Nadia Urbinati, visiting professor presso il DiCAM, sbugiarda l’ideologia che nasconde le disuguaglianze. O, addirittura, le rende strutturali. «Che cos’è una società democratica giusta? Propongo questa imperfetta definizione: “Una società giusta è quella che consente a tutti i suoi membri di avere l’accesso più ampio possibile ai beni di base: l’istruzione, la salute, il diritto di voto e, più in generale, la più completa partecipazione alle varie forme di vita sociale, culturale, economica, civile e politica” – questo è l’obiettivo dell’articolo 3 della nostra Costituzione». Nadia Urbinati, docente di teoria politica alla Columbia University e Visiting Professor presso il Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università degli Studi di Messina, ha aperto con questa decisiva domanda la sua Lectio Magistralis, tenutaieri, presso l’Aula Magna del Rettorato.
Come ha ricordato il prorettore Giovanni Moschella, Nadia Urbinati ha trascorso il mese di maggio presso l’Ateneo peloritano, offrendo un ricchissimo ciclo di lezioni e seminari presso il DiCAM. Il prof. Giuseppe Giordano, Direttore del DiCAM, ringraziando le prof.sse Caterina Resta e Rita Fulco, responsabili dell’invito, ha voluto sottolineare l’encomiabile energia e la grande generosità di Nadia Urbinati, che ha dialogato con allieve e allievi del Corso di Studi magistrale in Filosofie del Novecento e del Dottorato di Ricerca in Scienze Umanistiche su decisive questioni inerenti alle teorie democratiche contemporanee.
La brillante lectio magistralis, che ha concluso il periodo di permanenza a Messina, ha suscitato un vivacissimo e costruttivo dibattito tra i presenti. “Il conflitto politico nel XXI secolo” era, infatti, il titolo della lectio, che ha affrontato non solo la differenza tra conflitto politico e rivolte, ma ha anche attraversato criticamente la storia concettuale del rapporto tra uguaglianza e disuguaglianza. Il nucleo scottante è stato, tuttavia, il tema del conflitto tra “i pochi” e “i molti” attraverso cui Nadia Urbinati ha fatto emergere come anche dietro obiettivi quasi universalmente accettati, come quello della “meritocrazia”, si nascondano e si radichino in modo profondo i germi della disuguaglianza.
Ma in che modo la disuguaglianza è legata alla “meritocrazia”? Dove si trova il punto di contatto tra questi due termini che sembrano opposti? La disuguaglianza non è qualcosa che c’è sempre stata e che la meritocrazia si propone di scardinare? Urbinati spariglia le carte e prova a mostrare come la meritocrazia possa diventare un’ideologia che, addirittura, giustifica la disuguaglianza e la rende accettabile: «Oggi si parla di merito più che di superiorità – sottolinea Urbinati – e la ragione sta nel fatto che in una società come la nostra, che ha abbracciato l’uguaglianza politica, è più difficile attaccare l’uguaglianza. Quindi sceglie una strada più astuta: esalta la disuguaglianza in meglio (il merito) che deve essere meritata e che è riconosciuta da tutti. E che, infine, ribadisce un ordine di superiorità». Cosa c’è di sbagliato in questo? Guardiamo al nostro passato, ci dice Urbinati. Da dove veniamo? Cosa abbiamo dovuto affrontare per arrivare fin dove siamo (o, attenzione, non siamo, non siamo potuti…) arrivare, secondo il dogma individualistico del farcela con le proprie gambe, con le proprie forze? Ecco svelato il sortilegio che nasconde sotto il materasso del tempo le disuguaglianze: «La competizione come la conquista del West, la società come prateria: potenzialmente tutti possono partecipare alla corsa e farcela. Il fatto taciuto o non trattato con la stessa acribia da questi teorici della gara individualistica per il benessere – ribadisce con veemenza Urbinati – è che appena la corsa comincia alcuni sono già avvantaggiati, e il loro vantaggio non si annulla con la competizione, ma si accumula e rende quella che era all’origine una posizione di partenza eguale una condizione di privilegio e di monopolio». Che significa? Semplice: se si è nati in una famiglia non benestante, se non povera, se non di migranti, se non di persone diversamente abili, e così via; se si è nati in una città, o in un paese, o in una piccola frazione del Sud Italia, o del Sud del mondo, davvero si hanno le stesse possibilità di riuscire nella società rispetto a chi è nato in una famiglia benestante, o in un luogo facilmente raggiungibile dai mezzi di trasporto, nel Nord? Che la risposta sia “no”, qui al Sud lo sappiamo bene.
Come ribadisce Nadia Urbinati, «per non essere privilegio truffaldino, il merito deve sprigionare da una società nella quale a tutti dovrebbe essere concessa un’eguale opportunità di formare le proprie capacità e accedere ai beni primari (diritti civili e diritti sociali essenziali) per poter partecipare alla gara della vita».