E’ stato pubblicato, sul Canadian Medical Association Journal, uno studio condotto da un gruppo di ricercatori Europei, sotto il coordinamento del Dott. Gianluca Trifirò, ricercatore dell’Università di Messina presso il Dipartimento di Scienze Biomediche, Odontoiatriche e delle Immagini Morfologiche e Funzionali, che ha dimostrato come l’antibiotico azitromicina (ampiamente utilizzato in pratica clinica) non è associato ad un aumentato rischio di aritmia ventricolare, patologia che può condurre alla morte.
L’azitromicina è un antibiotico appartenente alla classe dei macrolidi ed è principalmente indicato nel trattamento delle infezioni batteriche del tratto respiratorio ed urinario, in soggetti di tutte le età. Allo stessa classe farmacologica appartiene l’eritromicina, molecola nota per essere causa di alterazioni del ritmo cardiaco, inclusa aritmia ventricolare.
Diversi studi di recente pubblicazione hanno riportato risultati contrastanti sul rischio di morte conseguente ad aritmia ventricolare da azitromicina. Al fine di rivalutare tale associazione in ambito Europeo, è stato condotto uno studio internazionale, multi-centrico, di popolazione tramite un network di banche dati sanitarie da Regno Unito, Italia, Germania, Olanda e Danimarca che raccolgono complessivamente informazioni su circa 29 milioni di persone.
Da tale fonte dati sono stati identificati oltre 14 milioni di nuovi utilizzatori di antibiotici, di cui lo 0,1% (N=12.874) aveva sviluppato una aritmia ventricolare. Tra questi pazienti, 30 erano utilizzatori di azitromicina. Rispetto all’uso di amoxicillina, l’impiego di azitromicina non è stato però associato ad un aumento del rischio di aritmia ventricolare. Al contrario, tale rischio era aumentato rispetto a soggetti non trattati con alcun antibiotico.
“Questi risultati – ha commentato il ricercatore Unime, principal investigator dello studio – suggeriscono che il rischio di aritmia ventricolare è probabilmente legato allo stato di salute dei pazienti che hanno un’infezione che richiede una terapia con antibiotici, piuttosto che all’assunzione dell’azitromicina di per sé. Tale ipotesi è stata confermata dall’analisi delle singole banche dati e da ulteriori analisi di sensibilità”.
Gli autori precisano che i risultati dello studio non sono necessariamente trasferibili anche all’ambito ospedaliero, in quanto lo stato di salute dei pazienti e l’uso di antibiotici in questo contesto può essere diverso rispetto al contesto territoriale da cui provengono i dati utilizzati per lo studio.
Lo studio è stato svolto da ricercatori provenenti dall’Universita degli Studi di Messina, dall’Erasmus Medical Centre (Rotterdam, Olanda), Società Italiana di Medicina Generale (Firenze, Italia), PHARMO Institute for Drug Outcomes Research (Utrecht, Olanda), Leibniz Institute for Prevention Research and Epidemiology – BIPS Gmbh (Bremen, Germania), Università degli Studi di Bologna (Italia), Aarhus University Hospital (Aarhus, Danimarca) e King’s College London (Londra, Regno Unito).