Tutte le domande

QUESITO:

Quale fra le due seguenti affermazioni è corretta da un punto di vista grammaticale?
Fai il saggio e TRANNE vantaggio.
Fai il saggio e TRAINE vantaggio.

 

RISPOSTA:

La forma verbale corretta è traine, formata da trai seconda persona singolare dell’imperativo del verbo trarre, e ne, particella pronominale che in questo caso può essere parafrasata con ‘da questo comportamento’. La forma tranne (che coincide con la preposizione tranne ‘eccetto’) non fa parte della coniugazione di questo verbo; non bisogna, quindi, confondersi con gli imperativi di altri verbi correttamente formati con il raddoppiamento della n di nedanne (da dare), fanne (da fare), dinne (da dire), vanne (da andare), stanne (da stare).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale, Verbo
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QUESITO:

Perché a volte l’articolo si concorda con l’aggettivo (ovvero con la parola che lo segue)? Ad esempio: il tuo amico invece di lo tuo amicol’ultimo compito da fare invece di il ultimo compito da fare. Si concorda così per evitare la cacofonia?

 

RISPOSTA:

Bisogna distinguere tra l’accordo, che regola la scelta del genere e del numero dell’articolo, e l’armonizzazione della catena fonica, che regola la scelta della forma dell’articolo. L’articolo concorda sempre con il nome; infatti, nei suoi esempi, il e l’ sono maschili singolari perché amico e compito sono nomi maschili singolari. La forma dell’articolo, poi, cambia a seconda dell’iniziale della parola subito successiva per facilitare la pronuncia dell’intera espressione che contiene l’articolo. L’articolo determinativo maschile singolare, per esempio, ha tre forme: illol’, ognuna selezionata in base all’iniziale della parola successiva nella frase. Come lei stesso ha notato, del resto, la forma dell’articolo cambia anche se l’articolo è seguito direttamente dal nome (l’amico, ma il compito); in questo caso, infatti, il nome è non solo la testa che governa l’accordo, ma anche la parola subito successiva all’articolo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In una discussione, un mio caro amico mi indica che – a suo dire – taciamo è una possibile versione alternativa, ma corretta, di tacciamo.
Ogni riferimento che ho trovato sembra smentirlo. Tuttavia, a sostegno della sua ipotesi mi segnala una pagina di Wikipedia. In effetti la voce taciamo è riportata, anche se priva della relativa pagina grammaticale.
Così c’è rimasto il dubbio che possa esistere un uso grammaticalmente corretto, e non relegato a questioni dialettali o di usanze regionali tra i parlanti.

 

RISPOSTA:

La forma tacciamo è quella sicuramente corretta, anche se taciamo esiste: i pochi verbi in cere (taceregiacere(s)piacere…) hanno una radice che cambia (polimorfica) a seconda della desinenza. In fiorentino antico, e da lì in italiano, la consonante prepalatale si rafforza se si trova dopo vocale e davanti a [j], ovvero al suono della i seguita da un’altra vocale (o semivocalica). Per questo tacciotacciamotaccionotacciatacciano, ma taci (qui la i è una vocale, non una semivocale, perché non è seguita da un’altra vocale), tacetetacere ecc. Le radici polimorfiche sono facilmente soggette a processi analogici; i parlanti, cioè, spesso adattano le forme minoritarie, per quanto etimologicamente corrette, a quelle maggioritarie, pure corrette, ma derivate da trafile di formazione diverse. Proprio un processo analogico è quello che ha creato taciamo sulla base del modello maggioritario tac rispetto a quello minoritario tacc-. Si noti che il participio passato taciuto non ha la consonante rafforzata perché nasce già come forma analogica (in latino era tacitus) modellata sulla maggioranza dei participi passati dei verbi della seconda coniugazione (credutocresciutovoluto…).
Il processo di adattamento può avere successo nel tempo e, effettivamente, creare forme nuove; taciamo (ma anche piaciamo e giaciamo) oggi esistono, ma per queste parole il processo è in fieri, come testimonia l’atteggiamento dei vocabolari: il GRADIT, che è aperto all’uso vivo, riporta taciamo accanto a tacciamo (e piaciamo accanto a piacciamogiaciamo accanto a giacciamo); lo Zingarelli e il Treccani, invece, pur essendo vocabolari dell’uso, non registrano affatto la variante. In conclusione, attualmente la forma taciamo è percepita come scorretta, quindi va evitata anche in contesti informali, specie se scritti; in futuro, però, è probabile che diventi comune accanto a tacciamo e, addirittura, che la sostituisca.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei chiedere come si divide in sillabe la parola “spirituale”, perché a mio avviso nella parola si verifica un dittongo, mentre molti dizionari riportano come corretta la divisione “spi-ri-tu-a-le”.

 

RISPOSTA:

Nella parola spirituale si verifica uno iato perché la u primo elemento del gruppo ua è una vocale e non una semiconsonante (quindi si pronuncia autonomamente rispetto alla a). Come lei osserva, i principali dizionari concordano sulla divisione in sillabe spi-ri-tu-à-le. Il problema può emergere sulle parole in cui la coppia ua è atona come in spiritualità o spiritualista; in questi casi è difficile dire con certezza se si tratti di dittongo o iato. I dizionari, infatti, divergono sulla divisione in sillabe di queste parole: alcuni applicano il criterio dell’analogia, per cui se nella parola spirituale si verifica uno iato anche in spiritualista si avrà uno iato, quindi spi-ri-tu-a-lì-sta; altri, invece, considerano la sequenza atona un dittongo ascendente, quindi spi-ri-tua-li-tà.
Raphael Merida

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QUESITO:

Si scrive: “Un bel e solido palazzo” oppure: “Un bello e solido palazzo”? Ovviamente è preferibile scrivere: “Un palazzo bello e solido”. Ma dovendo scegliere, in questo caso, tra bel e bello, quale si fa preferire?

 

RISPOSTA:

Bel e bello seguono gli stessi criteri degli articoli il e lo. In questo caso, davanti a vocale, può avvenire l’elisione di bello; avremo quindi “Un bell’e solido palazzo”.

Raphael Merida

Parole chiave: Aggettivo
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Non so se esista una regola precisa per quanto riguarda l’uso dell’apostrofo in casi come quello che segue: “Hai visto le due sorelle?” “Sì, le ho viste ieri”. Si potrebbe anche scrivere con l’apostrofo: “Sì, l’ho viste ieri”? Sono corrette entrambe le forme?

L’elisione degli articoli e dei pronomi è da evitare quando questi sono plurali: l’amica, ma non l’amiche; l’ho visto, ma non l’ho visti. Impossibile è l’elisione di gli, perché in una sequenza come gl’alberi il nesso -gl- sarebbe pronunciato come in glabro.
Fabio Ruggiano

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Nella parola saggio, -ggi- può essere considerato un trigramma composto dal digramma -gg- + -i- muta?

Le doppie non sono mai menzionate negli elenchi dei digrammi perché rappresentano non fonemi determinati, ma varianti rafforzate di altri fonemi. Non sarebbe, però, del tutto scorretto considerarle comunque digrammi, al pari dei digrammi che rappresentano fonemi scempi. Seguendo il primo criterio, -ggi- in saggio, ovvero, foneticamente, [dʒ:] o [ddʒ], è la variante rafforzata del fonema [dʒ]; seguendo il secondo, è un trigramma che rappresenta il fonema [dʒ:], distinto da [dʒ]. In entrambi i casi, il grafema -i- in questa parola non corrisponde a un fonema, ma serve a distinguere il suono palatale da quello velare (che si avrebbe in saggo); il termine tecnico per definire questa funzione della -i- è diacritica o (segno) diacritico. Di solito, inoltre, non si dice che la -i- è muta perché in altre parole rappresenta una semivocale (cambio) o una vocale a tutti gli effetti (farmacia); diversamente, l’-h- è detta muta perché in italiano non ha mai un suono (per approfondimenti si veda qui).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Scritto-parlato-mediato
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QUESITO:

Riguardo il suo ultimo intervento (“È bastato a/per e topicalizzazioni”) mi è quasi tutto chiaro.

L’unica cosa che non mi è totalmente chiara è quella che riguarda la topicalizzazione.

Secondo me: Per esempio, con un complemento di fine o proposizione finale anteposta, quest’ultimo/a è topicalizzato/a e invece l’elemento focalizzato/marcato all’interno della frase è il soggetto posposto (“impegno”) ed è lì che cade la tonica:

  1. a) Cosa è bastato a raggiungere l’obiettivo/ al raggiungimento dell’obiettivo?
  2. b) A raggiungere l’obiettivo/al raggiungimento dell’obiettivo è bastato il sano impegno.

Invece quando il complemento di fine o proposizione finale viene posposto/a (piuttosto che anteposto/a) diventa l’elemento focalizzato/marcato (cioè, vi cade la tonica) e di conseguenza il soggetto (“impegno”) non ha particolare rilievo nella frase:

  1. c) L’impegno a cosa è bastato?
  2. d) L’impegno è bastato a raggiungere l’obiettivo/al raggiungimento dell’obiettivo.

Era questo che intendevo parlando di focalizzazione.

Sono corrette le mie considerazioni?

 

RISPOSTA:

Sì, le sue considerazioni ora sono corrette. Dalla sua precedente domanda sembrava considerare focalizzato quanto si trovasse preposto al verbo o alla reggente, mentre in quei casi di tratta di topicalizzazioni. Benché la terminologia sui fenomeni di sintassi marcata talora oscilli lievemente (non tutti danno a focus lo stesso significato), di norma ciò che è focalizzato ha maggiore salienza fonica (non soltanto accentuativa), ha maggior rilievo informativo, veicola un’informazione nuova e talora contrastata e riguarda il comment (o rema) o una sua parte. Di norma si trova sul lato destro degli enunciati, tranne casi specifici in cui viene anticipato, ma con forte rilievo prosodico: per es., «LUI devi incolpare, non me!». Quanto è topicalizzato, all’opposto, ha funzione di topic (o tema), è dato, ha intonazione ascendente-sospensiva, non saliente, si trova di norma sul lato sinistro degli enunciati.

Fabio Rossi

Parole chiave: Sintassi marcata, Tema e rema
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QUESITO:

Quali e quante sono le forme ormai cristallizzate che risulterebbero fuori norma se impiegate senza la “d” eufonica, a parte ad esempio, ad eccezione, ad ogni buon conto?

 

RISPOSTA:

Non esiste una norma precisa che regoli l’uso della d eufonica. Per esempio, alcune delle locuzioni da lei citate possono scriversi legittimamente senza la d eufonica: a eccezione di e a ogni buon conto (così sono riportate anche nei principali vocabolari dell’uso). Una delle rarissime eccezioni in cui la d eufonica è quasi sempre presente per via della sua specificità è la locuzione ad esempio, divenuta a tutti gli effetti una formula (insieme a per esempio). Tuttavia, potremmo trovare la locuzione a esempio in una frase tipo: “La pazienza di Luca viene sempre portata a esempio di virtù da imitare”.

In generale, la d eufonica, che in realtà è etimologica perché risalente a un d o a un t latini in ad, et o aut (da cui a, e, o), ha goduto nel corso del tempo di una certa elasticità: molto usata nella lingua antica, ridotta nell’italiano moderno. Secondo il linguista Bruno Migliorini, l’uso della d eufonica dovrebbe essere limitato ai casi di incontro della stessa vocale come in ad Alberto, ed ecco ecc., ma anche in esempi come questi, per via della flessibilità dell’italiano contemporaneo nei confronti dello iato (cioè l’incontro di due vocali di due sillabe diverse), si potrebbe omette la d come in “Ho chiesto a Luca e Erica”.

Insomma, l’uso della d eufonica non ha regole precise ma cammina costantemente con l’evoluzione della lingua e la sensibilità di chi parla o scrive.

Di seguito suggeriamo alcuni casi in cui l’aggiunta di una d sarebbe sconveniente (1 e 2) o da evitare (3 e 4):

 

  1. quando la presenza di una d appesantisce la catena fonica e la vocale della parola successiva è seguita da d come in “edicole ed editoriali”;
  2. in frasi come “si dice ubbidire od obbedire” perché la presenza della d dopo la vocale o risulterebbe ormai rara e antiquata.
  3. prima di un inciso: “Ho chiesto a Luca di uscire ed, ogni volta, risponde di no”;
  4. davanti alla’h aspirata di parole o nomi stranieri: “Case ed hotel” o “Sabine ed Halil”.

 

Raphael Merida

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QUESITO:

Vi propongo un dubbio di punteggiatura riguardante il titolo di un libro: “Ultima fermata Parma”. Mi chiedo se fra fermata e Parma sia preferibile collocare due punti oppure una virgola.

 

RISPOSTA:

I titoli come quello da lei proposto sono frasi nominali; l’assenza di un verbo rende difficilmente applicabili le comuni regole sintattiche, comprese quelle sulla punteggiatura, e configura la frase come un enunciato, unità comunicativa in cui emergono le esigenze testuali, legate alla segnalazione del ruolo informativo dei costituenti. Nel caso specifico Ultima fermata rappresenta il tema, o topic, dell’enunciato, mentre Parma ne è il rema, o comment; in altre parole, nell’enunciato viene introdotto un elemento, il topic, intorno al quale viene aggiunta un’informazione, il comment. La distinzione tra topic e comment nel parlato è affidata a una pausa, tipicamente accompagnata da un’intonazione specifica per l’uno e l’altro costituente: il topic sarà pronunciato con un andamento prosodico verso l’acuto sulla sillaba tonica, subito prima della pausa, quindi il rema avrà un’intonazione conclusiva. In questo quadro le soluzioni interpuntive sono varie: è possibile non inserire alcun segno, lasciando che la distinzione emerga da sé nella lettura, oppure si possono inserire una virgola o i due punti. Con la virgola si segnala soltanto la separazione, presentando il comment come aggiunto al topic; con i due punti si suggerisce un dettaglio in più (che tutto sommato è ricavabile anche con la virgola, ma con un piccolo sforzo interpretativo del lettore), cioè che il comment veicola una spiegazione, una chiave di lettura del valore del topic. Ovviamente con questa soluzione lo scrivente sottolinea che il lettore abbia bisogno di questo tipo di istruzione, quindi lo invita apertamente a riconoscere il rapporto tra i costituenti come carico di un implicito da scoprire.

Si può, infine, usare anche il punto fermo, con la conseguenza di creare due enunciati, quindi di dare la funzione di comment a entrambi i costituenti.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Fossato è un derivato di fosso? Maggiordomo può essere considerato un nome composto? Nomi come Patty o Dany sono nomi alterati?

 

RISPOSTA:

Tra fossato e fosso c’è un rapporto non di derivazione del primo dal secondo, ma di comune provenienza quasi dallo stesso verbo: fossato è un nome primitivo, che continua direttamente il latino FOSSATUM, a sua volta participio perfetto del verbo FOSSARE ‘scavare’ (variante intensiva del verbo FODERE ‘scavare’); fosso è un’evoluzione di fossa, a sua volta participio perfetto (al neutro plurale) proprio del verbo FODERE.

Anche maggiordomo, adattamento del latino MAIOR DOMUS ‘capo della casa’, è una parola primitiva. In generale, le parole formate per derivazione o composizione in altre lingue (prime tra tutte il latino e il francese) e successivamente entrate in italiano sono, dal punto di vista dell’italiano, primitive.

Il processo di alterazione può riguardare anche i nomi propri (Sergione, Annuccia, Giorgino…); in particolare, i nomi propri modificati con suffissi diminutivi o vezzeggiativi sono definiti ipocoristici. Gli esempi da lei portati, però, sono formati con procedimenti diversi dall’alterazione: il primo è a tutti gli effetti un nome proprio non alterato (non è possibile, infatti, risalire a una base; se fosse Patrizia l’esito sarebbe Patri o Patry), di origine inglese; il secondo è l’esito di un accorciamento (lo stesso processo che, per esempio, forma auto da automobile) da Daniele o Daniela. Si noti che l’accorciamento darebbe come risultato Dani: la forma Dany è influenzata in generale dal modello dei nomi inglesi, in cui una -i finale è sempre -y (e forse anche dal nome Danny, inglese come Patty).

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho sempre utilizzato la parola latina ius premettendo ad essa l’articolo lo, probabilmente influenzata da casi analoghi (lo Ione di Platone). Mi accade però di leggere il ius su un manuale. Quale dei due articoli (il/lo) costituisce la forma corretta?

 

RISPOSTA:

Senza dubbio alcuno lo ius. Infatti, anche volendo appigliarsi alla pronuncia (forse) non semiconsonantica, ma vocalica, della i prevocalica, l’articolo mai sarebbe il, ma semmai l’: l’imbuto. E infatti l’ius (così come l’iena, per la iena) è possibile, sebbene minoritario e arcaico.

Fabio Rossi

Parole chiave: Articolo
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QUESITO:

Potrebbe gentilmente chiarirmi un dubbio riguardo all’uso della vocale I nel digramma GN? I verbi impegniamo, bagniamo, insegniamo si scrivono con la I?

Potrebbe inoltre dirmi come fare la divisione in sillabe delle stesse parole?

 

RISPOSTA:

Le forme verbali da lei segnalate si scrivono con la i, alla prima persona del presente indicativo e congiuntivo, perché la i fa parte della desinenza verbale (-iamo), non della radice (e infatti i verbi sono impegnare, bagnare, insegnare ecc., senza i). Diciamo amiamo, non *amamo. Naturalmente la i si scrive ma non si pronuncia, perché viene assorbita dalla pronuncia palatale del nesso GN. La divisione in sillabe è la seguente: im-pe-gnia-mo; ba-gnia-mo; in-se-gnia-mo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi grammaticale, Verbo
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QUESITO:

E’ risaputo che l’imperativo di “dire” è di’( con l’apostrofo) in quanto ci troviamo di fronte al troncamento di “dici”. Questo “dici” da dove esce? È forse una espressione italiana arcaica?

 

RISPOSTA:

No, in italiano, di ieri e di oggi, l’imperativo del verbo dire, che deriva da dic (e non dice) latino, è sempre stato di’ (scritto con varie grafie, sebbene oggi l’unica standard sia quella apostrofata). Dunque dici NON è apocope dell’italiano dici, che non esiste (o quanto meno non è contemplato dal sistema verbale dell’italiano standard)! Dici, pure attestato in italiano (substandard) di ieri e di oggi può avere varie spiegazioni (ogni errore, o se preferisce ogni alternativa substandard, ha una sua spiegazione, cioè una sua regola, o più d’una):

  1. è un tratto dialettale: in Sicilia, molti, quasi tutti, dicono dici, come imperativo, perché c’è nel loro dialetto. Lo stesso dicasi per il napoletano. E’ insomma un tratto di italiano regionale.
  2. Può essere un’erronea ricostruzione della forma di’, avvertita come apocope da dici (che però, come già detto, non è apocope dall’italiano, bensì dal latino dic, che perde solo la c, non ce/ci, che non esistono).
  3. Erronea estensione analogica degli imperativi delle altre forme verbali: dunque dici come leggiprendi ecc., uguali alle seconde persone dell’indicativo.
  4. Dici può anche essere, in certi contesti, un’estensione dell’indicativo usato come imperativo (cioè il cosiddetto indicativo iussivo): “Ora la finisci e mi porti i compiti” (anziché “Finiscila e portami i compiti”). Ovviamente, se fosse questo il caso (per es. “ora mi dici tutta la verità”), dici non sarebbe un errore.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Quale affermazione delle seguenti è corretta?
Piantare in asso.
Piantare in Nasso.
Io penso tutte e due.
La prima si riferisce al gioco della carte.
(l’asso come carta che in molti giochi ha valore “uno”)
La seconda alla mitologia greca

 

RISPOSTA:

L’unica forma corretta è “piantare in asso”, che ha però un’etimologia che non ha nulla a che vedere col gioco delle carte. Essa infatti deriva dal mito di Arianna piantata “in Nasso” da Bacco. L’espressione è state reinterpretata popolarmente, mediante erronea segmentazione di parole, in nasso > in asso. Oggi, tuttavia, la forma originaria ha del tutto perso il suo valore idiomatico, che è rimasto soltanto proprio della seconda (cioè quella originariamente sbagliata).
Quindi, concludendo, oggi NON si può dire “piantare in Nasso”, MA si può dire SOLO “piantare in asso”, sebbene l’origine della seconda espressione sia la prima. L’etimologia spiega l’origine delle parole MA NON ne giustifica l’uso odierno. Se così fosse, oggi il significato di casa sarebbe “baracca” e il significato di duomo sarebbe “casa”, perché questi ultimi, in effetti, erano i significati delle antiche parole latine casa e domum. Le parole e le frasi cambiano, come cambiano i loro significati.

Fabio Rossi

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Nella penultima strofa della poesia che riporto qui sotto, ho usato il futuro semplice andrò mentre il verbo precedente è al presente. Lo ritenete corretto o sarebbe meglio usare anche lì il presente? 

“…e domani, speriamo bene, / comincio: andrò a bottega / da un certo Verrocchio…”.

 

RISPOSTA:

L’alternanza comincio / andrò è possibile: può essere giustificata da una sfumatura semantica intesa dall’autore, da ragioni fonetiche o entrambe le cose insieme.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Retorica, Verbo
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QUESITO:

Gradirei sapere perché il plurale della parola assassinio risulta essere assassinii, mentre il plurale della parola guscio o della parola occhio risulta essere (almeno da quello che ho avuto modo di notare in alcuni scritti) gusci occhi, anziché guscii occhii. Vorrei sapere se c’è una regola in proposito.

 

RISPOSTA:

Nell’italiano contemporaneo i nomi che al singolare finiscono in -io al plurale mantengono la i se essa è accentata (addio > addii), la perdono se non è accentata (occhio > occhi). Le forme occhiigusciibivii ecc., rispettose della forma della parola, ma non del suono, visto che la sequenza ii del plurale si pronuncia come un’unica i, sono attestate fino a metà Novecento, per poi divenire rare o essere completamente abbandonate.
La i non accentata del singolare si mantiene al plurale nella parola assassinio soltanto per distinguere nello scritto questo nome dall’omofono (nonché omografo) assassini, plurale di assassino. Si noti che questa motivazione è molto debole, infatti il plurale assassini per assassinio è anche possibile, così come il plurale omicidi per omicidio è più comune di omicidii, a dispetto dell’esistenza dell’omofono e omografo omicidi, plurale di omicida.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Storia della lingua
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QUESITO:

Quali delle seguenti frasi, è corretta da un punto di vista grammaticale?
Non ci ho voglia
Non c’ho voglia
Non ciò voglia
 

 

RISPOSTA:

“Non ci ho voglia” e “Non c’ho voglia” sono entrambe corrette, sebbene entrambe informali (la seconda più della prima) e adatte più al parlato che allo scritto, per via della presenza del ci attualizzante, rispetto al più formale “Non ho voglia”. La seconda, inoltre, genere problemi di pronuncia, poiché, per la mancanza di una vocale palatale, indurrebbe l’erronea pronuncia “kò”.
“Non ciò voglia” è un grave errore, perché confonde “ci ho” con il pronome “ciò”, solo per via del fatto che la pronuncia delle due forme è identica. Naturalmente la forma “non ciò voglia” non ha alcun senso e dunque è annoverabile tra le forme di italiano popolare, oppure di interlingua, ovvero una forma tipica di chi non conosce bene o affatto la lingua italiana.

Fabio Rossi

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Con la parola stivali si usa quelli o queglibelli o begli?
Ad esempio questa affermazione è corretta? “Ho visto dei begli stivali. Penso proprio che prenderò quegli”.

 

RISPOSTA:

Tutti i nomi che cominciano per s seguita da altra consonante (comunemente detta s impura) richiedono l’articolo determinativo lo / gli, quindi anche gli aggettivi quello / quegli e bello / begli. Il sintagma corretto, pertanto, è begli stivali. Il pronome quello non è toccato da questa regola: esso presenta soltanto le forme quello quella / quelli / quelle. Nella sua frase, quindi, dovrà scrivere prenderò quelli. Si badi che anche l’aggettivo bello torna alla sua forma base se non è seguito da un nome iniziante per impura; per esempio: “Belli quegli stivali!” (e non *”Begli quegli stivali!”).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo
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QUESITO:

“Entro stasera bisogna che il capoufficio mi chiami/mi abbia chiamato.”
“Entro stasera bisognerebbe che il capoufficio mi chiamasse/mi avesse chiamato.”
Se le due varianti proposte per ognuna delle frasi sono corrette, domando:
le forme verbali in questi casi sono riconducibili alla consecutio (abbia chiamato e avesse chiamato sono rispettivamente anteriori a bisogna e bisognerebbe), oppure indicano il grado di probabilità dell’evento (abbia chiamato e avessi chiamato sono meno probabili rispetto a chiami e chiamasse)?

 

RISPOSTA:

Il verbo bisognare (e analoghi: è necessariorichiesto ecc.) regge una completiva che ha due marche di subordinazione: il connettivo che (talora omesso) e il congiuntivo, che nel registro meno formale può tranquillamente sempre essere sostituito dall’indicativo. Il congiuntivo, pertanto, retaggio di antiche reggenze latine, serve a indicare la subordinazione e non il grado di eventualità (come erroneamente detto dalle grammatiche), tranne in alcuni ovvi casi come il periodo ipotetico ecc. (ma su questo troverà ampia documentazione nel nostro archivio delle risposte DICO digitando la parola congiuntivo). La completiva retta da bisogna non ha bisogno (scusi il gioco di parole) di specificare finemente il tempo dell’azione rispetto alla reggente; in altre parole, da adesso (momento dell’enunciazione, ovvero di chi dice bisogna) a quando l’enunciatore/trice ritiene che “bisogni”, l’azione si esprime di norma al presente (o all’imperfetto in dipendenza da bisognava). Oltretutto, nel suo esempio, l’azione della chiamata non è anteriore, bensì posteriore alla reggente (bisogna adesso), ma è semmai anteriore rispetto alla circostanza posta dallo/a stesso/a enunciatore/trice (entro stasera). Motivo per cui, a maggior ragione, non c’è alcun bisogno di utilizzare il passato (mi abbia chiamato / mi avesse chiamato), né c’entra nulla l’eventualità; come ripeto, infatti, il congiuntivo è richiesto (nello stile formale) come marca di subordinazione, non come indicazione di eventualità (bisogna, oltretutto, esprime la necessità non certo l’eventualità, sebbene non sia certo se la persona chiami o no). Quindi, la consecutio temporum non richiede affatto il passato e l’azione espressa al presente (o all’imperfetto) rappresenta l’alternativa migliore. Possiamo dunque dire che l’alternativa mi abbia / avesse chiamato sia (o è) scorretta? Non direi: con la lingua si può fare quasi tutto quel che si vuole e pertanto se un/a parlante sente l’esigenza di esprimere l’azione come anteriore vuol dire che la lingua gli/le consente di farlo, però mi sento di affermare che la soluzione al passato / trapassato sia / è meno appropriata, soprattutto a un contesto formale.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Ho un dubbio a proposito della divisione in sillabe di parole che presentano le vocali ui o iu.
Sui-no o su-i-noRe-sti-tui-re o re-sti-tu-i-re?
In particolar modo, se la vocale accentata è la seconda ho trovato pareri discordanti.
Quindi, dittongo o iato?

 

RISPOSTA:

In entrambi i casi da lei proposti si tratta di uno iato, perché la u primo elemento della coppia ui è una vocale, e non una semivocale (quindi si pronuncia autonomamente rispetto alla i). Per questa ragione la divisione in sillabe sarà su-i-no e re-sti-tu-i-re
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

Mi sembra che gran e grande siano quasi sempre interscambiabili, sia al maschile che al femminile. Esempi: un gran silenzio e un grande silenziouna gran donna e una grande donna. Ovviamente, davanti ad una vocale si dirà un grand’uomo, con la d prima dell’apostrofo e non un gran uomo. Idem al femminile: una grand’italiana. Ma con la z e la cosiddetta s impura come la mettiamo? Ho letto recentemente su un quotidiano: un gran spavento. Non si dovrebbe dire e scrivere un grande spavento? E con la z, non penso si possa dire una gran zuppa e un gran zio. Ma allora dovrebbe essere sbagliato anche un gran spavento

 

RISPOSTA:

La risposta “Grande / gran / grand’” dell’archivio di DICO risponde quasi pienamente a questa domanda. Aggiungo qui che nell’Italia settentrionale è del tutto comune l’uso di gran in tutti i contesti, anche davanti a consonanti implicate (come la s impura), non contemplato nell’italiano standard. Non mi sorprenderebbe, pertanto, che l’esempio da lei letto sia opera di uno scrivente di provenienza settentrionale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

Nello studio della grammatica di nostra figlia ci siamo imbattuti un una discrepanza tra due libri di testo sull’argomento dei trigrammi che sono quindi a chiedervi di dirimere.
La prima domanda è quindi se i trigrammi siano da considerarsi due o quattro.
Inoltre:
1) in “Grammatica Pratica” di E. Sergio è scritto che ci e gi seguiti da ae, o, u sono digrammi. Quindi specieciecocielosocietàsuperficiebracierepancieragrattacieloigiene e derivati, effigie sono da considerarsi correttamente digrammi? 
2) Nella stessa grammatica viene illustrato il caso di sciatore fruscio e evidenziando che non si tratta di trigrammi. Sono quindi da considerarsi digrammi?
3) In “Datti una Regola” di E. Zordan c’è una nota sia per i digrammi che per i trigrammi: “nei gruppi cigi seguiti da vocali, la i serve solo da segno grafico per rendere dolci i suoni c e g“. Per segno grafico si intende segno diacritico? Ovvero nei digrammi e trigrammi i ed h sono sempre segni diacritici?

 

RISPOSTA:

I trigrammi in italiano sono 2, gli (come in aglio) e sci (come in sciocco). I digrammi, invece, sono sette: gl davanti a i (figli); gn davanti a vocale (compagno); ch davanti a e e i (chiedere); gh davanti a e e i (margherita); sc davanti a e e i (scena); ci davanti a aou (camicia); gi davanti a aou (valigia). Il caso dei gruppi ci e gi seguiti da e è oggetto di dibattito, perché qui la i non corrisponde a un fonema né ha funzione diacritica; continuiamo a scriverla soltanto per mantenere la somiglianza grafica delle parole con la loro base etimologica (ad esempio effigie effigiempanciera < pancia + -ieracamicie < camicia ecc.). Se eliminiamo questa i il suono della parola non cambia affatto (infatti alcune di queste parole si possono scrivere anche senza i, come pancera o effige). Effettivamente, però, anche in questo caso abbiamo due grafemi (i e g + i) che rappresentano un unico fonema, quindi possiamo considerarli digrammi.
Chi e ghi non sono trigrammi, ma l’unione di due digrammi, ch e gh, con la vocale (o la semivocale) i. Si noti, infatti, che in aglio e sciocco i gruppi di grafemi gli e sci rappresentano ognuno un unico suono, mentre in chiedere e ghiro i gruppi chi e ghi rappresentano due suoni, rispettivamente ch-i e gh-i
La i segno diacritico (o segno grafico, cioè senza valore fonetico) è quella che serve a indicare che il grafema precedente deve essere pronunciato come palatale (o dolce) e non come velare (o duro). Per esempio nella parola sciatto la i indica che il fonema corrispondente al digramma sc è palatale. Dal momento che il grafema i è funzionale alla pronuncia del digramma sc lo consideriamo un tutt’uno con esso, per cui otteniamo il trigramma sci. Se in questa parola togliamo il grafema i otteniamo una parola diversa, scatto, nella quale abbiamo due fonemi distinti, quello corrispondente al grafema s e quello corrispondente al grafema c velare (oltre agli altri che completano la parola). La i è un segno diacritico nei digrammi ci e gi e nei trigrammi; ha, invece, valore fonetico, cioè corrisponde a un fonema autonomo, quando è accentata (come in fruscio, in cui abbiamo il digramma sc seguito dal fonema corrispondente a i) oppure quando non è preceduta da sccg o gl (attivi). La parola sciare è un caso isolato, perché non si pronuncia sciàre, quindi con il trigramma sci, ma quasi scìàre, con la i autonoma. Per capire meglio questa particolarità basta confrontare la pronuncia di sciare con quella di sciara (‘la scia della lava depositata sui fianchi di un vulcano’), in cui sci è un trigramma.
Anche l’h è un segno diacritico, che indica il contrario della i, ovvero che il fonema precedente deve essere pronunciato come velare e non come palatale. In italiano l’h non ha mai valore fonetico (è “muta”), ma può servire 1. come segno diacritico; 2. a distinguere graficamente due parole omofone (ad esempio ha e a); a rappresentare una particolare emissione della voce nelle onomatopee ah!oh! e simili.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

Navigando su internet mi sono imbattuto quasi per caso nel concetto di “vocali sonore aspirate” (alla voce wikipedia di “sonorizzazione aspirata”). Potrei chiederle gentilmente se si tratta di un errore (si sa il grado di attendibilità di wikipedia…) oppure se è qualcosa che riguarda lingue particolari. 

Alla voce predetta ci si limita a dire che “le vocali sonore aspirate sono scritte. Secondo me si intendeva dire vocali sonore mute (in francese esistono).

Vorrei inoltre chiederle alcune conferme in tema di parole con le doppie: è esatto dire che le doppie sono allungamenti delle consonanti o delle vocali di durata variabile (non quindi necessariamente con raddoppio della sonorità), anche a seconda del grado di intensità che si vuole dare di volta in volta alla parola utilizzata? La finalità delle doppie qual è, quella di creare nuove combinazione per nuove parole? 

Infine, esistono dati (anche per approssimazione ovviamente) circa il numero di parole  italiano con le doppie?

 

RISPOSTA:

La voce di Wikipedia sembra, in questo caso, un mezzo disastro (altre voci sono ben fatte, ma questa no), perché usa il termine tecnico sonorizzazione in due accezioni differenti: da un lato, nel senso noto in fonologia (è sonoro ciò che mette in vibrazione le corde vocali, sordo ciò che non le fa vibrare); dall’altro, come termine (impreciso) della versione vulgata della fonetica articolatoria che indica più o meno ‘ciò che è udibile’, cioè udibile anche se sussurrato e con notevole passaggio di aria. Lo stesso dicasi per aspirato, usato in modo contraddittorio. È chiaro che tra i due significati ci sia un ampio margine di sovrapposizione: ciò che è udibile deve, in certo qual modo, produrre vibrazione delle corde. Ma non necessariamente, in realtà: anche un soffio è udibile, ma non per questo è sonoro (cioè non provoca vibrazione delle corde vocali): da qui l’uso incoerente o oscillante dei termini sonoro e aspirato in questo articolo di Wikipedia.

Il disastro diventa massimo quando l’articolo invoca un’inconsistente “vocale sonora aspirata”. Se è vocale, è per forza sonora (in fonetica, ma non in ortografia, come dirò tra un secondo) e se è aspirata non è solo vocale, ma ha almeno una testa o una coda consonantica, per es. un fonema glottidale (come nelle numerose lingue che contengono consonanti aspirate) o di altra natura. Come se pronunciassi “ha” con una forte aspirazione iniziale: è chiaro che ad essere aspirata non sarebbe la vocale, ma la consonante che la precede (non certo in italiano, dove la h è sempre muta, cioè si scrive ma non si pronuncia).

Nulla di tutto questo ha a che vedere con le mute, che è un concetto che – per es. nel francese la e non accentata, o nella h italiana – ha a che vedere con la grafia e con la pronuncia: cioè alcuni segni di scrivono (per retaggio grafico del passato) ma NON si pronunciano (o si neutralizzano nella pronuncia come schwa, nel caso della e in certe parole e in certe pronunce del francese odierno e del passato, ma con modalità differenti nelle diverse epoche).

Insomma: un conto è l’aspirazione (che non ha a che vedere con le vocali ma con le consonanti), un conto l’essere muto (problema grafico e fonetico insieme), un conto la sonorità (che riguarda la vibrazione, rispetto alla non vibrazione, delle corde vocali), e un altro conto ancora è la pronuncia sussurrata o sfiatata o altro, che riguarda unicamente una modalità di articolazione pertinente alla fonetica e non (salvo eccezioni di certe lingue) alla fonologia. Per un esempio di pronuncia sibilata (o aspirata, come erroneamente definita nell’articolo) immagini quando lei sussurra una frase per non essere sentito da tutti.

Inoltre, quando Wikipedia scrive “le vocali ecc. sono scritte ecc.” intende dire: ‘si scrivono in alfabetico fonetico come [a] [e] ecc.’, ma, ancora una volta, sbaglia, perché se sono veramente aspirate si scrivono (sempre in alfabeto fonetico) diversamente e presuppongono prima (o più raramente dopo) della vocale stessa un elemento consonantico (se trattasi di un fonema, nelle lingue che posseggono fonemi aspirati: quali le glottidali o anche le fricative), oppure un fono (se trattasi di mera articolazione priva di ricaduta semantica) comunque di natura aspirata (glottidale ecc.).

Per quanto riguarda le doppie: consonante doppia = consonante lunga (o meglio intensa) e conseguentemente vocale breve della medesima sillaba; prendiamo papa / pappa: in pappa non è soltanto la p a essere più lunga, ma anche la prima a a essere più breve. Viceversa per le cosiddette scempie (che in fonetica si definiscono tenui).

Non tiriamo in ballo la sonorità, che riguarda la vibrazione delle corde vocali: esistono doppie sia nelle sorde (tt) sia nelle sonore (dd). Forse lei intende dire  ‘allungamento del suono’: questo è vero talora. Ma nelle sorde si ha allungamento di un non suono: provi a pronunciare tatto e daddo: scoprirà che in tatto tra la a e la o le sue corde vocali non vibrano (basta toccarsi il pomo d’Adamo con un dito) e dunque c’è una pausa (più lunga che in tato), mentre in daddo vibrano (meno a lungo che in dado) e infatti sentirà un pizzicorino sul dito che sta toccando il pomo d’Adamo. Non confonda sonoro con suono (come faceva Wikipedia!).

Sì, infine, la finalità delle doppie è creare nuove parole: pala / palla ecc.

Sicuramente esistono strumenti elettronici in grado di rilevare la statistica delle parole con doppie in italiano: non ho un riferimento preciso, ma provi a cercare online. Ormai la statistica applicata alla linguistica è una disciplina assai consolidata, da decenni. Basterebbe anche, con un dizionario elettronico che consenta una ricerca nel solo campo lemma, chiedere quanti lemmi contengono bb, quanti ccdd ecc. per tutte le consonanti doppie. Facendo la somma, si otterrebbe il numero dei lemmi con doppie in italiano, presumibilmente assai elevato, almeno un quarto del totale dei lemmi in italiano, che, secondo i dizionari più ricchi, sono almeno 250 mila, sebbene i più frequenti non siano più di diecimila.

Naturalmente possono esistere anche parole con doppie vocali, o vocali lunghe, ma occorre distinguere tra quelle che si pronunciano lunghe pur non essendo scritte due volte, quelle che invece sono scritte due volte (come certe interiezioni: aah), quelle che sono scritte due volte per motivi lessicali, morfologici, retaggi etimologici ecc. (zoostudiimaree ecc.).

Né nelle consonanti né nelle vocali, infine, il piano grafico va confuso con quello fonetico, né quello fonetico (tutti i suoni) con quello fonologico (solo i suoni pertinenti, cioè quelli che, se tolti o aggiunti, determinano un nuovo significato: papa / pappa). Non tutto ciò che si scrive raddoppiato si pronuncia due volte e inoltre, in modo pressoché sistematico (tranne che nei casi delle due vocali morfologiche: marea / maree e simili), un grafema doppio non corrisponde a un suono doppio, ma, semmai (laddove la lingua lo preveda) a un fonema più lungo (rispetto a quello scritto come non doppio, o scempio). E viceversa: taluni segni si scrivono come scempi ma si pronunciano come lunghi: da Firenze (inclusa) in giù grazie si pronuncia indubitabilmente come grazzie (o grazzzzzie!), sebbene la scrizione con due o più zeta sia un gravissimo errore di ortografia.

Insomma la fonetica, l’etimologia, i rapporti tra grafia e pronuncia di vocali e consonanti semplici o doppie ci porta lontanissimo e non possiamo esaurirlo qui. Inoltre, bisognerebbe tener conto delle differenze tra le varie lingue: in talune, come l’italiano, la lunghezza consonantica è fonologicamente più pertinente di quella vocalica, in altre, come l’inglese, accade l’opposto, in francese le doppie consonanti esistono solo graficamente ma non hanno alcuna pertinenza fonologica ecc. ecc.

 

Fabio Rossi

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QUESITO:

Perché il superlativo simpaticissimo si forma cosi? Se largo  >  larghissimo, perché non si forma simpatichissimo?

 

RISPOSTA:

Le consonanti velari (la c di casa e la g di gatto) a volte vengono a trovarsi davanti a o a i a causa della flessione o della derivazione. Quando questo succede ci sono due possibilità: che si mantenga il suono, modificando la grafia (inserendo una h tra la consonante e la vocale), o che si mantenga la grafia, modificando il suono (le consonanti velari diventano palatali). Un esempio del primo tipo è il plurale dei nomi e degli aggettivi che al singolare finiscono in -co-ca-go-gateca techebongo > bonghilargo > larghi (e quindi anche largo > larghissimo). Un esempio del secondo tipo è l’alternanza vinco / vinci nel verbo vincere (ma anche simpatico > simpaticissimo).
Il criterio secondo cui si mantiene il suono o la grafia non è preciso; quasi sempre, se la parola di base è piana (cioè ha l’accento sulla penultima sillaba) nella flessione o nella derivazione si mantiene il suono (larghi e larghissimotecheantichi), se, invece, la parola è sdrucciola (cioè ha l’accento sulla terzultima sillaba) si mantiene la grafia (simpatico > simpatici e simpaticissmo). Un’eccezione a questa regola è amico > amici (non amichi). Tra i verbi, se l’infinito è piano si mantiene il suono (legare > io legotu leghi), se l’infinito è sdrucciolo si mantiene la grafia (oltre a vincere ricordiamo spingere io spingotu spingi). 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Leggo quanto scrive un politico di un contesto provinciale: “Sono stato bravo nel scegliere le persone …”. Credo che sia uno strafalcione. La regola della cosiddetta s impura vale anche davanti ai verbi. Quindi: nello scegliere. Concorda?

 

RISPOSTA:

Certamente: la regola ha un’origine fonetica, quindi si applica a prescindere dalle categorie lessicali.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La lettera w fa parte dell’alfabeto italiano oppure è una lettera a parte di origine straniera? 

 

RISPOSTA:

Precisiamo innanzitutto che w è un grafema, cioè un simbolo che corrisponde a un suono o fonema. Questa precisazione serve perché alcuni grafemi, tra cui anche questo, corrispondono a più di un fonema. Il termine lettera, invece, confonde il valore grafico con quello fonetico.
Il grafema w non fa parte dell’alfabeto italiano, che comprende solo 21 grafemi, ma rientra nell’alfabeto latino moderno. Fu inventato dagli scrittori anglosassoni del Medioevo per distinguere la u vocale dalla u semiconsonante (quella dell’inglese whisky) o consonante (quella del tedesco wafer).  
Nell’alfabeto latino classico, infatti, il grafema u (maiuscolo V) aveva allo stesso tempo il valore consonantico della v, quello vocalico della u e quello semiconsonantico della u di whisky; quindi si potevano avere parole come uult (= vult ‘lui / lei vuole’).
In italiano, a partire dal XVI secolo il grafema u si stabilizzò con il valore vocalico (luce) e semivocalico / semiconsonantico (uomo); il grafema v con quello di consonante (vino). La w, invece, non fu accolta, ma rimase appannaggio delle lingue germaniche, che pure usano lo stesso alfabeto neolatino di base dell’italiano. 
Il grafema w fu introdotto molto tempo dopo per poter scrivere alcuni nomi e parole inglesi o tedeschi (Washingtonweltanschauung) e si pronuncia, di solito, come nella lingua di origine del termine, quindi u semiconsonante per parole di origine inglese e v per parole di origine tedesca.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

Quali sono gli unici sistemi (o l’unico sistema) che ha corrispondenza biunivoca tra foni e grafemi?

 

RISPOSTA:

Le lingue sono tendenzialmente più o meno trasparenti dal punto di vista fonologico (tra quelle più trasparenti ci sono l’italiano, lo spagnolo e il tedesco) e nessuna lingua naturale è totalmente trasparente. Totalmente trasparente è l’esperanto, la lingua artificiale creata nell’Ottocento da Ludwik Lejzer Zamenhof.
Esiste, inoltre, l’IPA (International Phonetic Alphabet), un sistema di simboli che rappresentano in modo univoco tutti i foni potenzialmente producibili dal sistema fonatorio umano. In questo senso, l’IPA può essere considerato l’unico sistema che presenta un rapporto uno a uno tra simbolo grafico e fono. I simboli dell’IPA possono essere definiti grafemi, in quanto ognuno rappresenta in modo grafico un fono, che a sua volta è codificato come fonema in una o più lingue.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho letto nell’enciclopedia Treccani online: “Nei casi in cui è seguito dalla vocale ‹i›, ma non è preceduto da ‹n›, il nesso ‹gl› può essere pronunciato [gl] oppure come laterale palatale [ʎ] (di grado intenso se intervocalica, come nella quasi totalità dei casi) a seconda della posizione e del contesto di parola.
Che cosa significa contesto di parola?

 

RISPOSTA:

L’espressione indica i fonemi, ovvero i suoni, che si trovano intorno, prima e dopo, a quello considerato, che possono modificarlo per approssimazione, provocando per esempio assimilazione o dissimilazione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Sono il segretario di una Associazione nazionale di professionisti di una disciplina del benessere denominata Wa… Il nome è un marchio registrato, ma identifica ormai comunemente la nostra professione e disciplina. Stiamo realizzando il nuovo logo dell’associazione sotto il quale dobbiamo usare la parola Professionisti Wa… È stato proposto Professionisti del Wa…, ma alcuni lo ritengono grammaticalmente scorretto perché prima di un nome proprio, come ritengono essere Wa…, andrebbe semmai la preposizione di. Suggeriscono, quindi, Professionisti di Wa… Altri invece ritengono Wa… il nome comune della disciplina e utilizzerebbero senza problemi la preposizione articolata. 
Anche l’articolo da utilizzare crea dubbi. Dobbiamo scrivere il Wa… o lo Wa…?

 

RISPOSTA:

Il nome della disciplina dovrebbe essere allineato con altri nomi di sport come calciotennisaquagym ecc. Dovrebbe, quindi, essere comune, non proprio. Detto questo, ricordiamo che anche i nomi comuni singolari, che di norma sono preceduti da un articolo, possono non avere l’articolo; ma solo ad alcune condizioni. Rimanendo nell’ambito dei nomi di sport, notiamo che essi sono spesso senza articolo quando sono preceduti dalle preposizioni di o da, a loro volta rette da alcuni nomi o aggettivi (esperto di calciotifoso di calciosquadra di calcioscarpette da calcio…). La caduta dell’articolo si può avere anche dopo a retta da alcuni verbi: giocare a calcio.
Dopo professionisti di di solito l’articolo è mantenuto (professionisti del calciodel tennisdella pallavolo); molto forte, però, è l’attrazione di esperti di, che, invece, di solito non ha l’articolo (esperti di calcio): ne deriva la possibilità di scegliere liberamente tra le due varianti, considerando, però, che quella con l’articolo è la più regolare.
L’articolo da scegliere è anche una questione aperta. In italiano il suono [w] (corrispondente alla vocale u seguita da un’altra vocale) è preceduto da lo, che, però, è sempre apostrofato: l’uomol’uovo (molto innaturale lo uomo ecc.). Davanti alle parole straniere inizianti per w, però, è invalsa l’abitudine di usare il (il würstelil wasabi), sebbene il suono della lettera w coincida perfettamente con [w]. Paradossalmente, la scelta più corretta, l’w-, è percepita come scorretta dalla maggioranza dei parlanti, che propende per il w- (ma l’u-). Chiaramente, la ragione per cui i parlanti non accettano l’wasabi è che graficamente il nome comincia per consonante (sebbene foneticamente, che è ciò che conta, cominci per vocale). A dimostrazione di questo, il nome di un gruppo musicale famoso qualche anno fa, One direction, era quasi sempre preceduto da gli, sebbene one si pronunci [wa-] (come wasabi).
In conclusione, il mio consiglio è professionisti del Watsu®, ma tutte le altre opzioni sono più o meno valide. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Nome, Preposizione
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QUESITO:

Le seguenti parole usate come sostantivi sono invariabili (cioè hanno la forma plurale e la terminazione non cambia col mutare del numero) o ammettono solo il singolare? Se sono variabili e si usa il plurale, quale terminazione hanno:
domani ‘il giorno seguente, il giorno dopo’; ‘il futuro, l’avvenire’; 
dopo ‘ciò che accadrà poi; l’avvenire, il futuro’;
eden ‘il paradiso terrestre’; luogo o condizione di pace e di felicità’;
ginseng ‘pianta erbacea perenne della famiglia delle Araliacee’;
io ‘la propria persona’;
iris ‘giaggiolo’;
mais ‘ganturco’;
mammut ‘elefante preistorico’;
marcia ‘materia purulenta, pus’;
masutmazut ‘residuo della distillazione dei petroli greggi’;
megahertz ‘unità di misura della frequenza’;
meno ‘la cosa minore, la parte minore; segno di valori negativi e dell’operazione della sottrazione’.
Quale articolo indeterminativo bisogna usare davanti a pneumatico e iota? Nei vari dizionari della lingua italiana ho trovato: non capire un / una iotanon valere uno / una iotaun / uno pneumatico.

 

RISPOSTA:

​Come regola generale, i sostantivi che finiscono per consonante sono invariabili (e molto spesso maschili). Quindi un ginseng / molti ginsengun megahertz molti megahertz. Questa regola si intreccia con il significato dei sostantivi, che a volte esclude l’uso plurale. Questo è il caso di eden, che indica un luogo unico, difficilmente immaginabile al plurale. È il caso anche di mais, che non è usato al plurale perché indica un prodotto considerato complessivamente (come mais si comportano i sostantivi che indicano sostanze: acquasalemercurio…).
Le parole del suo elenco che non sono sostantivi, ma avverbi (domanimenodopo) o pronomi (io), quando sono usati con la funzione di sostantivi non ammettono il plurale, se non in casi molto rari (“I domani di ieri” è un romanzo di Ali Bécheur del 2019). In questi casi, comunque, sono invariabili.
Infine, il termine marcia ‘pus’ (antiquato e di bassissimo uso) non si usa al plurale perché indica una sostanza.
Per quanto riguarda gli articoli da scegliere, il nome pneumatico va considerato come psicologo, quindi uno pneumatico. Negli ultimi decenni si è, però, diffuso nell’uso un pneumatico, e oggi entrambe le soluzioni sono accettabili (ma uno pneumatico è più corretta). Iota può essere considerato sia maschile sia femminile; inoltre un iotauno iotauna iota (raro un’iota) sono tutte soluzioni corrette, perché il suono [j], corrispondente a una i seguita da una vocale, è a metà strada tra una vocale e una consonante. Oggi sono più comuni uno iota e una iota (ma si consideri che questa parola è rara). Nell’espressione non capire un iota si conserva il modo di scrivere più comune in passato (si può comunque dire non capire uno / una iota), visto che l’espressione è antiquata; oggi si preferisce dire non capire un’acca oppure non capire un tubo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Un’amica mi ha fatto venire un dubbio: il caso è diverso dal classico bell’e buono in quanto ci siamo chiesti quale sia la forma corretta tra un bel e ricco libro (forma da lei sostenuta) e un bello e ricco libro (forma da me sostenuta).

 

RISPOSTA:

​Il vincitore della sfida è lei (ma si tratta di una mezza vittoria): bello e bel si comportano come lo e il se sono seguiti direttamente dal nome a cui si riferiscono; quindi bello sguardo (come lo sguardo), bello zoccolobello arcobaleno (o meglio bell’arcobaleno), ma bel canto (come il canto), bel discorso ecc. Nella sua espressione, bello non è seguito direttamente dal nome, ma l’elisione (bell’) è comunque preferita davanti a vocale (è quel che succede in bell’e buono), mentre l’apocope (bel) non è giustificata. Ubello e ricco libro, quindi, è possibile, ma oggi è sfavorita rispetto a bell’e ricco. Se vogliamo mantenere bello nella sua forma piena, dobbiamo farlo uscire dall’orbita del nome, posponendolo a questo: un libro bello e ricco
La forma apocopata bel è soggetta a restrizioni ancora maggiori se è seguita da un elemento diverso dal nome (perché si perde il rispecchiamento con l’articolo). Un caso come un bel ma stupido ragazzo è da scartare in favore di un ragazzo bello ma stupido (meno felice un bello ma stupido ragazzo): anche qui l’aggettivo posposto al nome a cui si riferisce si libera dal paragone con l’articolo e non è più soggetto all’apocope.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Articolo
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QUESITO:

Ho difficoltà a capire le sigle e gli acronimi. Gli acronimi sono quasi sempre sigle e si leggono per esteso. Mi sono chiesto: come mai STA si legge distaccato, visto che è un nome leggibile? Non dovrebbe essere un acronimo? Queste parole sono da considerare acronimi? As, us, mi, ez, arm e gil. Queste, invece, no? ASH,USC,UGL, UGN.
Se scrivessi un nickname strambo del tipo ngnmlo, si potrebbe tranquillamente leggere, nonostante le posizioni delle consonanti sballate? Inoltre, l’acronimo Ngnmlo non è leggibile di vera regola per via dell’eccesso di consonanti? Ngenmlo e Nginmlo invece sì? Una sigla senza puntini non si potrebbe confondere con un nome? Per esempio, se scrivessi MLIC, una persona non potrebbe pensare che possa essere una sigla e quindi pronunciarlo distaccato e non come un nome (sempre il caso del nickname).
Il numero di consonanti che possono stare insieme è 3? In italiano ci sono dei criteri per capire se una consonante può stare con un’altra? Cso è impronunciabile perché cs è all’inizio, questo vale anche per la n iniziale seguita da consonante. Ci sono coppie di consonanti che a fine di parola sono pronunciabili (tipo ansasling)  e coppie che non lo sono (amdazt ecc.). Come riconoscerle?

RISPOSTA:

Gli acronimi, o sigle, possono essere costituiti sia da singole lettere, ciascuna corrispondente all’iniziale di una parola (USAONU ecc.), sia da sillabe, sia da altri insiemi di lettere, sillabe, parti di parola e parole intere talora imprevedibili (per es. Confcommercio = Confederazione del Commercio). Il fatto che un acronimo venga letto una lettera alla volta, oppure come fosse una parola autonoma (come USAONU ecc.) è anch’esso poco prevedibile e dipende sostanzialmente da tre fattori: la facile (o difficile) leggibilità dell’insieme delle componenti (agevole in STA, decisamente scarsa in CGIL), la frequenza (e dunque la facile riconoscibilità) dell’acronimo, la possibilità di equivoci con omofoni: in effetti, se STA può essere confuso con la terza persona del verbo stare, sarebbe meglio pronunciarlo Esse Ti A.
Anche l’uso maiuscolo o minuscolo delle componenti è imprevedibile: di solito, se un acronimo è d’uso molto comune, può essere scritto con la sola prima lettera maiuscola e le altre minuscole (UsaOnu), ma le versione con tutte le lettere maiuscole è comunque sempre adeguata (USAONU).
Anche il fatto che un acronimo si scriva con o senza puntini è difficilmente prevedibile: in angloamericano, in cui si abusa di acronimi, raramente le componenti dell’acronimo sono separate da puntini, in italiano di solito si usano i puntini per gli acronimi meno frequenti, non si usano per quelli più frequenti, ma, come ribadisco, non c’è una regola ferrea.
Tutti quelli da Lei citati possono essere considerati acronimi, se sono effettivamente sigle, cioè se a ciascuna lettera, o gruppo di lettere, corrisponde un nome proprio o comune. Se rientra in quest’ultima tipologia, anche quello da lei proposto (Ngnmlo) potrebbe essere un acronimo, sebbene non possa essere pronunciato come parola se non a costo di notevoli forzature fonetiche: potrebbe, per esempio, essere pronunciato come Ngenmlo o Nginmlo.
MLIC può essere facilmente pronunciato sia lettera per lettera, sia come parola autonoma, ma, ripeto, è un acronimo solo a condizione che le lettere, o i gruppi di lettere, che lo costituiscano siano associate a singole parole: per esempio (inventato), Misura Lineare Cubana (o mille altri significati reali che quest’acronimo ha in inglese, come appurerà facilmente on line). Se si vuole evitare l’equivoco tra acronimo e nomignolo, allora è bene chiarire sempre il valore dell’acronimo, per esempio sciogliendone il significato tra parentesi.
Le consonanti possono essere tre o quattro di seguito, se una è r o l, che resistono meglio di altre alla pronuncia non appoggiata a vocali. Per cui, per es., si pronuncia bene ARST, ma per il suo Ngnmlo è necessario un appoggio vocalico, magari realizzato diversamente rispetto a quanto proposto da me: che so, gnemmelo sarebbe carino, ancorché un po’ infedele.
La casistica fonetica italiana è in realtà molto complessa e controversa. Per un prospetto completo si invita a consultare manuali di fonetica specializzati, quali quelli di Marina Nespor, Luciano Canepari o Pietro Maturi, tra gli altri. Va detto però che le restrizioni fonetiche delle parole italiane possono essere infrante dagli acronimi pronunciati come fossero una parola. Per esempio, nessuna parola italiana può terminare nella sequenza affricata più occlusiva, per esempio azt, ma nulla vieta che l’acronimo azt venga pronunciato come se fosse una parola. 
Sarebbe bene non abusare di acronimi (sempre che non siano sciolti tra parentesi, come appena detto), a meno che non usuali e comprensibili ai più, se non si vuole escludere gli interlocutori. Sarà capitato anche a Lei, come a ciascuno di noi, immagino, di sentirsi frustrato, parlando specialmente con angloamericani, nel sentire una raffica di acronimi di cui ignorava il significato.
Fabio Rossi
Raphael Merida

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QUESITO:

Se esistesse un’interruzione con la c seguita o preceduta dall’h non cambierebbe il suono dolce della c? Mi è venuto questo dubbio per 2 motivi: se la c è in fine di parola (hhhc) è dura e anche quando è seguita da una consonante (cccch). Quelle fra parentesi sono le ipotesi che secondo me sono sbagliate.
Nelle interiezioni l’h divide il suono delle vocali (Ahahah)? Allunga il suono della vocale che la precede o che le sta davanti (hhhhheohhhehhhhi)? Le cose che ho elencato delle interiezioni non riguardano le parole?
In pezzi di parola e acronimi, nel caso dei dittonghi e trittonghi, l’h cambierebbe il suono?: ghnghliglhihgliglihoshci. La c quando è da sola viene considerata più come affricativa? Un esempio è: c’ho.
Le parole composte seguono una regola di lettura diversa da una parola normale? Un esempio di parola composta è scioglilingua e un esempio di parola è glicemia. Il suono della gli in glicemia è duro mentre in scioglilingua è diverso. Le parole composte si pronunciano separatamente?
Una parola composta potrebbe perdere la sua validità in quanto parola composta se si aggiungessero accenti, doppie oppure delle h sparse in modo casuale: sscioglilinguascíoglilinguascioglilinguàscioghlilinguascioglilihngua?
Nel caso di hascisconore si rischia la pronuncia sbagliata per quanto riguarda le parole composte, ma questo a cosa è dovuto? Hashishonore, invece, è più fattibile perché è una parola straniera riconoscibile? Le parole composte con le parole straniere talvolta possono essere complicate per via della riconoscibilità del termine? Per esempio le parole inglesi: Imea e do. Le parole composte seguono uno schema (nome+nome, aggettivo+aggettivo ecc.) oppure le parole possono essere messe a caso (nome+articolo). Le parole composte si potrebbero fare con qualsiasi tipo di parola: Interiezioni, nomi di persona, cognomi ecc.? Sono sempre composte da 2 parole? Le parole macedonia con i casi tipo hascisc non si potrebbero creare? Potrebbero coesistere le parole composte e le parole normali? Es: liberamente (è un avverbio, ma non si potrebbe creare un composto libera+mente?). Se esistesse una parola come ascisconore sarebbe assolutamente infattibile fare un composto come ascisc+onore?

 

RISPOSTA:

Non esistono regole, ma solo consuetudini e analogie, sulla pronuncia di pezzi di parola (quali acronimi o parole inventate o sezioni più o meno riconducibili a parti di parola esistente). Comunemente, se una parola inventata, o un pezzo di parola, o un acronimo, finisce per c (nessuna parola italiana esistente finora può finire per c), la c si pronuncia come velare, e non come affricata, perché la pronuncia velare è quella meno marcata, per così dire, cioè quella più comune, dal momento che le affricate (come la c di cena e la g di gelo, per intenderci) sono fonemi rarissimi, nelle lingue del mondo, e infatti l’italiano è una delle poche lingue a possederle nel proprio apparato fonologico.
Per quanto riguarda le interiezioni e gli ideofoni (cioè parole che indicano rumori), anche qui val più la convenzione, la consuetudine e l’analogia che la regola fonetica (inesistente). E dunque, l’h di solito non modifica la pronuncia né delle vocali né delle consonanti cui si accompagna, con la parziale eccezione per la c e la g, per analogia con le parole italiane: dunque ch e gh non possono che pronunciarsi, almeno in italiano, come velari. Anche hc e hg si pronuncerebbero come velari, sia per il mutismo della h sia per quanto appena detto sulla pronuncia non marcata delle velari. Per quanto riguarda le vocali, una parziale deroga al mutismo della h si ha nell’interiezione (o ideofono) che riproduce la risata, che da taluni (ma non necessariamente) viene pronunciata con una serie di a separate da aspirazione: ahahahah. L’allungamento vocalico delle interiezioni non è, di solito, segnalato dalla presenza o meno della h, bensì dal valore pragmatico, e dunque dal contesto d’uso, di quell’interiezione. E infatti, benché molte (non tutte) le interiezioni siano presenti nella gran parte dei dizionari, non v’è un accordo perfetto sulla loro grafia: chi scrive hm, chi mh, chi hmh, chi hmm ecc. Dicevo che è il contesto d’uso, più che la grafia, a segnalare la lunghezza vocalica (di norma non graficamente segnalata, in italiano, eccezion fatta per alcune interiezioni, per l’appunto, e con notevoli oscillazioni da autore ad autore). E dunque, anche per l’ah di meraviglia, per esempio, e anche a parità di scrittura (ah), ci sarà un caso come: “Ah, che spavento!” (che si pronuncia con una a breve) e un altro caso come “Ah, qui ti volevo! Lo vedi che avevo ragione io?!”, che si pronuncia con una a molto allungata.
D’altra parte, è possibile che talora lo scrivente senta l’esigenza di segnalare graficamente (o con l’h o con la duplicazione della vocale) il diverso valore pragmatico, e dunque anche la diversa pronuncia, delle interiezioni, distinguendo, per es., tra ehi e eeeeehi, o hhhhei o in altro modo ancora. Se, nella letteratura tradizionale, si tendeva a non ripetere stesse serie di grafemi per più di due volte, l’effervescenza grafica, e talora grafomane, incoraggiata dai nuovi media ha immesso in italiano (anche in letteratura) talune interiezioni fatte anche di lunghe serie di vocali e/o di h. Se accetta un consiglio, il troppo stroppia sempre, e il ricorso a questi mezzucci grafici è considerato, da taluni linguisti superciliosi come chi le scrive, un modo di scrivere assai cheap.
La prima parte della domanda sui pezzi di parola e gli acronimi non ha senso, perché MANCA una regola fonetica per la pronuncia delle parole inventate, dei pezzi di parola, degli acronimi, quindi i casi da lei elencati possono pronunciarsi come si vuole. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, la pronuncia affricata (affricativa non esiste, esistono le fricative, ma sono un’altra cosa) della c isolata in c’ho è la classica eccezione che conferma la regola della pronuncia velare di c in isolamento. In effetti, dato che la grafia c’ho (non a caso da taluni contestata e riflettente un caso di lingua parlata trascritta) contrassegna la caduta della i per elisione, allora lì la pronuncia permane quella affricata, come se la i rimanesse: ci ho.
La pronuncia dei composti non cambia, di norma, rispetto a quella delle parole componenti, tranne, talvolta, per questioni di accento (nel senso che tende a perdersi, anche come accento secondario, quello del primo elemento) o di raddoppiamento fonosintattico: per esempio, caffè + latte = caffellattecosì + che = cosicché.
Nel caso di scioglilingua, la pronuncia è quella normale, con l palatale, della parola sciogli. È semmai glicemia l’eccezione (come glicine e altre), nel senso che la pronuncia non palatale del nesso gl dipende dal fatto che quella parola deriva dal greco, lingua in cui la laterale palatale non esisteva (su quest’argomento può vedere la FAQ Pronuncia di Gliaca dell’archivio di DICO).
Benché l’italiano, a differenza dell’inglese, sia una lingua che segue l’ordine determinato + determinante, sono numerosi i composti (soprattutto dal greco o dall’inglese) che seguono l’ordine inverso: agopuntura, psicoterapia ecc., motivo per cui anche hashishonore nel significato di ‘onore dell’hashish’ potrebbe andar bene.
Dopodiché è ovvio che le parole non possano esser messe a caso, né in italiano né in inglese né in nessuna altra lingua, direi, ed è altresì chiaro che bisognerebbe tentare di evitare ambiguità di pronuncia e di senso. La libertà di scelta delle componenti di un composto è lasciata, un po’ come la pronuncia, al buon senso, anche qui tentando di evitare ambiguità: eviterei, per esempio, l’uso delle interiezioni nei composti, e forse anche l’uso degli articoli, nei limiti del possibile. Composti con nomi propri sono possibili, anche qui entro i limiti del buon senso e della comprensibilità. Per es., così come era comune, anni fa, il D’Alema-pensiero, oggi sarebbe possibile il Salvini-pensiero (ammesso che esista…), che tra l’altro segue l’ordine determinante + determinato.
Su libera mente inteso come “qualcosa che libera la mente”, ci hanno già pensato in molti prima di Lei, come scoprirà on line.
Fabio Rossi
Raphael Merida

Parole chiave: Interiezione, Neologismi
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QUESITO:
So che in italiano le singole lettere vengono pronunciate come quando si dice l’alfabeto: la (‘bi’), la (‘ci’), la (‘effe’). In alcuni casi ho dei dubbi: la c si pronuncia ‘c’; ma non dovrebbe essere accompagnata dalla i?. La pronuncia alfabetica riguarda anche i digrammi e trigrammi: la gl (‘gi elle’), la gn (‘gi enne’), la ch (‘ci acca’), la gli (‘gi elle i’). Come mai anche i digrammi si pronunciano separatamente?

 

RISPOSTA:

​Il concetto di lettera è ambiguo, perché può riferirsi a un oggetto fonetico, il fonema, e a uno grafico, il grafema. Ricordiamo che le lingue nascono parlate, quindi sono composte prima di tutto dai fonemi, i suoni che i parlanti di una determinata lingua riconoscono come distinti e autonomi. I grafemi sono tentativi di “tradurre” i suoni in segni grafici, per dare un corpo visibile ai suoni, in modo da poterli scrivere. 
L’alfabeto di una lingua è fatto di grafemi, che sono tipicamente in numero minore rispetto ai fonemi propri di quella lingua. Questo avviene perché alcuni grafemi sono usati per rappresentare più di un fonema (ad esempio in italiano c rappresenta sia il fonema /ʧ/, come in cena, sia il fonema /k/, come in cane) e alcuni fonemi mancano del tutto (ad esempio in italiano /ɲ/ di gnocco non è rappresentato nell’alfabeto, ma è rappresentato dal digramma gn). Si noti che lo stesso fonema può essere rappresentato in modo diverso negli alfabeti di lingue diverse: è il caso, per esempio, proprio di /ɲ/, che in spagnolo è presente nell’alfabeto con il segno ñ.
Una volta creato l’alfabeto, i grafemi divengono nomi comuni, quindi si pone il problema del genere da attribuire loro. Alcuni sono stati nella storia stabilmente femminili, perché terminanti per -aazetaacca; gli altri hanno sempre oscillato tra il maschile e il femminile fino a pochi decenni fa (si pensi all’espressione idiomatica mettere i puntini sulle i, nota anche nella variante mettere i puntini sugli i), per fissarsi generalmente sul femminile negli ultimi tempi (ma in realtà ancora oggi sono accettabili entrambi i generi, e le lettere dell’alfabeto greco sono considerate maschili). Tale oscillazione è dovuta alla possibilità di sottintendere, accanto al nome del grafema, tanto segno quanto, appunto, lettera.
L’alfabeto, dunque, è una costruzione altamente convenzionale, soggetta a molte spinte analogiche. Non devono stupire, pertanto, alcune incongruenze al suo interno, come la mancanza di alcuni suoni, la confusione di più suoni in un solo segno, e persino la mancanza di alcuni segni che pure si usano nella lingua (nell’alfabeto italiano, per esempio, mancano jkxyw).  
Per quanto riguarda la pronuncia dei nomi dei grafemi, le consonanti necessitano di una vocale di appoggio, visto che, come è noto, le consonanti “suonano”, cioè producono un suono, solamente quando sono accompagnate da una vocale. La vocale di appoggio nella storia dell’italiano è stata inizialmente la e, ma poi i parlanti hanno preferito la i (probabilmente perché è la vocale percepita come la più debole). Ci sono alcune eccezioni, dovute all’intento di evitare potenziali confusioni: effeemmeenne per esempio, non sono fimini per evitare la confusione con le omonime lettere dell’alfabeto greco. Questo, però, non ha indotto a cambiare il nome della p (identico al pi greco) in *eppeAcca ha un’etimologia incerta, elle e esse servono a evitare la confusione con li e sierre probabilmente è nato per evitare un nesso difficile da pronunciare: il ri
​Dovendo scrivere il nome di una consonante, si può scegliere se riportare il singolo grafema, ad esempio p, oppure rappresentare fedelmente la pronuncia, segnando anche la vocale di appoggio, ad esempio pi. Tradizionalmente, però, questo secondo modo è riservato alle lettere dell’alfabeto greco, per distinguerle dai grafemi latini, che si scrivono da soli.
I digrammi si possono pronunciare riportando la rappresentazione grafica al fonema corrispondente, oppure scandendo le componenti grafiche separatamente. La prima soluzione ha il difetto di risultare molto artificiosa, perché bisogna evitare di pronunciare la vocale di appoggio, altrimenti si crea un trigramma. Siccome questo è impossibile, si deve optare per la sostituzione della i con la vocale [ə], detta schwa, inesistente nel repertorio dell’italiano standard (ma esistente in molti dialetti). I trigrammi gli e sci sono più facili da pronunciare foneticamente, perché contengono la vocale i alla fine.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Storia della lingua
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QUESITO:

Perché secondo i più si dovrebbe dire “vado al mare” e non “vado a mare”?

 

RISPOSTA:

Andare al mare significa “andare in una località che si trova nei pressi del mare”. Se ci si trova in città, e si va verso una località del genere, allora si sta andando al mare; se, invece, ci si trova già in spiaggia, e semplicemente ci si avvicina al mare, non si sta andando al mare, ma piuttosto in acqua.

La forma “(andare) a mare” sembra essere non standard, ma diffusa solamente nel Sud Italia. Tra le ragioni che hanno portato alla sua diffusione possiamo immaginare che essa funzioni da compromesso tra al mare e in acqua nel caso in cui ci si trovi in una località marittima o balneare, ma non in prossimità del mare, e ci si stia dirigendo verso il mare. Questa condizione è tipica, ma non esclusiva, del Meridione (nella Liguria di Ponente esiste l’espressione “andare a spiaggia”, che sembra rispondere alla stessa esigenza di rappresentare la condizione di andare al mare pur essendo già molto vicini ad esso); su “andare a mare” deve aver influito anche il fenomeno linguistico dell’assimilazione, marcatamente meridionale, per cui al mare si pronuncia [am’mare] e da qui viene reinterpretato nello scritto come a mare.

A mare non è del tutto estraneo all’italiano: è accettato nello standard in pochissimi casi, come “buttare/buttarsi a mare”, “tuffarsi a mare” e simili; oppure nel senso di ‘sul mare’, come in “porta a mare”, usato da Guicciardini, “tira vento di greco a mare” (D’Annunzio), “passeggiata a mare”; e in alcuni toponimi, non a caso quasi tutti meridionali, Praia a Mare, Castello a Mare, ma anche Gatteo a Mare e, nell’Ottocento, Bologna a Mare, italianizzazione di Boulogne-sur-Mer.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Perché quando scriviamo un testo (in questo caso non intendo su un supporto digitale) non utilizziamo mai l’accento grave, ma su quelle parole per cui è prevista l’accentazione inseriamo solo quello acuto? Si può considerare grammaticalmente corretto o dovremmo essere a conoscenza di quei vocaboli che per natura portano l’uno o l’altro accento?

 

RISPOSTA:

L’accento è un tratto grafico piuttosto trascurato nella prassi della lingua. Per varie ragioni, che vanno dalla scarsa visibilità del corpo del segno alla limitata presenza del segno nel sistema, esso tende a essere omesso in scritti poco formali (nei testi dialogici elettronicamente mediati, ad esempio) e rappresenta uno dei tratti più problematici dell’apprendimento dell’ortografia. Stando così le cose, l’insegnamento scolastico tralascia quasi sempre l’argomento della distinzione tra accento grave e acuto, limitandosi a trattare l’accento in generale. Per questo motivo, gli scriventi adottano normalmente un unico tratto, che può coincidere con l’accento grave (dall’alto verso il basso, corrispondente a una vocale aperta), quello acuto (dal basso verso l’alto, corrispondente a una vocale chiusa), nessuno dei due (per esempio un segno piatto, oppure un quasi-apostrofo), o alternativamente l’uno o l’altro dei segni, senza la consapevolezza della differenza. È ovviamente più corretto differenziare i due accenti, anche se comunemente non si fa (e, bisogna dirlo, dal punto di vista fonologico cambia poco).
Alcune regole di base: in italiano l’accento grafico si segna solamente quando cade alla fine della parola. L’accento in fine di parola è quasi sempre grave. Se la parola finisce in aiu, per convenzione si segna sempre l’accento grave (alcune case editrici preferiscono l’accento acuto per la i e la u, che sono, effettivamente, vocali chiuse). Se la parola finisce in o, ha sempre l’accento grave, perché la o è sempre aperta in fine di parola. Se la parola finisce in e, hanno l’accento acuto solamente sé, i composti di che (perchénonchébenché…), la terza persona singolare del passato remoto di alcuni verbi della seconda coniugazione (abbattéperdépoté) e poche altre parole (nontiscordardimé). Per togliersi il dubbio è sempre bene consultare il dizionario. 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi trovo a dover descrivere due fenomeni opposti: in un caso il nome Apollonia viene storpiato in Polonia e immagino si tratti di aferesi. In un altro caso il cognome Gizziello viene storpiato in Egizziello. C’è un nome tecnico per indicare tale fenomeno?

 

RISPOSTA:

Il primo fenomeno è definibile come afèresi, mentre il secondo, l’aggiunta di un fonema o di una sillaba non etimologici all’inizio di una parola, come pròstesi. La prostesi più comune in italiano consiste nell’aggiunta di una i- eufonica prima di parole inizianti con s- seguita da consonante, quando siano precedute da parole che finiscono per consonante, per facilitare la lettura del gruppo, ad esempio: per iscritto, per ischerzo, in istrada . Oggi questo fenomeno è percepito come artificioso e antiquato ed è , pertanto, evitato. In alcune parole è avvenuta l’aggiunta di una a- sempre per rendere la pronuncia meno faticosa, così dal latino vulturem è derivato avvoltoio . Questo è il contrario di quanto è successo in altri nomi che hanno subito l’aferesi (perché la prima lettera è stata interpretata come un articolo determinativo o parte di esso), ad esempio rena dal latino arenam, avello da labellum, usignolo da lusciniolum ecc.

I casi da lei proposti sono dei veri e propri storpiamenti, probabilmente intenzionali e a scopo ironico, influenzati dall’assonanza dei cognomi con aggettivi di nazionalità.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Io lavoro all’università e malgrado la mia, diciamo così, buona conoscenza dell’italiano, mi trovo a chiedere sempre: ma come devo scrivere: l’8 aprilel’1 aprilelo 08 o lo 01? O è meglio scrivere il 1° o scriverlo in lettere? Inoltre, si scrive dall’1 o dallo 01?
E poi conseguente o consequente? Io ho scritto conseguente perchè da una azione primaria dovrebbero seguirne altre… consequenziali (o conseguenziali?). Sono giuste tutte e due?

 

RISPOSTA:

Tutti dubbi più che legittimi, stia pur tranquillo/a, e condivisi dalla gran parte degli italiani, anche colti, per via del fatto che certe cose non vengono (quasi) mai spiegate dalle grammatiche, oppure perché l’italiano è più elastico (e dunque ammette più soluzioni) di quanto comunemente si creda. Rispondiamo con ordine a tutte le sue domande.
1) Decisamente meglio l’8, l’11 ecc. La soluzione con lo zero davanti è tipicamente burocratica e da riservarsi a quei formulari che pretendono due cifre per ogni numero: 04/05/15 per il 4 maggio del 2015, per intenderci.
2) Se però il giorno del mese è il primo (nella scrittura distesa, meglio scrivere i numeri a lettere, piuttosto che in cifre, ma nelle date secche, e nei formulari burocratici, la scrittura in cifre è obbligatoria), allora sarebbe meglio scrivere “1° maggio”, piuttosto che “1 maggio”, e pronunciare “primo maggio” (o giugno ecc.) piuttosto che “uno maggio”. Questo per via della consuetudine antica (conservatasi quasi soltanto per il primo giorno di ogni mese) di intendere il numero del giorno come numero ordinale (primo, secondo ecc., sottinteso giorno) e non cardinale. Comunque, anticamente, si utilizzavano per le date anche i numeri cardinali, ma li si introduceva con gli articoli: per es., “li 22 di aprile”. Sottinteso: giorni. Naturalmente, li è un articolo arcaico, oggi non più possibile, anche se rimasto disponibile nei soliti formulari burocratici: es. Messina, li… Dato che è articolo e non avverbio di luogo, la forma con l’accento (pure talora attestata) è erronea: Messina, lì… Erronea perché, come ripeto, non si tratta di un avverbio di luogo.
3) Si dice e si scrive “dal 2 all’8”, “dal 1° al 10 luglio” e simili. Ovviamente, se il formulario impone sia l’articolo sia lo zero iniziale, l’unica forma corretta non può che essere “dallo 01 allo 08”, anche se, come ripeto, è brutto (sia a vedersi scritto, sia a sentirsi pronunciato) e burocratico. Meglio sempre senza zero.
4) Seguente e conseguente si scrivono con la g in quanto derivano direttamente dall’italiano, come participi presenti del verbo seguire. Invece consequenziale è ripreso dalla forma latina consequentia, e per questo si scrive con la q. Si tratta comunque, all’origine, sempre di eredi del verbo latino sequi. Tuttavia, quando la parola che ne è derivata in italiano ha avuto una trafila etimologica popolare, vale a dire di uso ininterrotto dall’antichità fino ad oggi, con tutti gli inevitabili cambiamenti fonetici, la q si è trasformata (tecnicamente, sonorizzata) in g, come in conseguenzaseguire ecc. Quando, invece, la parola che ne è derivata ha seguito una trafila dotta, recuperando cioè artificiosamente l’antica forma latina, la q si è mantenuta: sequenzaconsequenziale. Spessissimo, dalla medesima forma latina, derivano diverse forme italiane (dette allotropi) con esiti fonetici diversi. Per es., dal latino vitium derivano tanto l’italiano vizio, quanto l’italiano vezzo. Da radium derivano radiorazzo e raggio ecc. ecc.
Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Si scrive “ai bei e dolci momenti”, “ai begli e dolci momenti”, oppure “ai belli e dolci momenti”?

 

RISPOSTA:

L’alternanza tra bel e bello e, al plurale, tra bei e begli, segue gli stessi criteri di quella tra gli articoli il e lo e i e gli; quindi bel e bei davanti a consonante semplice o consonante diversa da s seguita da r o l (bel plenilunio ma bello sguardo), bello e begli davanti a vocale, s seguita da altra consonante (la cosiddetta s impura), palatale, zx (begli gnocchibegli zoccolibello xilofono) e gruppi consonantici vari, ps-pn- ecc. Davanti a vocale, bello è spesso eliso: bell’amico; al plurale, invece, l’elisione è vietata: *begl’amici.
Belli è una variante di begli che si usa solamente quando è alla fine della frase o, se la frase continua, quando è posposto al nome a cui si riferisce: “E c’era il sole e avevi gli occhi belli. Lui ti baciò le labbra ed i capelli” cantava Fabrizio De André nella Canzone di Marinella; “I regali belli sono quelli fatti con il cuore”, “Quest’anno i fuochi d’artificio sono stati i più belli di sempre”. Si usa anche quando è sostantivato: “Ma davvero i belli guadagnano di più” (ilsole24ore.it, 9 luglio 2018).
Nel suo esempio, quindi, la forma corretta è “Ai begli e dolci momenti”, perché begli è seguito da e. Non bisogna farsi ingannare dal fatto che l’aggettivo sia riferito a momenti, che, cominciando per consonante, richiederebbe bei: quello che conta nella scelta tra bei e begli (esattamente come nella scelta tra i e gli) è l’iniziale della parola successiva.
Se invertissimo l’ordine delle parole, potremmo avere “Ai dolci e bei momenti”, “Ai momenti belli e dolci” e altre combinazioni.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le tre frasi sotto indicate sono accettabili ed equivalenti?
1. Ho deciso di acquistare due regali: uno per Francesca, uno per Letizia.
2. Ho deciso di acquistare due regali: uno per Francesca, l’altro per Letizia.
3. Ho deciso di acquistare due regali: l’uno per Francesca, l’altro per Letizia.
Colgo l’occasione per domandare – a prescindere dagli esempi proposti – se, in generale, l’apostrofo per il pronome uno all’interno dei correlativi l’un(o)… l’altro e relativi plurali sia obbligatorio o facoltativo.

 

RIPOSTA:

​Le tre frasi sono valide e tutto sommato equivalenti. Volendo individuare una sfumatura semantica specifica, possiamo sottolineare che la 1 mette sullo stesso piano i due elementi correlati, mentre la 2 e la 3 distinguono tra un elemento che è uno e uno che l’altro, come se quest’ultimo fosse in subordine rispetto al primo. Per quanto riguarda l’articolo determinativo prima del pronome uno, dal momento che ci sono solo due elementi in campo la sua presenza è legittima, ma non necessaria, perché non può esserci che un solo uno autodeterminato: se, invece, gli elementi correlati fossero tre o più, ovviamente l’articolo non potrebbe essere usato. In quel caso le opzioni sarebbero: “Ho deciso di acquistare tre regali: uno per Francesca, uno per Letizia, uno per Maria”; “Ho deciso di acquistare tre regali: uno per Francesca, uno per Letizia, un altro per Maria”; “Ho deciso di acquistare tre regali: uno per Francesca, un altro per Letizia, un altro per Maria”.
Se la sua seconda domanda riguarda l’elisione dell’articolo determinativo, la risposta è che, in generale, l’elisione non sia obbligatoria, ma sia talmente comune da essere obbligatoria di fatto (molto strano sarebbe lo uno). Se, invece, la domanda riguarda il troncamento di un(o), questo è obbligatorio nel sintagma, tipico della lingua del diritto, l’un caso: “L’integrazione probatoria avverrà, quindi, nell’un caso, nelle forme del giudizio abbreviato e, nell’altro, in quelle del giudizio direttissimo” (da una sentenza della Corte costituzionale). È facoltativo, ma fortemente atteso, nel sintagma l’un l’altro: “Si salutarono l’un l’altro”. È, per il resto, vietato, anche con lo stesso sintagma l’un l’altro se i due termini correlati sono separati: “Si salutarono l’uno con un sorriso, l’altro no”. Oscillante il comportamento di l’un contro l’altro / l’uno contro l’altro, che dovrebbe prendere la forma normale senza troncamento, ma sul quale pesa il famoso verso manzoniano, risuonante nelle orecchie di tutti gli italiani, “L’un contro l’altro armato”, frutto della “licenza poetica”.
Ricordo, comunque, che il troncamento di un(o) rifiuta l’inserimento dell’apostrofo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo
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QUESITO:

Ho sempre problemi con le doppie. Come posso fare?
Grazie

 

RISPOSTA:

I suoi sono problemi più che legittimi, vista l’impossibilità a ricondurre la grafia delle doppie (o geminate) a una serie di regole semplici e sempre valide. Questo è stato a lungo un punto debole della norma dell’italiano scritto e ancora oggi molti parlanti sono incerti su alcuni casi, per via della discrepanza tra il parlato e lo scritto, perché non sempre a un suono rafforzato corrisponde un grafema raddoppiato. I casi problematici sono tanti e, in assenza di un rimedio certo, il primo consiglio che possiamo dare è allenarsi costantemente alla scrittura e alla lettura, non avendo mai timore o vergogna a usare il dizionario.
Per il resto, possiamo solamente accennare ai fenomeni principali alla base delle incongruenze tra il parlato e lo scritto, e suggerire alcuni accorgimenti pratici. Prima di tutto, osserviamo che le geminate possono occorrere solo tra due vocali o se precedute da una vocale e seguite da r o l (occorrereattritoapplausi): non è, infatti, possibile raddoppiare una consonante che si trova tra due consonanti (contratto) o tra una vocale e una consonante diversa da r o l (vescovo).
Molte parole che la maggior parte dei parlanti italiani pronunciano con una consonante rafforzata a cui corrisponde un solo grafema (che comunemente è chiamato lettera) sono latinismi (detti anche parole dotte), ovvero prestiti dal latino, che mantengono, in tutto o in parte, la forma grafica che avevano originariamente (un po’ come i prestiti dall’inglese, che nello scritto si mantengono inalterati, o cambiano di poco, mentre nel parlato si adattano quasi del tutto alla fonetica italiana). Un esempio di latinismo è vizio (dal latino VĬTĬUM), che, infatti, da Firenze in giù si pronuncia *vizzio. In italiano, i fonemi (o suoni) /ts/ e /dz/, che corrispondono entrambi al grafema z, sono sempre rafforzati quando si trovano tra due vocali, ma se la parola in cui uno dei due occorre è un latinismo, al fonema rafforzato corrisponde un solo grafema. Per questo motivo abbiamo parole popolari, nelle quali la grafia rispecchia la fonetica, come azzopparecarrozzacorazzapiazzapazziapuzzaspazzare ecc., e latinismi come armistizioospizioabbreviazionerazionesodalizioineziaspezia ecc. Purtroppo, essere consapevoli dell’esistenza dei latinismi non è utile nella pratica; non ci consente, cioè, di prevedere se un fonema si scriva scempio o raddoppiato. Un utile accorgimento, molto noto, è scrivere sempre scempia la z del suffisso -zione (tipico dei latinismi), ma anche quella della terminazione -zio-zia-zie con la i non accentata (ozioscrezioamiciziacalvizie) e comunque la z seguita dalla i non accentata, a sua volta seguita da un’altra vocale (come in prezioso e preziario, anche se alla base c’è prezzo). Se la z è seguita da i accentata le cose si complicano, perché abbiamo le parole popolari pazzia e razzia, e le parole dotte abbazia (anche abazia), democrazia e tutti i derivati da -crazia (burocraziaplutocraziatecnocrazia…).
Al contrario, le parole che finiscono con i fonemi /ts/ o /dz/ seguiti direttamente dalla desinenza (e ovviamente preceduti da una vocale) hanno tutte la doppia: lezzolizzapazzopezzopizzarazzarozzovezzo… Attenzione, il suffisso accrescitivo -one (come tutti gli altri suffissi: -oso-ino-erello…) applicato a queste parole mantiene la doppia z, quindi pezzonepuzzone ecc. (da non confondere con le parole in -zione come intuizionepozioneazionerazionestazione ecc.).
Specularmente, le parole che finiscono in -gione vogliono sempre una sola gragioneregionepigioneprigionemagionereligionestagione; tra quelle che finiscono in -ggio e quelle in -gio, invece, prevalgono quelle raddoppiate, ma bisogna stare attenti. Per la grafia del fonema /dʒ/ (corrispondente al grafema g seguito da i o e), infatti, oltre ai latinismi, creano dubbi anche i francesismi; dal francese derivano agio e disagiomalvagioregìa, ma anche paggiocoraggioselvaggioformaggio e, in generale, il suffisso -aggio. Il fonema /dʒ/, inoltre, è rappresentato da una g sola anche in bambagia (dal latino BAMBACĬAM, per effetto della sonorizzazione della /tʃ/), legittimo (dal latino LEGĬTĬMUM), regio ‘regale’ (dal latino REGĬUM, a cui si contrappone la parola popolare reggia ‘dimora del re’), rigido (dal latino RĬGĬDUM), rigettare (perché il prefisso ri- non produce assimilazione, diversamente dai prefissi che finiscono in consonante, come in-, da cui irrigidireirritualeirrevocabile) e simili. Un trucco, per la verità soggetto a coincidenze sfortunate, per indovinare con quante g si scriva una parola che termina in -agio o -aggio è separare quest’ultima parte dalla parte precedente: se rimane una parola di senso compiuto, o che si avvicina a una parola di senso compiuto, la parte finale è il suffisso -aggio, altrimenti la parola semplicemente finisce in -agio: quindi a vassallo corrisponde vassallaggio, a forma formaggio, al verbo pestare pestaggio e, meno chiaramente, a cuore coraggio, al francese ligne ‘discendenza’ (a sua volta dal latino LINĔAM) lignaggio, ancora al francese feurre ‘paglia’ foraggio ecc.; malvagio, invece, è una parola senza suffisso, così come contagio (coincidenza sfortunata: conta- potrebbe sembrare una parola, ma basta osservare che contare non ha niente a che fare con le malattie per riconoscere questo come un falso positivo), magionaufragioplagiopresagio (anche per presa- vale la considerazione fatta per conta- a proposito di contagio) ecc. Lo stesso trucco funziona per le parole terminanti in -eggio e -egioalpeggio (corrispondente a Alpi), maneggio (mano), palleggio (palla), ma ciliegiocollegio (che non ha a che fare con colle), egregiopregioprivilegiosacrilegio. Per la verità, in quest’ultimo si riconosce la base sacro, come in regio si riconosce re: sono i limiti di questo trucco un po’ arrangiato. Limiti ancora più evidenti quando -ggio e -gio sono precedute dalle altre vocali: in questi casi il trucco perde quasi del tutto valore. Bisogna dire, però, che si tratta di pochissimi casi. C’è una sola parola (a parte qualche altro termine raro) che finisce in -iggiopomeriggio; qualcuna in più finisce in -igio (bigiogrigioligiofastigiolitigioprestigioprodigio…). Pochissime anche quelle che finiscono in -oggioalloggioappoggio e poggiomoggiosloggio e poche altre; ancora meno quelle in -ogioelogiomogionecrologioorologio e poche altre. Non si registrano, infine, parole in -uggio (ma ricordiamo uggia ‘noia’), mentre rare sono quelle in -ugioarchibugioindugio, pertugiorifugiosegugiosotterfugio.
Anche tra le parole che finiscono in -ggine o -gine queste terminazioni sono quasi sempre precedute dalla vocale a (quindi -aggine o -agine). Poche di queste hanno una sola gcartilagineimmagineindagine, ma anche caligineoriginescaturiginevertigine. Molte di più sono quelle con la doppia g: si tratta soprattutto di parole che indicano difetti del carattere, come balordagginecafonagginecocciutaggineinfingardagginesbadatagginesfacciataggine ecc.; accanto a queste troviamo lentigginefuligginerugginetestuggine e poche altre.
L’opposizione tra parole popolari, che rispecchiano nella grafia la pronuncia delle consonanti, e parole dotte si manifesta anche nel raddoppiamento incostante della b: da una parte abbiamo abbiamo e abbiaabbaiareabbinarebabborabbiascabbia (anche rabbino, non dal latino, ma dall’ebraico rabbi ‘maestro mio’) ecc.; dall’altra abiettoabitareabitudineinibirebibitaimbibirerubino ecc. In un caso, vanno bene entrambe le soluzioni: obiettivo e obbiettivo. Il francese ha dato un piccolo contributo anche in questo ambito, con bobinacabina (da cabine ‘capanna’), carabina e carabiniere e qualche altra parola. Ad aumentare la confusione, può capitare che la parola base sia popolare, mentre le derivate (o alcune di esse) siano dotte: è il caso di dubbio, da cui derivano tanto dubbioso quanto dubitare; un caso simile a quello, già visto, di prezzo, legato a prezioso e preziario.
Ricordiamo, infine, le parole univerbate, che hanno la geminata per effetto del raddoppiamento fonosintattico. Questo fenomeno ci porta a rafforzare la consonante iniziale delle parole precedute da alcuni monosillabi (adaeèche e altri), pochi bisillabi (ad esempio sopra), e tutte le parole che finiscono con una vocale accentata. Per questo motivo re Carlo si pronuncia (tranne che in alcune regioni del Nord) reccarlo (cosa, tra l’altro, utile, perché permette di distinguere nel parlato re Carlo da recarlo ‘portarlo’, che si pronuncia come si scrive). Ovviamente, però, re Carlo si scrive così, con una sola C in Carlo, perché in italiano nessuna parola, che non sia un acronimo, può cominciare con due consonanti uguali (al contrario, esistono rarissime parole che cominciano con due vocali uguali: aalenianoiingaoocito e poche altre).
Alcune espressioni di largo uso nelle quali opera il raddoppiamento fonosintattico, però, con il tempo sono divenute parole uniche, ovvero univerbate, come appena (a + pena), dappoco ‘buono a nulla’ (da + poco), sebbene (se + bene), soprattutto (sopra + tutto), vieppiù (via + più) ecc. A volte l’univerbazione è opzionale; infatti si può scrivere anche a pena da pocoa capo e accapoda capo daccapo (ma se bene invece di sebbenesopra tutto al posto di soprattuttovia più al posto di vieppiù sono decisamente inusuali). Quel che conta, però, è che quando queste parole si scrivono univerbate, la consonante foneticamente rafforzata si scrive geminata, perché rappresenta il raddoppiamento fonosintattico prodottosi quando le parole erano separate.
Un tranello in cui non si deve cadere è unire nella scrittura espressioni che, sebbene del tutto simili ad altre univerbate, si scrivono ancora separate. Così, accanto ad apposta (a + posta) abbiamo a posto, che non si può scrivere *apposto (la parola apposto esiste: è il participio passato del verbo apporre; bisogna stare attenti a non fare confusione), ma anche a volte, che non si può scrivere *avvolte (anche in questo caso, la parola avvolte esiste: è il participio passato del verbo avvolgere), a poco a poco, non *appoco appoco ecc.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Buongiorno,

cortesemente siete in grado di aiutarmi a scoprire se esiste un significato per il nome di una ragazza conosciuta giorni fa? Il nome è MAVILLA; secondo la ragazza significa ‘prediletta’.

 

RISPOSTA:

Mavilla è un cognome italiano, piuttosto raro (ma comunque meno raro del nome proprio), presente soprattutto in provincia di Ragusa e in provincia di Parma. Potrebbe rientrare nel gruppo dei cognomi derivanti da toponimi, di varia origine, composti con villa ‘fattoria, tenuta di campagna’ oppure ‘città’ (nei derivati francesi). Ve ne sono con villa nella seconda parte (AltavillaBiancavillaFrancavilla…) o nella prima (VillanovaVillarosaVillasanta…). Per quanto riguarda il costituente Ma-, troppo facile sarebbe l’identificazione con l’aggettivo francese ma ‘mia’, che darebbe a Mavilla il significato complessivo di ‘la mia città’ (ma ville); in alternativa si può pensare che Ma- sia una deformazione di un costituente originariamente più lungo, che, però, non sono in grado di ipotizzare.
Proprio la difficoltà a identificare l’origine del primo costituente (ma anche il fatto che non risultano città, villaggi o contrade con questo nome) fa pensare che Mavilla non sia da accostare ai cognomi/toponimi con base villa, ma sia, bensì, un’altra delle tante varianti di un cognome molto diffuso in tutta Italia, MabiliaMobiliMobiliaMobilio, attestato fin dal Medioevo come nome proprio di donna, nella forma Mobilia (la o al posto della a può essere l’esito di una dissimilazione provocata dalla vocale finale), e plausibilmente evoluzione del nome latino *AMABILIA, legato all’aggettivo AMABILEM ‘amabile, degno di essere amato’ (vicino al significato supposto di ‘prediletta’). Non ho trovato attestazioni di AMABILIA nel mondo romano antico, ma l’esistenza di Mobilia giustifica l’ipotesi che esistesse un antenato AMABILIA, da cui, con una trafila diversa rispetto a quella che ha prodotto Mobilia, si è sviluppato Mavilla.
L’evoluzione da AMABILIA a Mavilla si spiega con una serie di passaggi: la caduta (aferesi) della vocale iniziale, provocata dalla confusione con la vocale finale delle parole precedenti (casi come cara Amabilia, che si pronuncia caramabilia, hanno prodotto alla lunga cara Mabilia); la spirantizzazione della labiale intervocalica (ovvero la trasformazione della [b], quando si trova tra due vocali, in [v]), come in habere > averedebere > doverecaballum > cavallo). La terminazione -lla invece che -lia (come in Mobilia), infine, può essere stata indotta dall’analogia con il suffisso -illa di altri nomi femminili antichi come CommodillaDomitillaPriscilla, forse rafforzata dalla somiglianza con il suffisso -ella, tipico, per varie ragioni, dei nomi femminili (AntonellaGabriella, Gisella…). Anche Mavilia è, comunque, attestato, soprattutto in Veneto.
Per quanto io parteggi per quest’ultima etimologia, riporto anche una terza possibilità, registrata dal dizionario I nomi di persona in Italia, di Alda Rossebastiano e Elena Papa (UTET, 2005): Mavilla potrebbe essere, secondo questa opzione, una variante del nome non latino (dal significato oscuro) Mavilo, legato, tra l’altro, a un martire cristiano del secondo secolo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Nome
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QUESITO:

Salve gentili linguisti. Il mio dubbio è: in linguistica che cosa sono i tratti intersegmentali? Potete spiegarmi che cosa riguardano? Che cosa sono? Che ruolo hanno? E la fonotassi ha a che fare con i fenomeni intersegmetali?
E per capire meglio gradirei cortesemente qualche esempio se fosse possibile. Chiedo gentilmente lumi. Grazie mille

 

RISPOSTA:

Più che di tratti intersegmentali, dovremmo parlare di fenomeni intersegmentali. Si tratta di quelle modificazioni subite dai singoli fonemi in relazione al contesto nel quale si vengono a trovare. Sebbene, infatti, sia possibile separare in astratto i fonemi gli uni dagli altri, nella realtà, quando parliamo produciamo una catena fonica continua e ciò ci porta ad adattare i singoli fonemi a quelli che precedono e a quelli che seguono, spostando leggermente il loro luogo di articolazione. Questa caratteristica della fonazione è detta anche coarticolazione, perché l’adattamento dei fonemi dipende dalla propagazione dei tratti articolatori associati ai fonemi ai fonemi circostanti. La coarticolazione è alla base della fonazione, per cui ogni volta che parliamo produciamo esempi di questo fenomeno. Giusto per ricordarne alcuni più evidenti per l’italiano: tutte le consonanti non occlusive sono pronunciate mentre le labbra sono già disposte nella posizione tipica della vocale seguente (si osservi la posizione delle labbra mentre si pronuncia la l di li e mentre pronuncia la l di lo); il luogo di articolazione della nasale [n] si sposta dai denti al velo palatino (differenza che, in italiano, non ha valore fonologico), a seconda che il fonema sia seguito da una consonante dentale, palatale o velare (si consideri la posizione della lingua nel momento in cui si pronuncia la n di interioreingenuoincurabile). Per quanto riguarda l’influsso del fonema precedente sul successivo, si osservi la posizione delle labbra durante la pronuncia della o di nord e durante la pronuncia della [o] di collera: in nord si mantiene la protrusione dovuta alla nasale precedente.
Tutti i fenomeni assimilativi, del resto, possono essere ricondotti alla coarticolazione, che porta due fonemi contigui a coincidere per facilitare l’articolazione della catena fonica continua (si pensi a casi come coctum > cotto o al siciliano vinniri per vendere). Anche nella dissimilazione la coarticolazione può avere un ruolo, anche se in questi casi i fonemi appartengono a sillabe diverse: arborem > alberomilitalis > militaris.
La fonotassi non è intaccata dalla fonetica intersegmentale. Ovviamente, però, avviene il contrario: la fonotassi influenza anche la fonetica intersegmentale, perché indica quali sono le sequenze fonematiche (sillabe, sequenze consonantiche e vocaliche) ammesse in una lingua, quindi indica quali fonemi possono trovarsi in sequenza (e, di conseguenza, interferire tra loro) e quali no.
Per riprendere completamente la sua vecchia domanda (si veda la FAQ  – Fonotassi e fonosintassi), i fenomeni fonosintattici sono sì di natura intersegmentale; il fatto che avvengano non all’interno della parola, ma tra parole è poco rilevante, perché, nella catena fonica, il confine tra le parole è spesso impercettibile.
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

Salve, vi scrivo per chiedervi gentilmente delucidazioni. Sto conducendo uno studio personale e mi sono imbattuto in questi due termini: “Fonosintassi” e “Fonotassi”. La domanda è : se dico “fonosintassi” e se dico”fonotassi” si intende la stessa cosa oppure sono due cose completamente diverse? Confondo un po’ e mi servirebbe gentilmente un chiarimento. La trascrizione di un suono in parole, ad esempio un cinguettio, il miagolio, l’abbaglio del cane, ecc. fa parte della fonotassi?
Grazie

 

RISPOSTA:

Nonostante il nome simile, i due oggetti sono molto diversi. La fonosintassi è un complesso di processi linguistici che coinvolgono sia la fonetica sia la sintassi, ovvero coinvolgono la fonetica nel momento in cui le singole parole si “toccano” all’interno della frase (questo avviene perché nella pronuncia le parole non sono separate, ma il confine finale della precedente si fonde con quello iniziale della seguente). Per fare qualche esempio, in italiano l’avverbio a volte si pronuncia [a’v:ɔlte], con una [v] intensa, per un fenomeno noto come raddoppiamento fonosintattico (per questo le persone meno abituate a scrivere scrivono l’avverbio *avvolte, riproducendo l’effettiva pronuncia del termine). Un altro processo tipico della fonosintassi italiana è la labializzazione della [n] davanti a un fonema labiale, come in con poco, che si pronuncia [kom’pɔko]. 
La fonotassi, invece, è una branca della fonologia (cioè dello studio dei fonemi caratteristici di una lingua). Questa disciplina indica quali sono le sequenze fonematiche (sillabe, sequenze consonantiche e vocaliche) ammesse in una lingua, e quali non sono ammesse. In italiano, per esempio, non è ammessa una sequenza consonantica del tipo [bll], cioè consonante seguita da consonante geminata. Tutte le parole di una lingua sono soggette alle restrizioni fonotattiche; nelle parole onomatopeiche, in particolare, queste restrizioni, insieme a quelle morfologiche, regolano il processo di trasformazione dei suoni naturali in parole. 
Una nota: il verso del cane in italiano non è l’abbaglio, ma l’abbaio, l’abbaiamento o l’abbaiare. 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gliaca, frazione del Comune di Piraino, si pronuncia con la g gutturale o dolce?

 

RISPOSTA:

La pronuncia corretta è [‘λaka], con la laterale palatale (come in scoglio, per intenderci). La pronuncia [‘gljaka], con la occlusiva velare (come in glicemia), si è diffusa probabilmente per la rarità del fonema [λ] ad inizio di parola in italiano.
Fabio Ruggiano

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