lettera a parte di origine straniera? 

 

RISPOSTA:

Precisiamo innanzitutto che w è un grafema, cioè un simbolo che corrisponde a un suono o fonema. Questa precisazione serve perché alcuni grafemi, tra cui anche questo, corrispondono a più di un fonema. Il termine lettera, invece, confonde il valore grafico con quello fonetico.
Il grafema w non fa parte dell’alfabeto italiano, che comprende solo 21 grafemi, ma rientra nell’alfabeto latino moderno. Fu inventato dagli scrittori anglosassoni del Medioevo per distinguere la u vocale dalla u semiconsonante (quella dell’inglese whisky) o consonante (quella del tedesco wafer).  
Nell’alfabeto latino classico, infatti, il grafema u (maiuscolo V) aveva allo stesso tempo il valore consonantico della v, quello vocalico della u e quello semiconsonantico della u di whisky; quindi si potevano avere parole come uult (= vult ‘lui / lei vuole’).
In italiano, a partire dal XVI secolo il grafema u si stabilizzò con il valore vocalico (luce) e semivocalico / semiconsonantico (uomo); il grafema v con quello di consonante (vino). La w, invece, non fu accolta, ma rimase appannaggio delle lingue germaniche, che pure usano lo stesso alfabeto neolatino di base dell’italiano. 
Il grafema w fu introdotto molto tempo dopo per poter scrivere alcuni nomi e parole inglesi o tedeschi (Washingtonweltanschauung) e si pronuncia, di solito, come nella lingua di origine del termine, quindi u semiconsonante per parole di origine inglese e v per parole di origine tedesca.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

Ho alcuni dubbi sulla lingua italiana che mi auguro possiate aiutarmi a risolverli online è una parola italiana? Policy è una parola italiana? loginwebmasterinternational? Siccome sono tutte presenti in un sito che si vanta di conoscere l’italiano, (addirittura affiliato ad una università) anzi addirittura a suggerire le migliori espressioni da usare in tale lingua, io penso che dovrebbe cominiciare a suggersi una buona lettura di un vocabolario e presentare un sito corretto.

 

RISPOSTA:

Attendevamo una domanda come la sua, dal momento che molti parlanti e scriventi si sentono disturbati dall’eccesso di parole inglesi nella lingua italiana. DICO ha già preso posizioni al riguardo, come lei sicuramente già saprà: infatti, in diverse sezioni del nostro sito abbiamo suggerito, qualora possibile, di evitare l’eccesso di forestierismi, specialmente quando termini italiani equivalenti sono consolidati e a portata di mano.
Ciò premesso, come dice il proverbio, “il troppo stroppia”, le crociate non si addicono alla lingua, né alla convivenza civile, e il tono polemico non aiuta la discussione, né la divulgazione, né l’approfondimento scientifico.
In primo luogo, DICO non ha l’obiettivo di “suggerire le migliori espressioni da usare in” italiano, come scrive lei. Anzi, il nostro obiettivo è proprio quello di mostrare la duttilità di qualunque lingua storico-naturale. Ci prefiggiamo, semmai, lo scopo di mostrare la varietà delle scelte possibili. Piuttosto che puntare il dito, pensiamo sia utile mettere a disposizione gli strumenti possibili per arrivare da soli a un uso consapevole della lingua.
In secondo luogo, gli esempi di anglicismi da lei addotti (onlineloginwebmaster ecc.) sono perlopiù tecnicismi informatici, di fatto imposti dai sistemi in uso in qualunque sito internet. Sostituirli con equivalenti italiani, qualora fosse possibile, genererebbe probabilmente un notevole fraintendimento tra gli utenti, che ormai se leggessero parola d’ordine o parola di passo, faccio per dire, in luogo di password, si sentirebbero di colpo catapultati in ambiente militare o massonico, piuttosto che in un sito di infrarete (già che ci siamo, perché non sostituire Internet con infrarete?).
Il buon uso della lingua passa, sicuramente, anche per le scelte lessicali, ha ragione lei: ma non saranno certo pochi anglicismi informatici a intaccarne l’integrità. Ammesso poi che l’integrità sia un valore, nell’uso linguistico. Se così fosse, che ne direbbe di tornare a parlare latino?
Infine, la inviterei a riflettere su altre violazioni della norma linguistica, come per esempio quella sintattica da lei commessa, nella sua elettrolettera (= e-mail), allorché ci scrive: “ho alcuni dubbi sulla lingua italiana che mi auguro possiate aiutarmi a risolverli”. Quel li pleonastico, ammissibile in una conversazione informale ma non certo in una lettera formale di chi si erge a giudice del buon uso dell’italiano, è il tipico esempio di caduta di controllo nella progettazione del periodo. Per saperne di più al riguardo, potrebbe andare a guardare, questo intervento in DICO, e anche la domanda  in questo quesito dell’Archivio.
Fabio Rossi

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QUESITO:

In italiano formale, ad esempio in una relazione, le parole straniere vanno sempre virgolettate anche se non esistono analoghi in italiano (o sono desueti)? Per esempio, come dorei scrivere i termini router o switch, ma anche computer?

 

 

RISPOSTA:

Come al solito, nelle lingue quasi mai la risposta è semplice e univoca, tipo sì/no, corretto/scorretto. Nel caso da te richiesto, la gran parte dei linguisti conviene sulla necessità di contrassegnare sempre un termine straniero, per indicarne l’estraneità (talora anche nella pronuncia) rispetto al sistema italiano. Tuttavia l’espediente più comune per contrassegnare i forestierismi non è rappresentato tanto dalle virgolette (che sarebbe meglio riservare alle citazioni e, più raramente, agli usi semantici particolari delle parole), bensì dal corsivo. Dunque, anche computer , mouse, router ecc. andrebbero, soprattutto in contesti formali, sempre scritti in corsivo.

Fabio Rossi e Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Il mio dubbio é sorto nel momento in cui una persona di lingua inglese, da pochi anni in Italia, mi chiese il perché usassimo dire: “Veniamo tutti a casa tua” invece di “Andiamo tutti a casa tua”. Essendo il verbo venire intransitivo, non sono riuscita a spiegare la differenza tra venireandare e raggiungere nel modo più semplice possibile.

 

RISPOSTA:

Il problema sorge nel confronto tra l’italiano e l’inglese. Italiano e inglese concordano sull’uso di andare e venire in frasi come: “Vado a casa di Luca” ( “I’m going to Luca’s”) e “Vengo con te” ( “I’m coming with you”). Nel caso di: “Vengo con te a casa di Luca”, invece, l’inglese preferisce dire: “I’m going with you to Luca’s”, usando to go, ovvero ‘andare’. Non si può dire che l’uso di una delle due lingue sia scorretto; piuttosto, diciamo che in italiano venire non significa solamente ‘andare nel luogo dove si trova la persona con cui si parla (“Vengo da te”) o la persona che parla (“Luca viene da me”)’, ma anche ‘andare in un luogo insieme alla persona con cui si parla’ (“Vengo con te da Luca”) o insieme alla persona che parla (“Luca viene con me da Andrea”).

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Scritto-parlato-mediato
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QUESITO:

Perché in italiano esiste l’espressione “Mi sono tagliata i capelli”, quando in realtà l’azione è stata fatta da altri? In inglese esiste la costruzione “I had my hair cut”, cioè ho avuto qualcun altro che ha fatto l’azione per mio conto. In questo caso l’espressione mi farebbe pensare a un’azione subita, decisa dalla volontà di altri e dunque non piacevole. Perché?

 

RISPOSTA:

Nessuna lingua codifica tutte le relazioni e i concetti possibili, né tutte le lingue codificano le medesime relazioni allo stesso modo. Dunque, per es., per esprimere il forte coinvolgimento emotivo del parlante rispetto all’azione compiuta, riportata o subita, il greco antico (e molte altre lingue indoeuropee) aveva a disposizione la diatesi media dei verbi, che in latino, in italiano e nella gran parte delle lingue moderne si è persa.
Ciò premesso, in effetti l’italiano e l’inglese hanno due modi diversi di esprimere il concetto di “Mi sono tagliata i capelli” (e altri analoghi), che probabilmente il greco avrebbe espresso col medio e il latino col dativo etico (si veda la bella voce dativo etico nell’Enciclopedia dell’italiano Treccani, ormai gratuitamente online). L’inglese adotta qualcosa di molto simile al medio-passivo (tant’è vero che ricorre al participio passato con valore passivo).
In effetti quel mi è una sorta di dativo etico, o di benefattivo, che non indica certo né il complemento di termine né un pronome riflessivo (cioè non sono io che li ho tagliati a me stesso, ma me li ha tagliati il parrucchiere). In altre parole, quel mi sono ecc. indica un coinvolgimento particolare del soggetto dell’azione (anche in altri casi più o meno colloquiali si usa il mi: “Mi sono mangiato una pizza”, “Mi sono fatto due birre”, “Mi sono ricordato”, “Mi sono dimenticato” ecc.), o di chi riceve l’azione, ovvero, potremmo anche dire, del soggetto logico (“mi sono tagliato i capelli” = ‘mi hanno tagliato i capelli’), coinvolgimento che già nella tarda latinità poteva essere espresso dal caso dativo (da cui l’estensione del complemento di termine in italiano).
Come giustamente osserva lei, si può aggiungere che l’alternativa più formale non potrebbe essere “Mi hanno tagliato i capelli” (che implicherebbe un’azione contro la mia volontà, mentre, viceversa, la presenza del mi in questo caso indica proprio il mio coinvolgimento), ma, semmai, “Ho tagliato i capelli”. Anche in quest’ultimo caso, tuttavia, si perderebbe il coinvolgimento, per dir così, affettivo all’azione compiuta, o ricevuta.
Insomma, è questa una delle numerose situazioni nelle quali la lingua parlata, o quantomeno meno formale, sembra avere più risorse, rispetto allo scritto formale, per esprimere le più minute sfumature dell’animo.
Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Registri, Verbo
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QUESITO:

Volevo sapere se, oltre a “fare la spesa al tuo mercato preferito”, si possa dire anche “fare la spesa sul tuo mercato preferito”. Secondo me no, ma ho preferito chiedere. Vi ringrazio.

 

RISPOSTA:

L’espressione non è ben formata, perché non rispetta la funzione associata alla preposizione su; anche volendo ipotizzare una evoluzione di tale funzione, inoltre, l’espressione non è comunque attestata né on line né altrove. Essa va, pertanto, evitata. Il dubbio potrebbe derivare dall’analogia con “fare la spesa su Internet”, che, al contrario, è molto diffusa. Ricordiamo, a questo proposito, che l’espressione su Internet (favorita dall’influenza dell’inglese on the Internet), sebbene non scorretta e accettabile in tutti i contesti, è una variante meno formale di in Internet.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione, Registri
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QUESITO:

Si dice: i cupcakes o i cupcakei muffins o i muffinle coca-cola o le coca-cole?

 

RISPOSTA:

I forestierismi non adattati (cioè che mantengono la forma originaria) sono invariabili, quindi il plurale è uguale al singolare. Non può che essere così, perché i prestiti entrano nel sistema dell’italiano come parole singole, senza derivati. Sarebbe antieconomico, del resto, accogliere il meccanismo di formazione del plurale delle decine di lingue da cui l’italiano ha prelevato prestiti. Ad esempio, quale sarebbe il plurale di burqa o krapfen?

All’abitudine di lasciare i forestierismi non adattati invariabili si oppongono poche eccezioni. Tra queste, le più comuni sono le seguenti (ma si badi: nessuna è obbligatoria, il plurale invariabile è sempre corretto e in alcuni casi il plurale variabile è sulla soglia dell’errore): il plurale di curriculum è spesso curricula (diversamente dagli altri nomi latini che finiscono in –um, ultimatum, referendum, quantum…);il tedesco lied ha di norma il plurale originario li eder; lo spagnolo pueblo preferisce pueblos; i prestiti che finiscono in vocale (e qui torniamo a coca-cola) possono essere percepiti come adattati e quindi funzionare come le parole italiane, quindi gazebo/gazebi (accettato anche dai dizionari) e coca-cola /coca-cole (comune ma da non preferire).

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La frase “Non potrà suonare più”, oppure “non ti bacerà più” indica sia la cessazione di qualcosa che prima accadeva sia un fatto che non si verificherà per la prima volta? Cioè è una frase da contestualizzare?

 

RISPOSTA:

Normalmente, tra le funzioni di più c’è quella di indicare, in correlazione con una negazione, la cessazione di un’azione; usando i suoi esempi, quindi, “Non potrà suonare più” può essere riferito a un musicista che si è rotto due dita, mentre “Non ti bacerà più” a una persona che è stata lasciata da un fidanzato e quindi in futuro non riceverà da lui i baci che riceveva in passato. In questi casi, più prende il significato di ‘più a lungo’, quindi ‘ancora’; non a caso, in inglese questa funzione è spesso svolta dalla perifrasi (no) longer, che significa letteralmente ‘(non) più a lungo’: “I will not serve that in which I no longer believe” (‘Non servirò più ciò in cui non credo più’) scrive James Joyce in A Portrait of the Artist as a Young Man.
La funzione di più ‘ancora’, inoltre, opera per la massa, oltre che per il tempo, in frasi come “Non ne voglio più”, ovvero ‘Non voglio una quantità maggiore di ciò’.
Tornando alla dimensione del tempo, più può facilmente essere usato in riferimento ad azioni che non si sono ancora verificate, ma erano state programmate; quindi “Non potrà suonare più” può anche essere riferito a un musicista che avrebbe dovuto esibirsi in un concerto ma ha avuto un incidente. In questo caso la frase è parafrasabile come ‘Non potrà dare seguito alla preventivata azione di suonare’. Lo stesso vale per “Non ti bacerà più”, che può riferirsi a qualcuno che era pronto a impegnarsi in una relazione amorosa e ha cambiato idea prima che questa iniziasse, quindi ‘Non darà seguito alla preventivata azione del baciare’. Quest’uso estensivo di più è da considerarsi meno formale di quello descritto sopra (e infatti è più comune in comunicazioni informali); si può trovare anche in frasi al passato come “Sei più andato a Parigi?” nel senso di ‘Hai poi dato seguito alla preventivata azione di andare a Parigi?’.
In conclusione, come sempre quando è possibile una doppia interpretazione, è meglio contestualizzare l’enunciato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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QUESITO:

Ho un dubbio: è più corretto dire ”ieri mi addormentai” o ”ieri mi sono addormentata”?

 

RISPOSTA:

La variante con il passato prossimo, “Ieri mi sono addormentata”, è la più naturale.
Normalmente, il passato prossimo e il passato remoto esprimono non semplicemente la lontananza, minore o maggiore, di un evento rispetto al momento dell’enunciazione, bensì la partecipazione psicologica che l’emittente vuole dimostrare con l’evento stesso. Ad esempio, la frase “Dieci anni fa mi sono rotto una gamba” risulta molto più naturale di “Dieci anni fa mi ruppi una gamba”, perché è naturale che l’emittente consideri l’evento, benché distante nel tempo, psicologicamente vicino, o, se vogliamo, legato al presente (il momento dell’enunciazione) attraverso le sue conseguenze. Per questo motivo, eventi passati ma ancora vicini al momento dell’enunciazione difficilmente possono essere espressi con il passato remoto, anche se si sono conclusi, perché è prevedibile che le loro conseguenze siano ancora percepibili dall’emittente come presenti; ciò vale ancora di più quando si racconta un evento privato o comunque personale, come nel suo esempio.
Non si può dire in astratto che la variante con il passato remoto sia sbagliata; si tratta, però, di una scelta marcata, cioè insolita, non comune. Tale scelta potrebbe essere frutto di una competenza comunicativa non perfetta: una costruzione del genere, cioè, non stupirebbe in bocca ad un apprendente straniero, ad esempio anglofono o ispanofono, di lingua italiana, come il risultato della sovrapposizione dell’italiano sulla sua lingua madre, nella quale il passato remoto è più usato che in italiano (“Yesterday I fell asleep” e “Ayer me quedé dormido” risultano del tutto normali); oppure in bocca ad un parlante pur italiano che, però, si lascia condizionare dal suo dialetto locale (molti dialetti meridionali non hanno il passato prossimo). In alternativa, la scelta del passato remoto potrebbe dipendere dalla precisa volontà dell’emittente di esprimersi in modo insolito, per ottenere una sfumatura espressiva. Nel seguente esempio, non a caso letterario, le due possibili cause della scelta del passato remoto si confondono:


Ieri mi portò a casa sua. Parlò per molte ore, non so quante, poiché a un dato momento mi addormentai, forse egli voleva che mi addormentassi (Gonzalo Torrente Ballester, Don Juan, traduzione di Angela Ambrosini, 1985).


La traduttrice del romanzo dallo spagnolo lascia al passato remoto i verbi che in originale erano al passato remoto (o meglio pretérito perfecto simple) perché percepisce che il personaggio vuole esprimere una separazione psicologica tra gli eventi narrati e il momento dell’enunciazione.
Bisogna aggiungere, infine, che nell’italiano contemporaneo il passato prossimo sta prendendo sempre più piede rispetto al remoto; siamo portati sempre di più, cioè, a designare gli eventi passati come “prossimi”. C’è ancora spesso, però, la possibilità di scegliere quale passato usare per sottolineare la maggiore o minore vicinanza psicologica all’evento; ad esempio, “La I Guerra mondiale ha provocato la morte di milioni di persone” riflette una maggiore vicinanza emotiva al racconto, mentre “La I Guerra mondiale provocò la morte di milioni di persone” risulta più distaccato e oggettivo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Per indicare una situazione particolarmente affollata si dice “c’è gente a flotte” o “…a frotte?” C’è una connessione con la flotta navale?

 

RISPOSTA:

I termini flotta e frotta hanno significati diversi: il primo indica un insieme di navi, militari, mercantili o da trasporto, e, più recentemente, anche un insieme di aerei: “Alitalia vanta una delle flotte più moderne ed efficienti al mondo” dichiara il sito ufficiale della compagnia. Il secondo designa un gruppo di persone, o, estensivamente, di animali, soprattutto numeroso e disordinato (e si usa nell’espressione a frotte ‘in gran numero’).
Di là dalla differenza di significato, flotta e frotta sono geneticamente imparentati, perché hanno una base comune, il francese flotte. A sua volta, la parola francese è di derivazione latina: ha a che fare con il verbo fluo ‘scorrere’ e con il nome fluctum ‘onda, corrente’. Flotte è entrato in italiano come frotta, con il significato di ‘gran numero’, già nel Trecento (frotta è, quindi, più antico di flotta): per fare qualche esempio, Giovanni Boccaccio, nel Ninfale fiesolano, parla di “frotta delle ninfe” e Fazio degli Uberti, nel Dittamondo, scrive “Quegli uccelli, che volavano, a frotte / sentito avresti cadere tra’ piedi”.
La trasformazione della l di flotte nella r di frotta è dovuta al fenomeno della dissimilazione: in italiano ci sono poche parole che iniziano per fl-, perché fino all’XI secolo il nesso fl- era trasformato sistematicamente in fi- (florem > fiorefabulam > *flaba > fiaba, persino lo stesso fluctum > fiotto). Le parole che hanno fl- sono latinismi o prestiti più moderni da altre lingue, fluttoflorealeflagranza ecc. Nel Trecento, quindi, flotta doveva sembrare sbagliato (si poteva pensare che la l fosse stata inserita per sbaglio per influenza dell’articolo nella sequenza la flotta) e per questo i parlanti alla lunga l’hanno modificato in frotta. Del resto, come testimonia il suo dubbio, si fa presto a confondere flotta e frotta.
Flotta è entrato di nuovo in italiano nel Cinquecento, indipendentemente da frotta, per definire un insieme di navi: Giovan Battista Ramusio scrive, a metà Cinquecento, in un’opera che è tutto un programma, Navigazioni portoghesi verso le Indie orientali: “alli 28 del detto mese partimmo de lì tutta la flotta con vento calma”. Da allora non ha mai smesso di riferirsi alle navi, che vanno per mare o per aria.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gentilissimi, Quale tra blu e ble è la forma italiana corretta? Grazie.

 

RISPOSTA:

Le tre forme bleublé e blu sono tutte e tre corrette e possono dunque essere utilizzate liberamente.
Qualche precisazione di storia, stile e opportunità.
1) Tutte e tre derivano dal medesimo etimo, l’antica forma germanica, franca, blao, che diede vita anche all’antico italiano biavo ‘azzurro chiaro’,
2) Il termine blé andrebbe scritto più opportunamente con l’accento acuto ed è considerata variante meno formale e meno comune di blu.
3)  Bleu è un francesismo: dato che sia blu sia blé ne sono gli adattamenti italiani, tanto meglio optare per questi ultimi.
4) Dato che blu è la forma più comune, più diffusa in italiano, e anche avvertita come più formale, o almeno adatta a tutti i registri, meglio optare per quest’ultima, piuttosto che per blé.

Fabio Rossi

Parole chiave: Etimologia, Registri
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QUESITO:

È corretto dire “Andiamo a mangiare al McDonald” oppure “Andiamo a mangiare al McDonald’s”? E infine si scrive “Andiamo a mangiare dal o al…”?

 

RISPOSTA:

I nomi stranieri in italiano tendono ad essere invariabili. A maggior ragione, anche i marchi commerciali sono invariabili, quindi in questo caso si mantiene sempre la forma McDonald’s. Certo, questo marchio è formato con un cognome più la s del genitivo sassone, che è una forma tradizionale per i nomi di ristoranti e negozi inglesi. A questa forma corrisponde in italiano Da più il cognome del proprietario: quindi, in astratto, McDonald’s si tradurrebbe ‘Da McDonald’. Dico in astratto, perché, ripeto, si tratta di un marchio commerciale, e va preso così com’è, a prescindere dalla lingua nella quale è usato.

Per quanto riguarda la preposizione, l’ambiguità è dovuta al fatto che in italiano la preposizione per il moto a luogo, quando il luogo sia rappresentato da una persona (identificata da un nome comune o da un nome proprio), è da : “vado al forno/vado in gioielleria/vado dal fornaio/vado da Gucci” (si noti che per i luoghi non personalizzati si usa tanto a quanto in ). Nel caso del McDonald’s, la maggior parte dei parlanti riconosce nel nome di questo ristorante un cognome (che, però, è McDonald, non McDonald’s), in parte grazie alla pubblicità della catena, che usa la preposizione da (“Succede solo da…”). Questa ambiguità, in realtà, si presenta ogni volta che il nome di un esercizio commerciale di qualunque tipo sia percepito come un nome proprio: “vado al Burger King è più frequente, ma “vado da Burger King” è anche possibile. Non è un caso, tra l’altro, che la pubblicità scelga la preposizione da, perché il nome proprio crea un’atmosfera più familiare e affettivamente vicina, come se il locale portasse davvero il nome di una persona in carne ed ossa.

Si noti che quando il nome proprio esiste nella competenza culturale dei parlanti autonomamente rispetto al nome dell’esercizio commerciale, l’ambiguità è molto improbabile: nessuno, tornando da un viaggio, direbbe “ho soggiornato da Hilton” invece di “Ho soggiornato all’Hilton”, perché lascerebbe intendere di aver soggiornato a casa di un signor Hilton (o della cantante Paris Hilton). Allo stesso modo è difficile che si vada a mangiare da Garibaldi piuttosto che al Garibaldi (a meno che il proprietario del ristorante non sia veramente il signor Garibaldi o che il tipo di conduzione evidenzi la dimensione affettiva e faccia, quindi, dimenticare il nome del patriota).Nel caso in questione, quindi, entrambe le preposizioni sono accettabili: al McDonald’s è ricalcato su al ristorante, da McDonald’s su da Mario.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione
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QUESITO:

Il mio dubbio riguarda l’avverbio sempre. Essendo un avverbio indefinito, quando lo troviamo nelle frasi al futuro, come facciamo a capire se si tratta di una continuità ininterrotta ”con termine di tempo” o ”senza termine di tempo”? Per esempio: “La Terra girerà sempre”, “Ti amerò sempre”…

 

RISPOSTA:

Quando accompagna un verbo al futuro, sempre assume un valore non pienamente temporale, quale invece gli è proprio con verbi al presente e al passato. Con verbi al futuro, sempre ha una sfumatura concessiva (indica che l’azione o la circostanza continuerà a realizzarsi a dispetto di qualunque avversità) , mentre un valore pienamente temporale è assunto da per sempre. Prendiamo, per chiarire questa differenza, una frase come “I genitori perdoneranno sempre gli sbagli dei figli”; difficilmente sarebbe costruita come “I genitori perdoneranno per sempre gli sbagli dei figli”, perché il senso è che qualunque cosa succeda, l’azione continuerà a realizzarsi (e la dimensione temporale è secondaria). È vero che i due avverbi possono avvicinarsi molto nel significato, come nella frase “Rimarrò sempre con te”/”Rimarrò con te per sempre”; anche in questo caso, comunque, si nota la sfumatura più concessiva (quasi a dire nonostante tutto ) di sempre e quella più temporale di per sempre.

Un confronto interlinguistico con l’inglese ci consente di vedere più chiaramente la differenza tra sempre e per sempre: il primo, infatti, corrisponde a always, il secondo a forever; due avverbi del tutto diversi, quindi.

Come ho detto all’inizio, però, sempre ha un valore più chiaramente temporale con verbi al passato (“Sono sempre stato contrario alla caccia”) e al presente (“Chiamo sempre lo stesso idraulico, perché di lui mi fido”). In questo tipo di frasi, per sempre non è accettabile.

Venendo, infine, alla sua domanda, per quanto ne sappiamo, nel mondo fisico tutto ha fine, quindi l’uso dell’avverbio (per) sempre accanto ad un verbo al futuro indica non la reale eternità dell’azione o della circostanza, ma la sua prosecuzione fino al suo termine naturale, che non è noto. In altre parole, la durata dell’azione o della circostanza è intesa non come eterna, ma come indeterminatamente duratura.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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